DOMENICO CACOPARDO, Giacarandà
Marsilio, 2002, 200 p.
(Romanzi e racconti)

Biografia autore

Intervista all'autore

Approfondimenti....

Il romanzo

Sicilia orientale, 1747. Il marchesino Giulio Limiri dedide di costruire una nuova casa di famiglia in riva al mare nella baia chiamata seno Pelagio, sotto Taormina. Proprio lì, incontra la giovanissima figlia di don Carmelo Mondio, Matilde, che gli accende l’animo di passione. Inizia così l’avventura del marchesino, coinvolto, suo malgrado, nella terribile sotterranea contesa tra gesuiti domenicani, spalleggiati rispettivamente dal duca Gregorio di Elinunte da don Arcangelo Tascio. Sarà Agatina, l’amante di don Giulio che, delusa nelle sue attese dal nuovo amore per Matilde, innescherà la faida che porterà allo scontro cruento. Persino la marchesa Limiri, donna Aurora Tariano, finirà nelle segrete del convento di San Marco adibite a prigioni della sacra Inquisizione. Don Giulio riuscirà, comunque, a portare a termine la costruzione del palazzo alla marina, che con la stazione di posta e poche casupole di contadini e di pescatori, costituirà il nucleo di un nuovo paese: Letojanni.

Il corso delle cose si dipana attraverso un lunghissimo anno sino alla provvisoria conclusione nella quale felicità e infelicità coesisteranno nella apparente pacificazione generale. Una storia di passione e potere, dove gesuiti e domenicani in perenne contesa sfruttano odi, inimicizie e debolezze delle famiglie locali per il controllo del territorio e la supremazia.


Le prime righe 

Sembrava un giorno come gli altri: il paese immobile, senza un alito di boria, sotto il sole di un giugno inoltrato.

Ragli d’asino e latrati di cane rompevano il silenzio.

Il marchesino don Giulio Limiri di San Gabriele si era svegliato alle undici, aveva fatto colazione a letto ed era sceso in piazza alle dodici e mezzo suonate.

C’erano tutti ad aspettarlo: il fratello Nicola, i cugini Pappalardo, don Antonio, il mastro muratore più accreditato della zona, e don Lucio Calco, il maturo parroco.

«Sbrigatevi. Voglio andare. Sellate i cavalli, partiamo subito» ordinò il nobile.

«E tutto lesto, signoria» rispose Nino Móllica, il fidato stalliere, che lo seguiva sempre come un’ombra.

All’una s’incamminarono.

Raggiunsero la valle del Chiodaro, scesero con cautela nell’alveo e presero un trotto sostenuto.

Alla confluenza con il Letto, rallentarono. «Andiamo alla marina. Mangiamo da Antioco e poi vi mostrerò la località che ho scelto» annunciò il marchesino.

Aveva quarant’anni.

Solo i capelli leggermente ingrigiti ne denunciavano l’età.

Per il resto appariva ancora giovane: asciutto, non molto alto, il naso pronunciato e gli occhi cerulei, di ghiaccio, che penetravano il volto di chiunque gli stesse di fronte.

Un uomo risoluto, insomma, che incuteva rispetto a prima vista.

Era ancora scapolo.

Il fratello minore, Nicola, sperava ardentemente che rimanesse tale. Così, se non il comando della casata, avrebbe potuto prendere in mano, a tempo debito, tutto il ben di Dio di famiglia.

Poco prima delle due, al passo, il gruppo percorse la grande spiaggia dai ciottoli arroventati: si era levato un modesto vento di maestrale che sollevava un lieve pul­viscolo e rendeva il caldo sopportabile.

La foce del Letto era in asciutta.

Sulla strada, preannunziata dai corni di viaggio, la diligenza per Catania, lasciatasi indietro una colonna di carretti con derrate e masserizie, si apprestava a raggiun­gere la stazione di posta in un turbinio di polvere.

Non molto lontano, oltre la sponda ovest del fiume, superatene le ghiaie, nei pressi dell’antica costruzione del Baglio, c’era una grande capanna di frasche vicino alla quale era sistemata una barca da pesca di venticin­que palmi.

In secca sulla riva si vedeva anche lo zatterone che, quando il torrente non era in piena tumultuosa, serviva ai carri e ai viandanti per traghettare da una sponda all’altra, con l’aiuto di robusti tiranti che né impedivano il trascinamento a valle sino alle acque del golfo.

La capanna era ciò che i gentiluomini cercavano:

Antioco, un vecchio uomo di mare che era stato imbarcato su sciabecchi e feluche, il cui nome dimostrava, insieme alla locale devozione per santa Greca, vecchi legami con marinai, pirati e trafficanti corsi e sardi, cucinava ai frequenti viaggiatori il pescato della notte su un fuoco di rami secchi appoggiato lì, sulla rena.

In allegria, i cavalieri smontarono, si tolsero le giubbe e si accomodarono sugli sgabelli di ferla che, insieme a rozzi tavoloni, costituivano gli unici arredi del posto.

Solo Nino, legati i cavalli, non si sedette: rimase in piedi, con le due pistole ben visibili nella cintura dei pantaloni, accompagnate da una corta sciabola da assal­to infilata più in basso, in una sorta di larga fusciacca azzurra.

Trascorse un paio d’ore, dopo avere apprezzato di­verse grigliate di pesce freschissimo e, da ultimo, le tri­glie imperiali di scoglio che erano rinomate in tutta la costa da Messina a Catania, don Giulio invitò i com­mensali a risalire sulle proprie cavalcature e a dirigersi verso est, alla volta del Capo di Sant’Alessio.

Traversato il fiume, la compagnia proseguì per poco meno di trecento passi sino a quando don Giulio si fer­mò davanti a una sterpaglia confinante con la spiaggia, recintata da una spessa siepe di tamerici e sambuchi.

«Qui» disse don Giulio, «qui, realizzeremo la casa Limiri alla marina. Ci distaccheremo settantacinque canne dalla riva per costruire lungo la strada. Voglio un vero palazzo, capace di ospitare tutta la famiglia. Dieci, dodici camere da letto. Sulla facciata, ai lati del portone, ci metteremo due colonne di arenaria. Voglio che si proceda subito per il pozzo e per lo scasso del basamento. Sul lato del mare, ben distaccato dal fabbricato, un mandrile in pietra, un alto mandrile, per sei, Otto cavalli e poche capre. Don Antonio, intendo vedere qualche vostro disegno e conoscere il giorno esatto in cui comincerete i lavori. Faremo una festa qui, sulla spiaggia, con tutti i parenti e gli amici del marchesato. Inviterò anche il duca di Elinunte. Oggi, per grazia di Dio, è il dician­nove di giugno del millesettecentoquarantasette e que­sto anno sarà inciso su una pietra della cava di Tortorici che sarà calata nelle fondamenta.»


Hanno scritto del romanzo.....

Giuseppe Amoroso, Gazzetta del Sud

Grazia Casagrande e Giulia Mozzato, Librialice


Torna alla pagina principale