Il Faro e le Banane

 Paola Grassi racconta il suo arrivo in Alessandria

    Mi è sempre capitato di leggere ricordi di strazianti addii da Alessandria vista dal punto di vista di chi partiva, una città -nido che scompariva man mano con lacrime e rimpianti. Io, invece, l'ho vista come spettatrice e viaggiatrice che arriva. Solo che avevo sette anni e un grande mito: il Faro! e un altro mito, un po’ meno grande ma sempre legato a qualcosa di inaccessibile: le banane. 

    Avevo dunque sette anni e vivevo spensierata nella bella città di Firenze con tanti pazzi e simpatici amici, finché un giorno mio padre mi annuncia che dobbiamo tutti tornare in Egitto, anzi in Alessandria... sgrano gli occhi, mi confido con i miei amici del quartiere ma ahimè l'ignoranza era tanta e l'unica cosa che vengo a sapere è che si tratta di un paese lontanissimo, con tanti uomini neri ma… c'è una cosa fantastica:il Faro di Alessandria (è una delle sette meraviglie del mondo) e quindi mi ritengo molto fortunata rispetto a loro. 

    Partiamo, mia nonna ed io (i miei genitori e mio fratello ci avevano preceduto) su una scassatissima nave napoletana chiamata Filippo Grimani. Non ho molti ricordi della traversata tranne l'ansia dell'arrivo e del faro che sicuramente mi attende. E poi c'è la storia delle banane, a me piacevano molto ma nel dopoguerra, a Firenze, costavano un occhio e quindi il massimo era di gustarne una il giorno del mio compleanno. Però gli amici mi avevano detto (sicuramente per consolarmi un po’) che lì ne avrei trovate a bizzeffe... ero un po’ scettica ma, non si sa mai.

     Insomma finalmente una mattina viene avvistata la costa egiziana. Saltello sul ponte, mi faccio prendere in braccio da vari passeggeri che non capiscono bene l'agitazione di quella bambina ma mi assecondano bonari... eccolo, da lontano vedo un piccolo cilindro bianco e nero che si sporge su una baia grigiastra... la nave si avvicina, il cilindro rimane uguale, forse un po’ più grande ma terribilmente banale con le sue strisce bianco nere alternate e nient'altro. Non vedo nient'altro. 

    Il Faro... eccolo lì, piccolo, insulso, quasi fatto in serie... ma cosa diavolo racconterò ai miei amici?

    E poi vengo risucchiata dalla foga dell'arrivo, dai profumi sconosciuti. Vengo trascinata da un autista in una casa immensa che però puzza di tabacco (era situata sopra la fabbrica di sigarette di mio padre e di mio zio). Stupita e assai stordita esploro tutte quelle stanze ancora sconosciute che però accompagneranno i miei futuri otto anni di gioie e di scoperte di un nuovo mondo. 

    Ad un tratto mi fermo esterrefatta: in mezzo ad un grande tavolo troneggia un vassoio colmo di banane, di che rimpinzarmi per settimane. Le fisso e poi mi metto a piangere: il fatto è che gli amici, malgrado tutto, mi mancano proprio tanto e non posso più condividere tutte queste emozioni.