La famiglia Brunone

Storia d’una famiglia italiana in Egitto

(ricordi di  Claudio Brunone, figlio di Oscar e Iole Lombardi Boccia, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1936)

Ettore Fieramosca Brunone Oscar Brunone Edmondo Brunone Claudio Brunone

Campo d'internamento a Fayed

A mio nonno Ettore Fieramosca Brunone

Il capostipite della famiglia Brunone residente in Egitto si chiamava Ettore Fieramosca, figlio di Felice Brunone ed Elisabetta Marrani, e nacque a Ferrara l’8 Marzo 1879.

Rimase orfano nel 1892, all’età di 13 anni, e fu allevato insieme alla sorella minore Giovanna, dai fratellastri maggiori Alfonso e Celeste Baletti.

Alfonso, essendo il fratello più grande, lo seguì negli studi sia a Fano e sia a La Spezia, ove alla “Regia Scuola Tecnica Antonio Pontremoli” conseguì nel 1896, con Menzione  Onorevole Speciale, il diploma  in Ragioneria. Curò anche gli interessi di Ettore sino al raggiungimento della maggiore età e si occupò anche della vendita della proprietà di Via Ragno 8 a Ferrara, ricevuta in eredità dal padre, quando il fratello lasciò l’Italia.

Nel 1898 Ettore seguì la sorella Celeste a Patrasso in Grecia ove si fermò per pochi mesi per poi  trasferirsi nel 1899 ad Alessandria d’Egitto ove in brevissimo tempo ebbe la buona sorte di trovare lavoro come contabile amministrativo dalla Tipo Litografia Centrale I. Della Rocca in Rue Teufick Pacha.

L’anno seguente cambiò azienda e fu assunto come cassiere contabile presso la Vacuum Oil Company, 4 St. Marks Building d’Alessandria, ove fu apprezzato per lo zelo, capacità  ed onestà. Rimase alla Vacuum sino al 1902 per poi passare ad altre aziende per svolgere attività amministrative.

Ettore Brunone nel 1907

In quello stesso anno conobbe mia nonna Egizia, figlia di Giovanni Petracchi e Carolina Bigiotti, nata ad Alessandria d’Egitto ma d’origine toscana, con la quale il 10 settembre 1903 si  sposò, nella Parrocchia di Santa Caterina. Abitarono sino al 1935 al terzo piano di un immobile a Campo Cesare.

Egizia Petracchi fu una donna di gran temperamento che consacrò tutta la vita alla famiglia e primariamente all’erudizione e educazione dei suoi due figli, mio padre Oscar, (1904 - 1998), e Edmondo (1907- 1979).

Ettore Brunone e famiglia nel 1919

Il 01/07/1910 Ettore fu assunto come contabile à l’Inspection des Greffes Mixtes e dopo essere diventato Vice-Capo Ufficio, il 17 settembre 1917 ricevette la nomina a Capo dell’Ufficio Centrale della Contabilità presso il Parquet Général des Juridictions Mixtes d’Alessandria, nonché di assistente del Procuratore Generale e Capo di Gabinetto.

 Durante tutta la sua carriera al Parquet, ricca di dignità ed onore, fu l’esempio del funzionario competente ed attivo, che riuniva in sé tutte le virtù del pubblico ufficiale.

cliccare sull'immagine

Il Governo Egiziano gli diede testimonianza della sua stima insignendolo il 22 aprile 1926 dell’onorificenza d’Ufficiale di 4 Classe dell’Ordine del Nilo con la qualifica di ”Bey” ed il privilegio, tra pochissimi europei, di portare il “tarboush” nelle manifestazioni istituzionali.

Ettore Brunone  nel suo ufficio di Capo dell’Ufficio Centrale di  Contabilità nel 1934

Nel 1934 Ettore decise di farsi costruire una villa in rue Galvani 26, a Moustafa Pacha, e affidò il progetto ad  un amico, l'ing. Smith,  e poi lo incaricò di costruirla. L’edificio fu ultimato nel 1935, anno in cui ci si trasferì, ma purtroppo non ebbe la fortuna di godersela per lungo tempo, poiché  decedette prematuramente a 59 anni il 23/05/1938 quando il sottoscritto non aveva ancora compiuto i due anni.

Il nonno fu padre di famiglia esemplare, un lavoratore instancabile, riservato, generoso ed intelligente, che educò i suoi due figli Oscar e Edmondo, al culto della famiglia, dell’amore per il lavoro, per l’Italia che onorava ed amava intensamente.

Ettore Brunone  nel 1936

Fu, per questo, simpaticamente stimato e rispettato da tutti i colleghi, parenti ed amici ed alla sua morte lasciò un enorme senso di desolazione e rimpianto documentato, tra l’altro, da vari articoli apparsi sui giornali in quei giorni.

cliccare sull'immagine

Ettore fu anche amante della poesia  e ci ha lasciato alcuni versi inediti scritti negli anni della giovinezza tra il 1898 e il 1900.

A mia nonna Egizia, quale riconoscenza per l’operosità svolta da mio nonno Ettore in favore dell’Egitto, il governo egiziano riconobbe la pensione di vedova di funzionario per tutto il periodo bellico ed anche dopo il rimpatrio in Italia, pensione che percepì sino alla sua morte avvenuta a Milano nell’agosto 1962.

cliccare sull'immagine

La famiglia Brunone aveva collegamenti di parentela con le famiglie italiane già residenti in Egitto, Lombardi Boccia, Rupp, Petracchi, Fava, Stupazzoni, Baletti, Osmo, Chersich, Galvagni (di alcune cercherò, per quanto a mia conoscenza, di dare dei brevi cenni storici).

A mio padre Oscar Brunone

Oscar, mio padre, che nacque ad Alessandria il 16 giugno 1904, fu lo sportivo e il cultore delle belle arti in seno alla famiglia. Praticò lo sport sin dalla giovane età iniziando con il nuoto, la scherma, poi l’atletica leggera ed il canottaggio.

Si dedicò principalmente al canottaggio (Yole a quattro ed Outrigger due) ed alla corsa partecipando e vincendo diverse competizioni  sia in Egitto sia in Grecia ove partecipò ai giochi pan ellenici con la Palestra Italiana d’Alessandria in rappresentanza dell’Egitto (fu anche per diversi anni record-man d’Egitto negli ottocento metri piani).

1928  la Palestra Italiana in navigazione verso Atene. Oscar è il terzo da sn

Fu molto amico dei campioni di lotta libera: i fratelli Ubaldo ed Alfredo Bianchi che provenivano dall’Italia ed operavano in seno alla Palestra. Appassionato di pittura (era un buon ritrattista ed anche paesaggista), per migliorare le sue tecniche frequentò, durante il tempo libero, la scuola di Pittura Bicchi e divenne amico di diversi pittori italiani che risiedevano temporaneamente in Egitto, quali Zanieri, Galvagni, Bartolini ecc..

Stadio d’Alessandria d’Egitto 1924 – Oscar terzo da sn con Alfredo Bianchi accovacciato

Fu particolarmente amico del toscano Giuseppe Bartolini, detto Beppe, e trascorreva intere giornate festive a dipingere con lui nel proprio studio di pittore attrezzato con diversi cavalletti. Ricordo l'ambiente interamente tappezzato di ritratti e nature morte, che rappresentavano principalmente diversi tipi di cacciagione (anatre, folaghe ecc.).

Nel 1923 si diplomò con Menzione d’Onore come Perito Commerciale e Ragioniere al Regio Istituto Tecnico-Commerciale “Galileo Ferraris” d’Alessandria d’Egitto, ed iniziò subito la sua attività presso la filiale della Banca Commerciale Italiana per l’Egitto, ove in pochi anni raggiunse la responsabilità di Capo dell’Ufficio Cambio, funzione che mantenne sino al giugno 1940, quando iniziò la seconda guerra mondiale.

Il 20 luglio 1935, si sposò nella Parrocchia di S. Caterina, con Iole mia madre, figlia d’Alberto Lombardi Boccia e Maria Rupp, dall’unione oltre al sottoscritto, nascono Tullio ed Ambra. Si abitava a Ramleh, in rue Galvani 26  a Moustafa Pacha.

Alessandria d’Egitto – Parrocchia di S. Caterina

20 luglio 1935

All’inizio dell’evento bellico nel giugno 1940, tutte le proprietà mobili ed immobili italiane furono immediatamente sequestrate (possedimenti privati, scuole tecniche e littorie, la  Dante Alighieri, la Palestra italiana, la Canottieri Italia, la Banca Commerciale Italiana, ecc.). Per fortuna, essendo stata l’abitazione di un funzionario del governo egiziano, e per rispetto alla sua memoria, la villa di mio nonno non fu toccata, ma mia nonna temendo le incursioni aeree, decise di chiuderla affidandone la custodia al nostro “ganain” (giardiniere) Sayed che doveva anche occuparsi della buona conservazione del giardino.

Trasferì quindi tutta la famiglia in una villa che si trovava in campagna a Shutz nella quale si trasferirono anche le sue sorelle,  Ida Stupazzoni ed Amelia Baletti, con i rispettivi mariti e figli.

La convivenza durò però pochissimo tempo, sino al giorno in cui tutti i giovani cugini, tra cui mio padre e suo fratello Edmondo, ricevettero l’ordine di presentarsi nel giro di 48 ore al Governatorato per essere internati con tutti gli altri residenti italiani maschi: dai 18 ai 60 anni.

Partiti gli uomini per la prigionia, mia nonna fu costretta a lasciare Shutz ed a ritirarsi con sorelle e rispettivi mariti a Fleming,  ospiti di una anziana  parente, Ida Galvagni, suocera di Gino, che era il fratello di mia nonna, ma che in quel periodo si trovava in Italia.

La partenza per l’internamento fu presa da tutti gli italiani quasi con spirito sportivo e allegria, tanto la guerra doveva finire in pochissimo tempo con la vittoria dell’Asse, valeva quindi prenderla come una vacanza.

Fu provvisoriamente inviato al Gabbari, vicino al porto, e dopo circa un mese fu trasferito a Genefa ad El Fayed nella zona dei “Bitter Lakes” (Laghi Amari), ed internato al Campo 1.

El Fayed - Genefa  - Campo 1 - Novembre 1941

Quando il governatorato autorizzava le mogli ed i figli ad andare a visitare i prigionieri (poche volte) si approfittava per  portare tutto il necessario (viveri, attrezzi vari ecc.) per rendere loro meno dura la vita nel campo.

Erano viaggi sfiancanti, prima in treno sino a Cairo ove si era costretti a pernottare, poi partenza all’alba per raggiungere con il pullman  il Canale, che si costeggiava per un certo tempo, sino ad arrivare nella tarda mattinata nell’area desertica di El Fayed, sfiancati ma giusto in tempo per mangiare insieme ai nostri cari. Verso le 3 o le  4 del pomeriggio si doveva ripartire e lasciandoli con tanta mestizia.

I primi tempi al campo furono durissimi, poca assistenza sanitaria, scarsissima acqua, e dormendo sotto le tende militari, dovettero scavare all’interno delle trincee, profonde quasi un metro, per trovare un po’ di frescura. Poi gradatamente i campi, grazie all’ingegnosità ed operosità dei prigionieri italiani, si  trasformarono in piccoli borghi in cui si poteva trovare anche la chiesa, un piccolo stadio, il negozio del barbiere, l’orologiaio ecc.. Buona parte fu immortalata in piccoli quadri su legno che mio padre dipinse in quel periodo.

Molti prigionieri infatti,  grazie ai pacchi che ricevevano dai parenti ed alle concessioni degli egiziani, intervenuti per ridurre le ferree leggi di guerra inglesi, avevano abbandonato le tende, sotto le quali non dormivano più e si erano costruiti delle piccole abitazioni con pietre ed argilla. Mio padre con suo fratello, il cugino Guido Stupazzoni, gli amici Polzi, Zanovello ed altri, si erano costruiti anche loro una piccola abitazione in argilla, con il tetto fatto da stuoie  e  “safiha”, e finalmente dopo tanti mesi potevano stare al fresco poggiando i piedi non più sulla sabbia desertica ma su solida pietra!

I campi di concentramento nel primo periodo erano custoditi da guardie egiziane che a seguito di una protesta violenta di alcuni prigionieri facinorosi, ebbero l'ordine di sparare nei campi uccidendo  tre internati. Per questo atto gli egiziani furono immediatamente sostituiti da soldati britannici e poi da indiani siks che facevano la guardia masticando betel.

Un giorno, durante il periodo in cui erano di servizio gli inglesi, mio padre si accorse che la sentinella che stava nell’adiacente garitta gli faceva dei brevi segni di avvicinarsi al reticolato, e ciò lo impensierì un poco ma si avvicinò lo stesso, ed ebbe la sorpresa di vedere che la guardia era Eddy Bennet, un suo cugino, figlio di sua zia Ida, sorella di mio nonno Alberto; Ida aveva sposato un cittadino britannico.

Eddy, essendo inglese, era  stato chiamato sotto le armi e mandato di guarnigione a El Fayed.

Si salutarono e si sorrisero con un cenno d’intesa perché Eddy essendo di sentinella non poteva parlare. Paradossi della vita! Due cugini che si amavano e si stimavano, divisi da un reticolato, un fucile, e ciò che queste cose rappresentavano!

Sul finire del 1942  incominciarono ad arrivare i primi prigionieri tedeschi catturati durante le battaglie in Cirenaica ed i civili italiani furono trasferiti in altri campi dell’Egitto. Prima di partire furono però obbligati a radere al suolo tutto ciò che avevano costruito, poiché i tedeschi, per ordine del comando britannico, dovevano dormire per terra e sotto le tende!

Oscar e suo fratello Edmondo furono trasferiti al Cairo, a Bulacco, dove restarono per qualche mese, prima di essere definitivamente trasferiti a Tantah dove rimasero sino alla liberazione nel giugno 1944.

Lentamente la vita ricominciava, Oscar incominciò a cercare un lavoro e riprese a dipingere ritirandosi spesso nel suo studio, che era un piccolo chalet di legno posto sull’ampio terrazzo della villa, interamente ricoperto da una vigna che saliva dal giardino sottostante e creava una piacevole zona d’ombra, con delle splendide foglie che ogni tanto mia nonna coglieva per cuocere delle gustosissime “foglie d’uva ripiene di riso”. Lo studio era colmo di suppellettili varie (oggetti sportivi, pennelli, cavalletti) ed un’infinità di quadri dipinti prima dell’internamento. Questo locale mi affascinava ed ogni tanto, anche durante le brevi visite fatte alla villa per controllo durante il periodo bellico, vi entravo e mi dilettavo con tutti gli oggetti.

Dopo breve tempo, tramite un parente, colonnello dell’esercito britannico, genero della sig.ra Ida Galvagni, quella di casa a Fleming, mio padre fu assunto come impiegato dalla NAAFI, un organismo militare inglese che si occupava di logistica e vettovagliamenti.

Ci rimase pochissimo poiché perse subito l’impiego a causa di un falso amico che inviò una lettera anonima, chiedendo al comando inglese come mai tra i loro dipendenti, ci fosse uno che era stato un fascista!

Questo signore, Oscar lo incontrò qualche anno dopo a Gabicce Mare, insieme con altri amici dell’Egitto, e quando quello gli tese la mano per salutarlo, si tolse la soddisfazione di dirgli guardandolo intensamente negli occhi: lui la mano la stringeva soltanto alle persone perbene! Per fortuna, rimase disoccupato per brevissimo tempo, poiché fu prontamente assunto come direttore di un negozio d’arredamento in rue Fouad, che trattava principalmente il “fer forgé” (ferro battuto), la cui proprietaria era Madame Minangois, una francese. La maggior parte dei clienti che si servivano in quel negozio erano famiglie ricche e benestanti, tra cui Sua Maestà la Regina Elena che si fece fornire alcune suppellettili per arredare la sua villa di Smouha.

La vita gradualmente riprendeva, e tutto incominciava ad andare per il meglio, si riprendeva a frequentare gli amici, incominciava con gran successo la grande stagione dell’opera italiana al teatro Mohamed Aly con la presenza ogni anno dei maggiori cantanti dell’epoca, da Beniamino Gigli, Gino Bechi, Tito Gobbi, a Maria Caniglia, ecc. Arrivavano ai Cinema Ferial, Strand, Rio ecc., i primi film italiani parlati nella nostra lingua, con Totò, Aroldo Tieri, Emma Grammatica, Enzo Fiermonte e tanti altri, finalmente non più l’inglese o il francese con i sottotitoli!

Tutto incominciava a funzionare, però in contemporanea iniziavano gradualmente le manifestazioni xenofobe da parte di arabi nei confronti degli europei, che poi sfociarono nella rivoluzione nasseriana del 1952.

Agli inizi del 1948, Edmondo, titolare di una piccola azienda commerciale la “Brunone & Benzakein”, pur avendo un’attività molto redditizia, a causa della situazione che si stava deteriorando giorno dopo giorno, decise di sciogliere la società chiudendo la ditta e nel dicembre dello stesso anno rimpatriò in Italia. Noi rimanemmo ad Alessandria nell’attesa di conoscere l’esito dell’avventura d’Edmondo, ma con il proposito di partire per l’Italia dopo aver sistemato gli interessi di famiglia.

Quando si seppe che lo zio si era sistemato facilmente avendo costituito a Milano una società commerciale con un parente, Oscar incomincio a mettere all’asta tutto il mobilio, ed in vendita la villa che, nel giugno 1949, fu acquistata da un ricco possidente ebreo. Quello stesso mese di giugno, mia nonna s’imbarcò sulla nave Esperia con il nostro cane lupo Zanna, e partì per l’Italia. Non tornò mai più in Egitto, paese per il quale le rimase nel cuore un infinito rimpianto colmo di nostalgia e tristezza per aver lasciato i cari defunti, gli affetti ed i luoghi in cui aveva felicemente vissuto per 65 anni. Gli ultimi mesi, fummo ospitati nella villa di mio nonno Alberto e furono impiegati da mio padre per sistemare le ultime pratiche, provvedere alla spedizione in Italia delle casse contenenti le poche cose suppellettili e ricordi conservati.

Il 3 Dicembre 1949, mi ricordo che era un tardo pomeriggio, dopo esserci imbarcati su l’Esperia, ci indirizzavamo verso un mondo inusitato con tutte le incognite  di una nuova vita, e mentre vedevamo scomparire lentamente Alessandria dietro l’orizzonte e lasciavamo la nostra città natale, ci accorgevamo d’essere gravidi di nostalgia e rimpianti. Ci saremmo mai più ritornati? Il 6 dicembre sbarcavamo a Genova, attesi da Edmondo ed accolti da un clima freddo mai provato in precedenza. Il giorno seguente via treno arrivammo a Milano, con un clima ancora più gelido e nebbioso,  e fummo  alloggiati in una pensione, precedentemente prenotata, in corso Buenos Ayres. Quale futuro ci avrebbe riservato questa freddissima città?

Dopo qualche giorno fu affittato un appartamento al primo piano di uno stabile di via Anzani 7 e mio padre, mentre riprendevo gli studi iniziando il secondo trimestre al collegio salesiano di via Copernico, incominciò a pensare quale attività poteva intraprendere, data l’età (45 anni) che gli rendeva molto difficile trovare un impiego, ed oltre a tutto, senza essere ancora in possesso di un libretto di lavoro.

Il primo obiettivo da raggiungere, essendo dei rimpatriati, fu il benedetto libretto ma per poterlo avere era necessario avere la residenza, che allora si poteva ottenere se si possedeva una casa o un lavoro! Fortunatamente un amico di vecchia data, proveniente anch’egli in Egitto e trasferitosi in Italia già da alcuni anni, ci fece ottenere immediatamente la residenza a Corbetta.

Nel frattempo mio padre decise  di investire un piccolo capitale  costituendo una piccola società commerciale con un parente che operava nel settore alimentare ma l’iniziativa naufragò dopo qualche mese. Il capitale fu recuperato con la cessione, da parte del socio, dell’appartamento che è tutt’ora abitato dal sottoscritto. In contemporanea, un’altra parte del ricavato della vendita della villa di Moustafa Pacha, fu versato per l’acquisto di alcuni appartamenti e negozi che la cooperativa edilizia dell’amico di Corbetta stava  costruendo  nella zona di Viale Murillo; furono ultimati nel 1951 consentendo ad Oscar di trasferirsi con tutta la famiglia, nell’abitazione in cui visse per oltre 45 anni, sino alla fine dei suoi giorni.

Oscar si trovava ancora senza lavoro ma per fortuna Edmondo, che aveva anch’egli costituito una società ma operante nel settore chimico, aveva rilevato una piccola fabbrica produttrice di materiali di cancelleria (colle ed inchiostri) e, non potendo occuparsene, offrì a mio padre la direzione. Passarono gli anni, Oscar lasciò la direzione della piccola fabbrica e fu assunto da una società cinematografica, produttrice di cartoni animati, ove rimase per un paio d’anni prima di trovare una società commerciale, che trattava l’import export con l’Europa dell’est, che lo assunse come direttore e presso la quale prestò la sua attività sino e anche dopo il raggiungimento della pensione.

Divenuto nonno felice di 5 nipoti, poté finalmente realizzare uno dei suoi sogni sospesi di gioventù: dedicarsi nuovamente ed interamente alla pittura. Ciò contribuì sicuramente ad alleviare il rimpianto dell’Egitto e ad allietare i suoi lunghi ed ultimi anni, avendoci lasciato un anno dopo mia madre Iole, il 22 maggio 1998  all’età di 94 anni.

Edmondo Brunone

Fu il secondogenito d’Ettore e nacque ad Alessandria d’Egitto il 7 luglio 1907.

1919 - Prima comunione

 Frequentò il Regio Istituto Tecnico-Commerciale “Galileo Ferraris” ed a studi ultimati iniziò immediatamente un’attività di vendita presso la ditta dello zio, la “ Gino Petracchi & C°”, che trattava l’import e la distribuzione sul territorio egiziano di prodotti per l’edilizia, tra i quali l’Italcementi. Dopo pochi anni, avendo fornito prove d’abilità commerciale e di essere un buon lavoratore, lo zio Gino lo prese come socio nella società.

1926 - Edmondo con lo zio Gino e la moglie Nella Polese Galvani 1927 - Edmondo nell’Ufficio della Gino Petracchi & C°

Il carattere di Edmondo era diverso da quello di Oscar, mentre il fratello maggiore praticava lo sport agonistico, lui lo faceva da dilettante ed aveva invece la passione per la caccia che esercitava ogni qualvolta gli si presentava l’occasione.

1930 - A Caccia. Da sn. Edmondo, Ello Osmo, Kotia Vassilieff, ?, Mitia Vassilieff, Ing. Smith, accovacciato a dx. Oscar Brunone

Come buona parte degli europei residenti in Egitto era anche amante del gioco delle carte, in particolare del poker di cui era uno dei maggiori cultori.

Nel 1939 la zio Gino decise di ritirarsi dagli affari  mettendo in liquidazione la “Gino Petracchi & C°”  che di conseguenza cessò l’attività; Edmondo recuperò il suo capitale  decidendo di trasferire una quota parte in Italia e consegnò una consistente somma allo zio affinché la depositasse presso una banca.

Qualche mese dopo, iniziò la seconda guerra mondiale e Edmondo, che stava intraprendendo una nuova attività commerciale, ebbe appena il tempo di avviarla che fu costretto ad abbandonarla perché fu internato a Fayed, campo 1, assieme al fratello Oscar.

Passò gli anni di prigionia nei vari campi e spostamenti accompagnato sempre dal fratello con il quale fu anche liberato lo stesso giorno, nel giugno del 1944.

Cessata la guerra, poté riprendere l’attività interrotta, costituendo con Sam Benzakein, un vecchio amico d’infanzia, la società “Brunone & Benzakein” che trattava  l’import e la vendita di prodotti per l’edilizia.

1929 Edmondo con Sam Benzakein a dx

Agli inizi del 1948, come abbiamo già esposto nel capitolo precedente,  Edmondo, nonostante  la sua azienda avesse un’attività molto redditizia, a causa della situazione politica che si stava deteriorando giornalmente, decise di sciogliere la società mettendola  in liquidazione,  e nel dicembre dello stesso anno partì dall’aeroporto di Alessandria con un volo LAI (Linee Aree Italiane) e rimpatriò in Italia.

Si  recò subito a Roma, per raggiungere lo zio Gino con il progetto di riprendere l’attività interrotta, ma lo zio non era più interessato e lo consigliò di recarsi a Milano ove c’erano maggiori opportunità di lavoro e dove abitavano alcuni cugini d’Egitto, i Fava, che avrebbero potuto certamente consigliarlo ed assisterlo. 

Ebbe così la occasione di costituire nel 1949, con il cugino Fernando Fava, la società commerciale “Fava & Brunone” con prima sede in Corso Venezia 36 e successivamente in Via S. Mamete 37,  che trattava prodotti  chimici industriali; l’azienda aveva poi rilevato la SAI (Soc. Approvvigionamenti Industriali), piccola fabbrica produttrice di materiali per la cancelleria (colle ed inchiostri). 

In pari tempo, con la quota che gli era toccata  dal ricavato nella vendita della villa di Moustafa Pacha, versò la caparra per l’acquisto di un appartamento che  la cooperativa edilizia dell’amico di Corbetta stava  costruendo  nella zona di Viale Murillo e che fu ultimata nel 1951.

Nel corso del 1949, durante un viaggio in treno con il socio Fernando, conobbe quella che dopo un anno sarebbe diventata sua moglie, Liliana Paccanaro di Milano.

Il matrimonio fu allietato nel 1951 dalla nascita del figlio Bruno.

L’azienda progredì sino alla costruzione  sul finire degli anni 60,  di uno stabilimento nella zona di Settimo Milanese. L’investimento, forse eccessivo, ed altri impegni economici fecero però sorgere dopo poco tempo dei problemi finanziari che obbligarono Edmondo a mettere in vendita l’appartamento per appianare i debiti con il ricavato.

Questa situazione provocò il deterioramento del rapporto tra i soci che si concluse con lo scioglimento della società ed il proseguimento dell’attività da parte del Fava.

Edmondo investì quanto gli rimaneva acquistando un negozio in costruzione nella zona di Baggio, il cui affitto gli procurò una piccola rendita,  da quel momento però dovette rinunciare alla proprietà di una casa, dovendo d’ora in avanti  abitare in appartamenti in affitto.

Oscar, molto legato al fratello minore, gli propose per la sua esperienza in campo commerciale, di collaborare con la Manifattura Alto Milanese di cui era il direttore; Edmondo accettò la proposta e per qualche anno si occupò dello sviluppo delle vendite di articoli sportivi, che l’azienda importava dall’Ungheria.

Quando negli anni 70, la Manifattura Alto Milanese fu messa in liquidazione per il decesso di un socio e il pensionamento di Oscar, Edmondo fu costretto a cercarsi un’altra occupazione che trovò ancora nel settore chimico industriale ove era tuttora ben introdotto e conosciuto. 

Svolse tale attività sino alla morte sopravvenuta ad Osimo, durante le ferie, nell’Agosto del 1979.

I suoi ultimi anni furono per buona sorte, rallegrati dal matrimonio del figlio Bruno e dalla nascita del primo nipote Luca.

Claudio Brunone

Sono nato alla Maternité française di Alessandria d’Egitto alle ore 13,40 del 31 maggio 1936, domenica di Pentecoste, da Oscar Brunone (1904-1998) e Iole Lombardi Boccia (1915-1997). Sono  stato battezzato il 6 gennaio 1937 presso la “Parrochia S. Antonimi Patavini” di Bacos a Ramleh; madrina Bonaventura Samson (Sally) cittadina USA, padrino Edmondo Brunone.

Il primo regalo, un piccolo fucile con tappo di sughero che fu appeso alla mia culla, lo ricevetti da mio nonno Ettore, che da buon cacciatore sognava che il primo nipote seguisse se sue orme. Purtroppo non fu esaudito per le tristi vicissitudini della vita di cui abbiamo accennato in precedenza.

I primi vaghi ricordi incominciano nel 1940, all’inizio della guerra quando tutta la famiglia si ritirò a Shutz. Ricordo la villa ad un piano, il giardino con alcune palme e soprattutto il grande stanzone con i quattro letti che erano occupati da Guido e Marcello Stupazzoni, Mario Baletti e Edmondo Brunone.

Quando mia nonna lasciò Shutz per andare a Fleming, con la mamma andammo ad abitare a Bulkeley in rue Valensin 15, nella villa del nonno materno Alberto Lombardi Boccia. Nonno Alberto aveva un fratello, Max con il quale aveva una società commerciale ereditata dal padre, la “ Ditta Egidio Lombardi Boccia & C.” che fu costretto a chiudere all’inizio della guerra. I due fratelli avevano due ville adiacenti e la più grande era quella del nonno. Quando furono sequestrate le proprietà italiane, la villa di Max fu subito requisita e fu costretto a lasciarla immediatamente. Non avendo altro posto ove andare ad abitare, il fratello Alberto lo prese con sé, avendo diverse stanze libere a disposizione.

In quel periodo il nonno ospitava tre famiglie, per un totale di 12 persone; la sua con cinque soggetti, quella di Max con altri cinque (che si ridussero poi a tre quando i figli Ernesto e Bruno furono internati) mia madre ed io. Ricordo che lo zio Max era cardiopatico e non poteva salire le scale per andare al secondo piano dove c’erano le stanze da letto e, tutti i giorni dopo il pranzo, era portato a braccia dai 2 figli al piano superiore seduto sulla “sedia del pacha”. I problemi sorsero quando i ragazzi  partirono per l’internamento e non c’era nessuno che potesse trasportare lo zio che un triste pomeriggio, decedette durante l’ora della siesta, e fu il mio primo contatto con la morte. Correva l’anno 1941. L’anno seguente seguì purtroppo il decesso di mia nonna Mary, che aveva un debole per me mentre io nella mia incoscienza di adolescente le facevo i dispetti!

In quel periodo tutte le donne della casa facevano a gara a chi mi insegnava a compitare, mi avevano anche preparato il banco di scuola e tanto fecero che già a cinque anni ero in grado di leggere e scrivere.

1942 Alessandria d’Egitto – Claudio con la mamma Yole Lombardi Boccia.

Dal 1940 al 1942 nonostante la lontananza dei consorti, le donne vivevano con un certo senso d’orgoglio l’italianità, per le notizie dell’avanzata delle nostre truppe che in brevissimo tempo avrebbero liberato gli internati e vedevamo le truppe inglesi  scappare con i camion da Alessandria, facendo però il segno a V della vittoria. Ricordo, una volta, che mia nonna tirò fuori, con circospezione, una grande bandiera tricolore con lo stemma sabaudo che teneva nascosta nel cassetto di un armadio, e la aprì distendendola sul pavimento per farmela vedere. Dopo averla ben guardata, feci alcuni passi e l’attraversai calpestandola come fosse un tappeto, l’avessi mai fatto, fui immediatamente rimproverato come se avessi commesso un sacrilegio! Avevo calpestato l’Italia! Devo affermare che quell’atto mi è rimasto impresso per tutta la vita, ed ogni volta che vedo garrire un tricolore mi si risvegliano quelle emozioni, che solo chi è lontano dalla Patria può intendere e capire.

Ogni tanto c’erano i bombardamenti e dovevamo ritirarci nel rifugio che il nonno aveva fatto appositamente costruire sotto il grande salone, e nel quale si accedeva tramite una botola situata nel pavimento alla sinistra dell’ingresso, vicino ad una cristalliera in stile Luigi XVI. Quando sentivamo la sirena di cessato all’arme, appariva sempre Mohammad il cuoco egiziano, che in un italiano sbiascicato diceva sorridendo: Finita la musica, passata la festa!

Nel 1942 incominciai la scuola presso le Suore Francescane Zaharia a Bulkeley che frequentai  sino alla terza elementare. Il 3 giugno 1945, presso le stesse suore francescane ricevetti la prima comunione. Nel 1943 mia madre e  nonna Egizia, non essendoci più rischi di bombardamenti, decisero di ritornare alla nostra casa di Moustafa Pacha. Di fronte a noi, sull’altro lato della strada, c’era un campo militare inglese cinto da reticolati attraverso i quali mi divertivo a seguire dalla finestra l’attività quotidiana dei soldati. Quale fu la nostra desolazione e tristezza, quando incominciammo a vedere dei militari vestiti di kaki che non parlavano  l’inglese, ma la nostra lingua! Erano i prigionieri di El Alamein. Ci avvicinavamo ogni tanto con prudenza ai reticolati  dando loro qualcosa da mangiare e riscontravamo la loro meraviglia quando ci sentivano parlare la loro lingua e si rendevano conto che fuori c’erano dei loro fratelli, che provavano la loro stessa umiliazione e dolore per lo stato in cui si trovavano, il nuovo indirizzo che stava prendendo la guerra, e soprattutto senza poter fare nulla per aiutarli. Sono momenti che non si dimenticano più.

Bulkeley, Rue Valensin 15 –  villa di nonno Alberto Lombardi Boccia che ospitò Claudio dal 1940 al 1943

Il babbo fu liberato nel giugno 1944, ricordo bene il giorno perché ne porto ancora il segno sul palmo della mano destra, essendomi, in quell’occasione, fatto una ferita abbastanza profonda con un chiodo per mostrargli un disegno che avevo fatto ed era stato appeso al muro della sua stanza da letto.

Nel 1945 iniziai a frequentare la quarta elementare presso l’Istituto Salesiano Don Bosco in Rue du Premier Kédive. Il 6 febbraio 1946 nasceva mio fratello Tullio ed il 10 giugno dello stesso anno, quale allievo Don Bosco, ricevetti la S. Cresima nella Parrocchia di S. Caterina, mio padrino fu Edgar Stiepchich.

Ottenuta la licenza elementare, passai alla scuola media ed ebbi come professore di lettere ed italiano Davide Bandino, un laico che viveva nel collegio e che aveva scritto, sotto lo pseudonimo Dino Da Bivenda, il libro “Da Quarto al Volturno” che narrava l’epopea dei Mille, e che ci leggeva durante le ore di lezione in seconda Media.

Davide Bandino, di cui ho un affettuoso ricordo, fu all’epoca, insieme con altri, uno dei maggiori esponenti dell’Associazione Scoutistica Cattolica Italiana (ASCI) d’Alessandria d’Egitto, che contribuì a sviluppare insieme con il Consigliere Don Jovine ed il sig. Allegretta (già amico di mio nonno Ettore) che  vendeva la cancelleria nell’Istituto.

1948 - raduno ASCI nel cortile della chiesa dell’Istituto Don Bosco – Alessandria d’Egitto - sono visibili Davide Bandino e Allegretta, e tra gli scout Giuffrida, Brunone (quarto in prima fila da destra), Moni, Mion, Martino

Il procedere della scrittura, mi fa ritornare alla mente tanti piacevoli ricordi del periodo scoutistico, i primi campi durante il "sham el nessim", le veglie, le cerimonie, don Jovine, che tolto l’abito talare ed indossata la divisa scoutistica, diventava uno di noi, un compagno con il quale ci si divertiva smisuratamente e tante altre simpatiche occasioni che si sono purtroppo appannate nella memoria.

Di fronte a casa nostra, dall’altra parte della rue d’Aboukir, c’era la villa del sig. Belsõ, amico di mio nonno Ettore, che aveva l’abitudine di sistemarsi, ogni tardo pomeriggio, al fresco dell’ombra sull’ampio balcone della facciata sorseggiando il solito karkadè insieme con gli amici che immancabilmente ogni giorno si recavano a fargli visita.

I Belsõ erano spagnoli ed avevano una nipote Adriana, mia coetanea e di nazionalità italiana, che aveva scarsissimi profitti a scuola. Era, infatti, una cronica ripetente e mentre io frequentavo già la seconda media lei era ancora alla quarta elementare dalle suore di Maria Ausiliatrice! In considerazione del fatto che i miei profitti scolastici erano buoni, mi s’impose di assistere ed aiutare la ragazza nello svolgimento dei compiti a casa, impresa che svolsi di buon grado, avendo una particolare attrazione e simpatia per la ragazza, che si tramutò poi in una cotta. Da quando lasciai l’Egitto per il rimpatrio in Italia, non ebbi purtroppo più notizie di lei e non so più quale sia stato l’esito finale dei suoi studi e della famiglia Belsõ.

All’età di 12 anni, come in uso a buona parte delle famiglie europee, mi fu concesso di andare al cinema da solo, e quindi mi recavo a Sidi Gaber per prendere il tram che arrivava da Victoria e mi portava al boulevard di Ramleh per poi andare lo spettacolo che era proiettato dalle tre alle sei p.m. nei vari cinema Ferial, Strand, Alhambra, Rialto, Royal, Rio ecc.. Questa libertà durò solo un anno perché incominciarono i vari preparativi per il rimpatrio, la partenza dello zio e della nonna, l’asta, la vendita della villa, il trasloco a Bulkeley, ed infine la nascita di mia sorella Ambra che avvenne il 22 Agosto 1949.

Come già detto partimmo per l’Italia il 3 dicembre 1949,  ponendoci la domanda se saremmo mai più tornati nel nostro paese natio. Sì, vi ritornai due volte, nel 1977 e nel 2000, ma questo sarà il capitolo di un’altra storia.

Campo d'internamento a Fayed

(Rievocazioni di Claudio Brunone con appunti da “Nostalgia di una vita” di G. Vinca)

II 10 giugno 1940 allo scoppio della seconda guerra mondiale, in tempi diversi, tutti i cittadini italiani maschi dai 18 ai 60 anni residenti in Egitto furono internati nella loro qualifica di nemici dell’Inghilterra per tutta la durata delle ostilità

Ricordo che un pomeriggio dello stesso anno, all’inizio di autunno, mio padre Oscar e suo fratello Edmondo, tramite un “shawish” ricevettero l’ordine di presentarsi il giorno seguente al governatorato per essere  internati, non subendo come tanti altri, l’onta di essere arrestati con l’invio di qualche guardia armata; tale particolare riguardo fu riservato loro  poiché di figli di un defunto Alto funzionario del Governo Egiziano. 

Dopo le pratiche di registrazione  furono subito avviati al Campo di smistamento del Gabbari, dove trovarono altri italiani nella stessa sventura con i quali fraternizzarono immediatamente; più tardi al gruppo si aggiunsero altri connazionali. 

Rimasero al Gabbari più di un mese che trascorsero abbastanza quietamente nell’attesa di conoscere la loro destinazione. Mia madre Iole con sottoscritto potevamo andare a trovare papà quando ci veniva consentito.

I giorni passavano lentamente e tediosamente; la monotonia era interrotta soltanto dalle sirene dell'allarme aereo.

II lazzaretto del Gabbari si trovava nelle vicinanze del porto. Nelle notti di plenilunio i bombardieri italiani sorvolavano continuamente la zona. I prigionieri avevano imparato a riconoscerli dallo strano rombo dei motori degli S79 (Siai Marchetti); volavano molto in alto e cercavano di individuarli seguendo le linee che i proiettili traccianti lasciavano nel cielo mentre la contraerea, vicinissima al lazzaretto, reagiva senza sosta.

Oscar e suo fratello furono informati che sarebbero stati trasferiti a Fayed, il grande campo di concentramento che si trovava vicino al lago Amaro, nella zona di Suez e attendevano il giorno della partenza che sarebbe avvenuto senza preavviso da un momento all'altro.

Una mattina il comandante del campo di Gabbari, Ezzat Bey, li informò che il giorno dopo sarebbero partiti per Geneifa, la località dove si trovava il campo di Fayed. 

Fu quasi una partenza inaspettata. In giornata furono portate da mia madre le ultime cose autorizzate di cui  avrebbero potuto avere bisogno in futuro, ed il mattino seguente insieme ad altri connazionali, furono caricati su degli autocarri militari che li portarono, dopo aver attraversato la città, alla stazione ferroviaria “Mohatta Masr”.

Il convoglio speciale che li attendeva, era completamente, circondato da poliziotti armati, che tenevano a distanza le famiglie accorse per l’ultimo saluto. Un lungo fischio annunciò la partenza, il convoglio si mosse lentamente con il suo carico umano. Qualche lacrima, mista ad orgoglio patriottico, si confuse con gli addii.

«Durerà poco», pensavano tutti. «Graziani è già a Sidi el Barrani». Poveri ingenui avevano fatto i conti senza l’oste USA.

Raccontava Oscar che arrivarono a destino a sera inoltrata. La notte scendeva lentamente, quando gli autocarri militari inglesi  lasciarono  i due fratelli insieme ad altri prigionieri davanti ad un doppio recinto di filo spinato che formava il campo. Non immaginavano che in quel luogo dovevano trascorrere alcuni anni della loro vita.

A fianco di una porta sgangherata, la scritta: «Campo 1». Scesero in una indescrivibile confusione. Ognuno cercava di sistemarsi nelle tende militari che erano state tirate su alla meglio. Dal vicino campo di prigionieri libici, diviso da loro da un passaggio limitato da due ordini di filo spinato abbondantemente illuminato da riflettori posti sulle garitte, le guardie armate li sorvegliavano. Oltre i reticolati, i libici  gridavano saluti e parole di benvenuto. 

Nell'oscurità, in mezzo ad un grande disordine, ognuno si dava da fare per prendere dal deposito gli «angareb», delle specie di giacigli fatti di palma,  cuscini, coperte e lampade a petrolio. Naturalmente il petrolio non esisteva.

Quella sera molti digiunarono perché la cucina doveva ancora essere montata, i pentoloni neri della cucina da campo, destinati alla preparazione dei pasti per i 250 componenti del campo, giacevano freddi ed ammucchiati nella baracca delle cucine. In un angolo, una catasta di legna da ardere aspettava di essere adoperata.

Oscar e Edmondo riuscirono a rimediare mangiando gli avanzi che mia nonna Egizia aveva portato alla loro partenza. 

Ci vollero alcuni giorni per sistemarsi nelle tende. Occorse innanzitutto predisporre la pulizia del campo, poi, cosa molto più difficile, creare l'organizzazione delle cucine ed instaurare una certa disciplina. Erano completamente lasciati a loro stessi. La preparazione dei pasti era il problema più grande: gli inglesi davano delle provviste in natura che dovevano essere ritirate ogni mattina dalla cambusa, comune a tutti i 20 campi. Era indispensabile trovare qualcheduno che si occupasse di cucinare per tutti gli scadenti viveri che  venivano forniti. Nessuno voleva assumersi l'oneroso incarico di gestire la cucina per 250 persone e non si poteva pretendere che poche persone si sacrificassero per tutto il resto del campo; né potevano essere organizzati dei turni che avrebbero comportato una grossa confusione. Fu così che  giunsero ad un compromesso: rinunciare al pacchetto di dieci sigarette che veniva distribuito gratuitamente ogni settimana ad ogni internato per ricompensare gli addetti alle cucine che, oltre a questo, avevano anche il vantaggio di servirsi per primi, scegliendo i pezzi migliori di carne che fluttuavano pietosamente in una grassa brodaglia.

Lentamente si andavano abituando ed ognuno si adattava alla meglio cercando di sistemare la propria tenda nel modo più confortevole possibile. Appena furono autorizzati a ricevere dei pacchi da casa, ebbero la possibilità di farsi spedire alcuni materassi che sistemarono sui dei “cafassi” disposti a formare un letto da campo. Finalmente dormirono isolati dal terreno.

La vita scorreva monotona, interrotta ogni giorno da due adunate che si tenevano all’anticampo, una la mattina e l'altra la sera, per poi passare in fila indiana davanti al sergente che li contava meticolosamente come fossero un gregge di ovini di sua proprietà. Salvo queste «corvées» erano completamente «liberi» di fare quello che volevano, naturalmente nell'ambito del campo.

Ciascuno  cercò di distrarsi a modo suo: alcuni facevano dei manufatti ricavandoli da pezzi di filo spinato; altri delle sculture, scatole ed altri oggetti con il legno proveniente da pali che reggevano i reticolati (pali che venivano sottratti nella notte, quando le sentinelle dormicchiavano nelle loro garitte). Anche Oscar, spinto dal desiderio di riprendere a dipingere, ricominciò a disegnare e a fare ritratti  su legno e raffigurazioni della vita del campo, con i colori ad olio che mia madre gli spediva. 

Dopo pochi mesi nei vari campi la maggior parte degli internati non dormiva più sotto la tenda. 

Passarono cosi i giorni, i mesi e gli anni in un'atmosfera di speranze e di delusioni che si alternavano continuamente.

La sorveglianza dei campi a quell'epoca era stata affidata alla polizia locale; in seguito, dopo alcuni incidenti, si alternarono scozzesi, congolesi e indiani sick.

Fu durante il periodo egiziano che si ebbero molte evasioni. Tutte le sere, attraverso i reticolati, molti internati  tagliavano la corda per un'innocua visita a casa: ad un certo momento, su cinquemila prigionieri, più della metà erano latitanti. 

Mi narrava Oscar che una notte, dal campo 9, fuggirono in tre e raggiunsero a piedi Ismailia, per prendere  un taxi e arrivare il Cairo, l'autista però si insospettì sentendo parlare sottovoce in italiano e  facendo finta di imboccare la strada per la capitale, tornò immediatamente a Fayed,  e consegnò i fuggitivi al comando militare inglese. La notizia si sparse con rapidità fra i campi ed alcuni violenti del campo 10 uscirono sulla strada, si diressero verso il taxi che era ancora nel recinto del campo e lo diedero alle fiamme dopo averlo rovesciato. Il comandante delle forze di custodia egiziane fece chiudere all'istante i campi e telefonò al Ministero degli Interni  sostenendo che c’era una rivolta e chiedendo ordini su quanto doveva fare. Dopo più di tre ore, e tutti gli internati erano ritornati alle rispettive tende per la colazione, arrivò dal Cairo l'ordine di fare fuoco nei campi. Le guardie dall'alto delle garitte cominciarono a sparare all'impazzata sui reclusi che, fuggendo, cercavano di nascondersi negli angoli più protetti. 

Mio padre con suo fratello  si rifugiarono nella tenda, ove per avere un po’ di refrigerio durante le ore diurne,  avevano scavato all’interno,  per tutta la larghezza del perimetro, una fossa profonda un metro. Quella specie di trincea risultò fondamentale per la loro incolumità. Per fortuna le guardie non erano tiratori scelti e le perdite si «limitarono» a tre morti e qualche ferito. Fra gli uccisi l'architetto Farloni, e l'avvocato Vianello che si stava facendo la barba vicino al reticolato. Dopo questo tragico avvenimento tutti i campi vennero chiusi e la circolazione fra i 20 campi sospesa per un periodo di circa dieci mesi; era il 3 febbraio 1941.

Il campo 10 venne sciolto ed i suoi occupanti vennero disseminati nei diversi campi.  Cominciò così una nuova vita, sempre uguale. 

Una mattina d'agosto 1941, subito dopo l'adunata, la porta del campo fu chiusa alle  spalle degli internati che rimasero intrappolati fra i fili spinati dell'anticampo. Poco dopo arrivò un plotone di soldati britannici con l'ordine di perquisire tutte le tende, alla ricerca di qualche apparecchio radio ricevente che avrebbe dovuto trovarsi in un campo. L'ispezione durò tutto il giorno. Il sole era già tramontato da un pezzo, quando i soldati, finita la loro ricerca, uscirono dal campo a mani vuote. Rientrarono nelle tende solo a notte inoltrata. Erano rimasti circa quindici ore sotto il terribile sole d'agosto, senza né mangiare né bere, ed a quell'ora di sera il rifornimento d'acqua era stato interrotto. Non restava che aspettare il mattino seguente quando la fornitura d'acqua sarebbe stata ripresa: nel frattempo bevvero quella inutilizzata che era servita quel mattino per lavare le gavette.

Si avvicinava ormai la fine del 1941; in quell'epoca i prigionieri potevano incontrarsi solamente la domenica, giorno di libera circolazione fra i diversi campi, mentre negli altri giorni nessuna comunicazione era concessa.

I giorni passavano sempre più lentamente e le giornate sembravano sempre più lunghe: la monotonia era interrotta dalle adunate della mattina e della sera quando il «Sergente Hinen», scozzese senza kilt, li contava ad alta voce facendo vibrare la sua meravigliosa dentiera. Non mancavano le angherie da parte dei vice comandanti militari, i Captains Shakal e Maccombe che li coprivano di insulti, come « bloody bastards e dirty Italians», accompagnati da qualche pedata nel sedere, quando i bollettini di guerra annunciavano i bombardamenti delle città inglesi da parte della «Luftwaffe».

Uno degli innumerevoli accidenti lanciati dagli internati all'ineffabile Shakal per le sue angherie pare lo raggiunse, sotto forma di un infarto, mentre poco gloriosamente si trovava al gabinetto.  Il colonnello Simm, comandante del campo, si vedeva raramente; uno dei pochi fu un certo Biagini, durante il processo per aver lasciato un asciugamano steso sul tirante della tenda oltre le dieci del mattino, termine massimo prescritto dal regolamento del campo per la pulizia e l'ispezione. Fu condannato ad otto giorni di rigore, il «Khalabosh», (deformazione del termine marinaresco in uso sui velieri derivato dal francese “cale à bouche” che indicava l’ingresso alla stiva attraverso il boccaporto) dove era obbligato a dormire su un pavimento di cemento che la sera veniva regolarmente inondato d'acqua.

Dopo la sparatoria, le visite dei familiari furono sospese per circa un anno, con costernazione di mia madre e di tutte le mogli. I colloqui poi erano delle brevi soste al campo visite, al quale gli internati erano ammessi, dopo una rigorosa perquisizione.

Mia madre Iole, con il sottoscritto, ci recavamo a visitare mio padre accompagnati da sua sorella Dora che si recava dal marito l’ingegnere Marco Osmo,  che si trovava in un altro campo. Si arrivava dal Cairo con l’autobus verso le dieci del mattino ed ci era concesso di entrare. Tutti sopportavamo stoicamente le quattro o cinque ore di autobus, dal Cairo a Fayed ed altrettante per il ritorno; portavamo oltre ai colori per dipingere, sempre qualcosa da mangiare che aveva per i  nostri congiunti l’inconfondibile sapore di casa. Dopo poche ore la visita era finita; gli internati erano felici, ma con il cuore stretto; dei loro cari non restava che il polverone sollevato dagli autobus che si allontanavano nella valle verso il grande lago Amaro. Mai nome fu così appropriato! 

Ricordo l’angoscia provata in quei viaggi quando costeggiando in autobus il canale di Suez, io che sedevo accanto a mia madre posizionata vicino al finestrino, essendo piccolo, vedevo solo l’acqua ed avevo il terrore che il mezzo ci cadesse dentro. Tutto finiva quando si raggiungeva Ismailia e ci si inoltrava verso Cairo, di cui rimembro ancora la vista dei falchi che planavano silenziosamente e maestosamente nel cielo cairota. 

Intanto passarono altri lunghi mesi. Ai prigionieri era stato concesso di organizzare, la domenica pomeriggio, dei concerti sinfonici che si tenevano all'aperto con il solo scenario delle brulle alture circostanti. Sia il direttore d'orchestra che tutti i musicisti erano internati civili provenienti dai diversi campi. Durante questi concerti  le note magiche della quinta sinfonia di Beethoven echeggiavano maestose e solenni fra le torri rocciose arroventate dal sole, rudemente incise nella volta del cielo azzurro, che lentamente si tingeva dei colori del tramonto.

Ad un certo punto i prigionieri, data la loro operosità, furono autorizzati a manipolare l’argilla, che abbondava da quelle parti, consentendo la costruzione di piccoli edifici. In breve tempo sorsero delle piccole “isbe” con il tetto di “safiha” ricoperto da stuoie per isolarlo dal calore solare. Oscar e Edmondo edificarono la loro casetta insieme al cugino Stupazzoni, Polzi e Zanovello. 

Narrava che la cosa più importante per i prigionieri era la piacevole sensazione di calpestare la durezza del pavimento di mattoni. Finalmente, almeno nella “isba” non avevano più contatto con la sabbia e la nuda terra! 

Poterono  usufruire della costruzione per brevissimo tempo perché nell’autunno 1942, dopo la battaglia di El Alamein, dovendo cedere il posto ai prigionieri militari tedeschi in arrivo, e che dovevano dormire sotto la tenda, ad Oscar ed Edmondo, insieme ad altri internati fu ordinato di demolire quanto costruito. 

Furono poi spostati alle scuole italiane di Bulacco ove rimasero qualche mese per essere poi ambedue trasferiti a Tantah, ove trascorsero quasi due anni, quando improvvisamente  ai primi di giugno 1944 arrivò l'ordine della loro liberazione.

Finalmente, dopo tante attese, il grande giorno era arrivato, i quattro anni dell'internamento erano finiti! 

 

Torna all'indice

Home page