Home
Su

Straripamento

Po, uno straripamento di ingiurie

Cementificazioni, sfruttamento delle ghiaie e inquinamento minacciano il prezioso ecosistema

di Danilo Mainardi 

Da "Il Sole-24 Ore" - Domenica 19 Agosto 2001

Torricella, Ragazzola, Roccabianca sono località della bassa parmense dove d’estate il sole picchia così forte da spaccare i sassi, dove le lanche sono il regno del pescegatto e delle zanzare. Ed è sugli alberi che in quelle acque si rispecchiano che le nitticore costruiscono i loro nidi. E’ da li che al tramonto alcuni adulti della colonia se ne partono in volo. Un tragitto breve, un pendolariato. Per buona parte del viaggio è il greto del torrente che guida gli aironi notturni come fosse una strada. Una decina o forse più arriva fino a Parma, la attraversa sorvolando il greto e vola ancora a sud, verso le colline. Certe notti, però, superato il ponte di mezzo, il che vuol dire la via Emilia, le nitticore scendono attratte dalle residue pozze d’acqua del torrente cittadino e dalle macchie di pioppi che offrono sicuri posatoi. Poi, con la luna già alta, si posano sul greto. C’è da predare: un brulicare di rospi piccolissimi, prodotto recente della metamorfosi dei girini delle pozze, poi rare bisce e il pesce che guizza ormai asfittico nell’acqua troppo poca, sporca e calda. Infine, prima dell’alba, il volo di ritorno.

Ogni notte è così, nella stagione estiva. Uno spettacolo per chi abita sul torrente. E quegli uccelli, neri contro il cielo, volando disegnano un tragitto che rappresenta il frammento di un incerto confine. Sarà anche niente la ventina di chilometri percorsa dal Po alla città di Parma, ma è pur sempre una linea, a volo d’uccello, che rimarca, fuori dal mondo acquatico, quello che è il limite estremo d’influenza, nel cielo, del sistema ecologico probabilmente più intricato, composito e fragile che esista, quello fluviale.

Non a caso ho segnato, grazie alle nitticore, un confine nell’aria: è il meno ovvio e serve, perciò, per pensare. Quegli uccelli che volano lassù, infatti, si nutrono di girini sul greto laggiù. Poi nidificano su alberi prospicienti le lanche entro le cui acque piovono, con conseguenze eutrofizzanti, i loro escrementi. Il confine celeste è una realtà anche se, per l’ecologia, queste separazioni sono sempre un po’ vaghe perché esistono, salvo eccezioni, aree sfumate di passaggio. Valgono dunque per quel che valgono. Quello che voglio dire è che un fiume è ben di più di un canale dove scorre dell’acqua.

 Se ha un qualche senso l’esercizio di considerare il pianeta come se fosse un organismo, allora il fiume, ogni fiume, è indubbiamente da riconoscersi nell’apparato circolatorio sia per le funzioni (di ossigenazione, di purificazione) che per la struttura. Dal suo letto infatti penetra in profondità col sistema delle sue acque sotterranee. In superficie si dirama in affluenti, ruscelli e rivoli formando una trama che tutto irrora. Talora scava gravine, antichi siti abitativi di un umanità cavernicola, ora ambiente d’immenso valore per la qualità della natura e per la storia di primitive culture. Il fiume inoltre s’esprime lontano dal suo corso con sorgenti, risorgive e fontanili. Parte dai monti, viaggia e raccoglie nel piano grazie alla rete degli affluenti, e così, con la qualità delle sue acque influenza l’acqua salmastra e quindi salsa, e poi i fondali, la vita stessa dei mari in cui termina il suo tortuoso percorso.

Gli sfumati confini del sistema fiume includono una grande porzione di natura. E’ dunque facile ferirlo, e ogni pugnalata infetta può provocare cascate di ricadute negative. Spesso lontano, lontanissimo. La recente dolorosa lacerazione provocata dai lavori per l’alta velocità ai fiumi e ai torrenti del Mugello può trovare il suo evento simbolico nei caprioli costretti, per i torrenti estinti e le sorgenti prosciugate, ad abbeverarsi alle fontane delle case. Ma, al di là di questo fatto che ha così fortemente colpito l’immaginazione, quante sono le specie, gli ecosistemi distrutti? Penso, per dirne una, alla fondamentale, seppure microscopica, fauna interstiziale, probabilmente soppressa per la scomparsa totale dell’acqua o per i folli tassi d’inquinamento indotti. Penso al fragile equilibrio dei macroinvertebrati, insostituibili indicatori della qualità delle acque nonché importante supporto alimentare per buona parte della fauna ittica, specie i salmonidi (ma ci saranno ancora?). Ricadute negative a non finire, dunque, in quegli ambienti.

È enigmatico e conflittuale il rapporto dell’uomo col fiume: amore, paura, indifferenza s’alternano e s’accavallano, e ciò da sempre. Una storia complessa, con ricordi di ferite antiche.

Ricordi perfino letterari. Istruttivo il Bacchelli de Il mulino del Po: «Fatto sta che in pochi anni fu distrutto quel che vuol lustri e decenni ad esser rifatto: l’antico boscoso Appennino divenne tutto una frana e un tristo e sterile scoscendimento di argille. Dicevano che se ne risentisse perfino il clima generale...; certo quella rovina dei monti rinsecchiti dalla distruzione dell’immenso serbatoio vegetale ch’è il bosco, inaridiva anche le vene segrete della pianura e l’assetava; ma sì fece sentire più gravemente e subito nei fiumi, colle piene ogni anno più rabbiose e rovinose... Si lamentava poi la gente fluviale, che la cresciuta quantità di limo disturbasse i pesci e isterilisse le loro uova, compromettendo una delle ricchezze del Po, cioè lo storione».

Una descrizione straordinariamente attuale, se si pensa che è stata scritta tra il 1938 e il 1940 e che racconta del grande fiume in un periodo compreso tra il 1812 e il 1918. Tanto tempo fa, e da allora, e sempre più, s’è continuato a infierire contro la salute del Po e degli altri nostri fiumi. L’elenco degli interventi è lungo assai: alla deforestazione e alla distruzione della fauna (di cui già si diceva nel Mulino) sono da aggiungere la cementificazione, le dighe, gli invasi e le tante altre opere di cosiddetta sistemazione idraulica, lo sfruttamento delle ghiaie e delle sabbie, gli inquinamenti industriali e agricoli, gli scarichi delle città che hanno fatto dei fiumi fogne a cielo aperto. E evidente che non tutti gli interventi sono stati, e sono, necessariamente negativi (e d’altro canto esistono situazioni in cui l’uomo deve intervenire), rimane comunque l’incontrovertibile constatazione che, se i nostri corsi d’acqua sono malridotti, ciò complessivamente è dovuto alla scarsa lungimiranza dell’azione umana per quanto concerne la salvaguardia ambientale.

 Pare, comunque, che si stia cominciando a comprendere qualcosa: secondo una recente indagine del Cirm, il 64 per cento degli intervistati (un campione consistente e rappresentativo) anteporrebbe la salvaguardia ambientale alla costruzione di nuove infrastrutture.

La cosiddetta “gente”, pertanto, qualcosa avrebbe capito, forse per buon senso o forse per paura, o forse perché un po’ d’educazione ambientale comincia a dare frutti. Il pericolo, per la poca integrità che resta dei nostri fiumi, è piuttosto rappresentato da certi tecnici troppo innamorati delle loro specializzazioni disciplinari per poter comprendere l’ampiezza e la trasversalità dei problemi dell’ecologia fluviale. Eppure non dovrebbe essere difficile, se si placa l’arroganza disciplinare, comprendere che nel possibile conflitto d’interessi tra la natura e un certo tipo di cultura materiale (altro non sono le infrastrutture) esistono consistenti motivi per cui gli interessi della natura dovrebbero venire privilegiati. In primo luogo perché il danno indotto alla natura non è più aggiustabile se non su tempi lunghissimi e nemmeno sempre. In secondo luogo perché non c’è interesse davvero generale che possa sopravanzare la salute dell’ambiente in cui tutti noi viviamo. E si vero che certi interventi possono, sui tempi brevi, procurare benefici magari notevoli, ma cosa vengono a costare, sui tempi lunghi, per le ricadute di una natura violentata? Occorre molta prudenza e molta sapienza (specie naturalistica) prima di programmare interventi con possibile impatto sull’ecologia fluviale.

Ha scritto Pier Francesco Ghetti, il nostro maggior esperto in ecologia dei fiumi: «L’emarginazione del paesaggio fluviale va ricercata anche nel suo degrado, ma questa rimozione comporta come conseguenza un disinteresse per la sorte del fiume e rende sempre più difficile il suo recupero. Se oggi i nostri fiumi assomigliano sempre più a una parodia dei paesaggi tibetani in cui si sono sostituiti ai messaggi di carta appesi al rami le plastiche trasportate dall’ultima piena, è anche perché non decidiamo di farne un luogo di rispetto. Non si vede un solo atto di amore per la purezza delle acque e dei fiumi, anche se la qualità di questa materia continua a segnare la linea di demarcazione fra il bello e l’osceno, la civiltà e l’inciviltà, la qualità della vita e lo squallore. Tutto questo perché al bisogno di controllare e di sfruttare l’acqua e i fiumi non abbiamo saputo far seguire una cultura di “governo” dell’acqua e del territorio.

Tante mani diverse si sono preoccupate di come sfruttare le risorse del fiume, ma nessuno si è occupato del fiume».