MASSIMO PIETROSELLI , Il palazzo del diavolo Mondadori, 2005, 373 p.
(Il giallo Mondadori, 2890)

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Intervista all'autore

Approfondimenti....

 

Il romanzo

Roma, Anno Domini 1875. La città è divisa fra il nuovo volto di capitale del Regno d’italia, con la conseguente amministrazione e la necessaria forza pubblica, e la vec­chia facciata dei nostalgici del regime pontificio. Su que­sto sfondo si staglia un omicidio strano, dal sapore occulto: nel cortile di palazzo Costanzi, edificio ormai in rovina che il popolo ritiene infestato da diavoli, viene trovato un uomo con la gola tagliata; accanto gli è stata di­segnata col sangue una stella a cinque punte. Un rito satanico? L’ispettore di polizia Corrado Archibugi, tenace e diligente piemontese, e il suo collega Onorato Quadraccia, uno sbirro di Trastevere senza troppi scrupoli, si immergono con una duplice inchiesta nelle pieghe nascoste della città eterna.


Le prime righe 

Corrado Archibugi era un uomo metodico: sempre lo stesso percorso per andare da casa fino alla Regia Questura, da un anno che era a Roma.

- Un’altra bella giornata, soreccellenza mia - lo salutò ironica la portinaia Pasquina, quando uscì dal vec­chio palazzo sbiadito dal tempo.

Il cielo era sporco di fredde nubi scure. Sui muri scalcinati l’umidità incupiva antiche macchie e sul selciato irregolare il cielo si rifletteva in pozze d’acqua fangose. Massaie, facchini, un curato, un paio di carabinieri, ma­novali, tutti si muovevano in fretta lungo la via già brulicante di vita e di chiacchiere.

Corrado si strinse nel cappotto e risalì vicolo del Governo Vecchio, mentre sopra la sua testa le donne si scambiavano novità dalle finestre. Camminava svelto, nonostante la vecchia ferita che col freddo si era risvegliata e gli provocava dolorose fitte alla gamba. Appoggiandosi al bastone che usava in quelle giornate, incrociò via di Sora, una sporca viuzza che portava al Tribunale e tirò dritto.

Di lì a qualche anno, quelle strade sarebbero state spazzate via dal rettifilo di corso Vittorio e lui avrebbe avuto non poche difficoltà a raccapezzarsi, per mostrare ai figli dov'era il palazzo in cui aveva abitato appena era arrivato a Roma, e si sarebbe chiesto che ne era stato della vecchia Pasquina. Ma gli sventramenti, al momento, erano lontani.

Corrado passò davanti a un venditore di maritozzi, che strillava con voce roca che “quella settimana toccava alli innamorati”, mentre nelle settimane precedenti il turno era stato dei “presciolosi” e poi degli sposi. Lanciò un’occhiata al banchetto, ai dolci grossi come pagnotte, inzeppati di uvetta e pinoli, che i romani mangiavano nel periodo quaresimale, e sentì una fitta al fegato. Sapeva che, rientrando a cena, Pasquina gliene avrebbe fatto trovare uno, e avrebbe di certo alluso agli innamo­rati, tale e quale sua madre. Si arricciò soprappensiero i folti baffi scuri ben curati.

Sbucò su via del Governo Vecchio, girò a destra e si incamminò verso palazzo Braschi, sede della Questura, della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’interno. Il delegato di Pubblica Sicurezza Oreste Scialoja, che conosceva bene le abitudini dell’ispettore, lo incrociò giusto davanti alla statua di Pasquino, risalendo la via a bordo di una vettura di piazza.

Corrado capì subito e saltò sulla carrozza. Il delegato batté con il pomo del suo bastone sulle spalle del vetturino e le ruote di legno presero a ruzzolare sui sampietrini sconnessi.

- Dalle parti di Ripetta, a palazzo Costanzi - annunciò il delegato, a voce bassa.

- Quando?

La carrozza sobbalzava e le vecchie molle cigolavano. Archibugi cercava una sistemazione decente sullo sgangherato sedile, quasi del tutto occupato dalla mole voluminosa di Scialoja, che sedeva immobile come un Buddha, le mani poggiate sul bastone serrato tra le ginocchia. Il delegato era un uomo massiccio, una testa quadrata, la barba incolta, i capelli grigi che uscivano da un cappellaccio di poco prezzo tirato un po' indietro sulla fronte. Archibugi, magro e vestito come uno dei tanti ministeriali piovuti a Roma da tutta Italia dopo l’Unità, accanto a Scialoja sembrava un bambino che il padre stava accompagnando a scuola.

- Ieri notte, pare. Ma l’hanno trovato stamattina.

- Si sa chi è?

- No, niente. Appena m’hanno informato, ho pensato di recuperarti strada facendo. Grazie a Dio, sei preciso come una sentenza.

- Dove l’ha trovata, questa carrozza?

- Come, dove l’ho trovata? Confiscata al volo, che do­manda!

- Confiscata un par de palle! - si intromise il vetturino. - M’aveva detto che mi pagava, m’aveva detto!

- Sì, sì, va bene, ma adesso corri. Ecco, gira qui, svelto...

Archibugi guardava i vicoli di Roma sparirgli dietro le spalle e cercava di orientarsi in quel labirinto di stradine per lui in gran parte sconosciuto, sperando in qualche chiesa o monumento che facesse da punto di riferimento. Ecco, adesso erano sbucati in via dei Coronari. Gli sembrava, ma subito avevano abbandonato quell’arteria e s’erano intrufolati tra vicoli bui e maleo­doranti. Il conducente rallentava tirando bestemmie, badando a che la carrozza non si incastrasse tra i muri delle case grattando via l’intonaco con i mozzi delle ruote. Ogni tanto una rapida occhiata di Archibugi fini­«va per infilarsi in un portone, in un uscio aperto, in una finestra, e captava così immagini di umile vita domestica anziane massaie coperte di stracci multicolori intente a pulire verdura in tegami bruciati, ragazzini che schiamazzavano giocando in scuri cortili screpolati dal tempo e dall’incuria, poveri panni che venivano sciorinati nelle strade. E anche gli odori si mischiavano in quella corsa verso il cadavere: l’odore del cibo, della legna bruciata e il tanfo di putrefazione che saliva dal Tevere, al quale la carrozza si andava avvicinando. E poi c’era quella penombra fredda, accentuata dalla mattinata nuvolosa, che faceva sembrare i palazzi, già cadenti e sporchi di macchie d’umidità, dei vecchi malati senza speranza.


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