Mi chiamo Marilse Cardullo, sono nata in Alessandria d'Egitto nel 1947 e vivo a Milano dal 1957. La storia che intendo raccontare è forse un po' banale rispetto ai racconti concreti di "'vita vissuta e realizzazione di grandi opere" patrimonio della generazione che mi ha preceduto, ma è uno squarcio di memorie che ritengo comune a molte italiane che lasciarono l'Egitto piccole come me.

    Ringrazio per l'opportunità che avete creato per raccogliere queste testimonianze. Mio padre l'avrebbe apprezzato molto.

Anch'io sono un'italiana d'Egitto

    Mi spiace che mio padre, Nicola Ferdinando Cardullo, deceduto a Maggio del 1981, non abbia fatto in tempo a vivere i prodigi dell’informatica. Si sarebbe messo in contatto e-mail con tante persone, ne conosceva tantissime, forse anche tutte quelle di cui si parla in questo sito.

    Io posso raccontare di più come persona vissuta "dopo la partenza dall’Egitto".

    E’ in memoria di mio padre che farò appello a tutto ciò che mi è rimasto impresso nel cuore e nei ricordi perché della sua esistenza resti una traccia ancora "viva" nel presente e nel futuro, per non dimenticare . Lo spero tanto e questo per tutti gli italiani che in tanti modi dopo la partenza dall’Egitto hanno cercato di mantenere un legame e di dare un senso al loro passato perché non vada disperso, nel presente e nel futuro.

    La mia testimonianza è come un "puzzle", un po’ difficile da comporre, perché si baserà solo sui miei ricordi di bambina e di ciò che mi è stato raccontato dai miei genitori della loro vita precedente alla mia nascita.

    Papà era del 1910, venne via da Alessandria nel Febbraio del 1957, aveva quindi 47 anni.

    Non avrebbe mai lasciato Alessandria. Due fratelli di mia madre, Elena D’Angelo, lo zio Amedeo che aveva un negozio di riparazione radio, e lo zio Vittorio, che aveva un laboratorio di materie plastiche, gli misero praticamente in mano la valigia, convincendolo che doveva partire e che questa era per la mia famiglia un’occasione da non perdere. Attraverso una nipote di Milano gli veniva offerta l’opportunità di un posto di corrispondente presso la British European Airways a Milano.

    Avevo 9 anni e ricordo il clima teso di quei mesi che anticipavano la nostra partenza che seguì nel mese di maggio, quando con mia madre e mio fratello Piero raggiungemmo papà con la motonave Enotria a Venezia, dove era venuto a prenderci per portarci a vivere a Milano.

    Abitavamo in rue Boubastis, a Cléopatra les Bains, la strada terminava alla Corniche e dal balcone di casa, un palazzo alto (eravamo al 5° piano), tutte le mattine mi affacciavo per vedere se il mare era calmo o mosso. Tra la musica araba delle radio sempre accese e il via vai della strada saliva nell’aria il profumo del pane del forno di Agropoulos, la pasticceria che era di fronte casa, che faceva dei magnifici babas e yogurt di una bontà mai più ritrovata. Ricordo che dal lato opposto della strada c’era una ‘rotonda’ con un negozio di Bata. Questa rotonda dava sulla rue Ibrahimieh, dove, molto più avanti, c’erano la Chiesa del Sacro Cuore con la Scuola delle Missionarie Francescane, che ho frequentato fino alla 5° elementare, e il College Saint Gabriel, dove studiava mio fratello.

    Papà, molto stimato nel lavoro per il suo rigore e impegno (prima della guerra lavorava alla General Motors), era corrispondente in lingue in una ditta greca che importava marmo, di cui ricordo il nome del titolare, Paul Michaelidis, nella zona del Porto di Alessandria. Per lui, ultimo rimasto di tre fratelli ( i miei zii Goffredo e Oreste erano già deceduti) quella di lasciare l’Egitto fu una decisione molto difficile da prendere. Mio nonno paterno era morto l’anno prima e mia nonna era molto malata. Andarsene significava perdere un buon lavoro, i riferimenti concreti della vita vissuta in quel paese, amici, casa, ricordi, ma soprattutto i suoi cari defunti, lì sepolti. Obbligato, come tutti gli italiani già partiti e quelli che sarebbero seguiti, da un clima politico divenuto assolutamente inospitale per gli europei, prese questa decisione e partì, sperando in un buon futuro per la famiglia, dopo la guerra e l’internamento al Fayed, per approdare finalmente a quell’Italia tanto amata, che per lui costituiva un valore della vita, come credo per tutti gli Italiani in Egitto che amavano l’Italia più degli Italiani stessi che ci vivevano.

    La nonna morì nel lasso di tempo tra la sua partenza e la nostra. Papà dovette anche affrontare questa prova del destino.

    Ricordo quando lo accompagnammo alla stazione, il treno che partiva per portarlo all’aeroporto del Cairo…. 

    Papà era sempre stato con noi, era strano vederlo andar via. Tutto per me era insolito in quel periodo, non avevo consapevolezza di ciò che stava accadendo. Un po’ per volta, dopo la morte della nonna, gli zii e i cugini rimasti e che in seguito partirono per Roma, ci aiutarono ad organizzare la partenza. Ricordo la casa che si svuotava a mano a mano dei mobili, i casigliani che ci chiedevano con stupore perché ce ne andavamo via ( non a tutti, anche egiziani, faceva piacere vederci partire).

    Della mia infanzia non ricordo molto, ho presente soprattutto la mia scuola, l’Istituto delle Missionarie Francescane di Ibrahimieh, la bella Chiesa del Sacro Cuore con quei due maestosi leoni di marmo a fianco della gradinata davanti all’entrata.

    Ricordo Padre Ludovico con la barba bianca, mi viene sempre in mente quando ho in mano un calendario di Frate Indovino, ricordo Padre Tranquillino, che mi mandò il Certificato originale di Battesimo quando mi sono serviti i documenti per sposarmi, ricordo le suore, in particolare Suor Leonarda Vaccaro, originaria della Provincia di Pavia, le maestre italiane Silvana e Aurora, e mi ricordo della loro severità (forse un po’ eccessiva), dei nostri grembiuli bianchi con cappello di paglia d’estate e blu con cappello di feltro d’inverno.

    Ricordo il grande cortile della scuola, le processioni in occasione di ricorrenze religiose, una colonia marina estiva con una bellissima spiaggia dalla sabbia fine e fondale basso, le recite cantate in onore del console d’Italia in visita, il parco del palazzo del re Faruk a Montazah quando ci andavamo con i cugini D’Angelo a Pasquetta. Ricordo le Passeggiate a Smouha con mio nonno, appassionato di musica lirica, da cui avevamo imparato a cantare “la donna è mobile qual piuma al vento…….” , il nonno poi, ci costruiva i fischietti intagliando delle canne.

    Ricordo la bontà e la freschezza del succo di canna da zucchero, le falafel, la kounaffa, la halua, i hommos, i reghif (per me il pane più buono insieme con le baguettes francesi).

    Le mangiate di pesce e di granchi quando lo zio Vittorio andava a pesca. Quando non lavorava, lo zio era sempre con la canna da pesca in mano. Al termine della giornata di pesca, sempre abbondante, faceva il giro dei fratelli e sorelle, dispensando pesce freschissimo a tutti.

    Ricordo le tombole a Natale a casa di un altro fratello di mia madre, lo zio Stelio ( i fratelli D’Angelo, nati a Porto-Said, erano in tutto dieci, sette maschi: Sandro, Stelio, Giovanni, Giuseppe, Vittorio, Amedeo, Ettore e tre femmine: Adelaide, Jolanda, Elena), in allegra compagnia di tanti zii e cugini.

    Ricordo mio padre dopo cena accanto alla radio, una Ducati – cimelio ancora lì a casa di nostra madre – intento a sentire il giornale radio dall’Italia mentre ci lustrava le scarpe che avremmo calzato l’indomani…..

    I ricordi brutti sono quelli del coprifuoco e dei bombardamenti sul Canale di Suez, i cui echi arrivavano fino in Alessandria, rumore di aerei che passavano sul mare, la sirena che suonava, il buio totale in casa salvo un lumino fioco nell’ingresso, le persiane oscurate con la carta scura, i fari delle auto oscurati anch’essi, qualcuno che gridava di spegnere le luci “taff el nur, taff el nur”. Ricordo ancora la paura di quelle sere.

    L’ultimo mio ricordo dell’Egitto è la nave che si allontanava dal porto di Alessandria in quel maggio del 1957. Pur non realizzando in pieno quel che stavamo vivendo, mi sentivo molto triste.

    Il nostro arrivo in Italia, la vita a Milano. Per noi tutti l’impatto con una città così diversa nel clima e nel rapporto con le persone, chiuse e "distaccate" anche se "cunt el coeur in man" fu molto forte. Ciò che mancò di più a me da subito, fu il mare, in questa città senza aria e brezza, anche se qui non ci sarebbe mai stato il " hamsin". Come mi avessero strappato dal cordone ombelicale mi mancò "quel mare" dove facevo i bagni da piccola, quello che salutavo dal mio balcone di rue Boubastis.

    Seppur con qualche difficoltà iniziale di inserimento (imparare a studiare in italiano, seguendo i programmi con schemi di studio differenti) e dovendo superare una certa curiosità per la nostra parlata di Italiani d’Egitto, nonché per la provenienza (nessuno capiva che Alessandria d’Egitto era una città evoluta!), ci siamo poi ambientati, portandoci appresso un bel bagaglio di esperienza – seppur per noi ragazzi, limitato a causa dell’età – particolarmente ricco dal punto di vista umano e culturale.

    Ciò era dovuto a quella che era stata la nostra convivenza quotidiana con bambini e adulti di altre culture e religioni, abituati a coesistere nel più grande rispetto di valori e stili di vita diversi (cosa che stava venendo a mancare con la salita al potere di Nasser e l’ondata conseguente di nazionalismo che costrinsero i non arabi ad andare via). In quel senso io mi sono identificata totalmente in quell’italiano d’Egitto descritto da Marcello Casco, che riconobbi come tale, anni dopo, alla radio in "Alto gradimento".

    Ben presto divenimmo più numerosi, noi Italiani provenienti dall’Egitto, si creavano dei contatti. Papà si interessava attivamente, col passare degli anni, e diede vita con altre persone (non ho memoria dei loro nomi) alla costituzione dell’ANPIE (Associazione Nazionale Profughi Italiani Egitto), di cui fu per alcuni anni, fino a quando morì, tesoriere. Si interessò personalmente – mi ricordo di un telegramma scritto all’allora Ministro degli Esteri Fanfani in visita in Egitto - per sollevare la questione degli internati italiani in Egitto - che, in quanto tali, avevano dato anche le loro fedi per la Patria - per il riconoscimento degli anni di prigionia agli effetti della pensione. Sosteneva - a ragione - che era legittimo rivendicare gli stessi diritti di "altri" italiani che avevano vissuto la prigionia di guerra in altri campi di concentramento.

    Ci vollero molti anni per raggiungere un risultato, che non fece in tempo a "godere". Ma per questo si è battuto in prima persona e desidero che lo si sappia.

    Papà ha seguito molto la vita dell’Associazione, ricevendo anche dall’allora Sindaco Tonioli l’Ambrogino d’Oro al merito per la sua costituzione.

    Ricordo anche di aver partecipato ad alcune gite organizzate e che la sede dell’ANPIE era, in quegli anni, in Piazza Missori.

    L’Egitto di mio padre ormai era nell’ANPIE. La domenica mattina era un tuffo nel passato (una buona parte della sua vita), con i suoi amici e i ricordi, un po’ di conversazione scherzosa in arabo che faceva scacciare la pesantezza della vita milanese fatta, per lui, più che altro di lavoro, le novità dei figli che crescevano, gli studi degli stessi, qualcuno cominciava a sposarsi, gli italiani d’Egitto di Roma che si facevano sentire e scrivevano anche loro sul bollettino…. 

    Si seguivano le vicende politiche del "dopo" in Egitto e il clima non era certo migliore senza gli europei … qualcuno, tornato di passaggio descriveva il degrado in cui il porto e la città erano caduti…

    Pur nel trascorrere degli anni papà riceveva lettere e cartoline da amici di lunga data, uno partito per il Canada (Mr. Adourian, armeno) un altro tornato in Grecia (Mr. Chandris) ed io dalla mia amica d’infanzia, Silvana Boschetto dall’Egitto a Roma e poi a New York. I nostri cugini Cardullo Poli e Mario Giuntoli con le rispettive famiglie scelsero il Brasile, lavorando per molti anni alla Massey Ferguson, a San Paolo, con i quali avevamo mantenuto i contatti.

    Per quanto mi riguarda, ho proseguito negli studi con l’impostazione linguistica. Conoscere bene le lingue mi ha permesso di avere delle buone collocazioni d’impiego e anche se ho iniziato a lavorare a trent’anni con due figli, le basi di cui ero in possesso mi hanno garantito la possibilità di lavorare; l’impegno e il rigore trasmessomi con l’educazione sono stati ricambiati dalla stima di chi mi ha affidato il lavoro. Questo lo devo a mio padre e ai valori che mi ha trasmesso.

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