da “Il Giornale” – Domenica 28 maggio 2000

Sulle tracce degli architetti italiani che hanno dato un volto alla città

di Stenio Solinas inviato a Alessandria d’Egitto

 

Immigrati di qualità

 

 

 

 

 

 

 

 

Casella di testo: La moschea di Abu?AI?Abbas ad Alessandria d'Egitto, opera di Aldo Rossi. Come altri importanti edifici della città è stata progettata da un italiano. L'influenza italiana ad Alessandria inizia già al tempo del Risorgimento e raggiunge l'apice fra le due guerre mondiali. Ad Alessandria è sepolto anche Vittorio Emanuele III che vi morì. Oggi la comunità italiana conta appena un migliaio di persone ma si tratta di “immigrati” di qualità.

    Mohamed Fouad Awad, docente di architettura dell'università di Alessandria, ha scritto un saggio, "Italy in Alexandria, an Account of Italian Influence on the City's Architecture", in cui l'impronta italiana della città vieni fuori prepotente. Dalla Corniche al Palazzo reale di Ras El Tin,  dal Cecil Hotel al monumento ai caduti, dal cinema Rialto alla facoltà di agricoltura, già scuola italiana, all'ospedale, già Benito Mussolini, alla dislocazione di piazze e giardini, all'”ornato” relativo alle strade, l'eredità è massiccia. Per un Aldo Rossi che si dedicherà alle moschee, Abou EI Abbas El Moursi, Ibrahim Mosque, ci sarà un Clemente Busiri Vici pronto per l'urbanistica sociale e un Ernesto Ferrucci per i luoghi di svago e di rappresentanza. Il Banco di Roma di Gorra del 1905, ispirato a Palazzo Farnese e ora sede della Banca Nazionale Egiziana, rimane ancora il più bello stabile cittadino.

    “All'inizio del secolo, su 37 imprese di costruzioni, 11 erano italiane”, dice il professor Awad. “La struttura di questa comunità è in grado di garantire dall'imbianchino al decoratore, dal falegname allo scalpellino. È come una società di mutuo soccorso applicata alle professioni. Se i greci dominano nella ristorazione e i siriani e gli ebrei nel commercio, gli italiani monopolizzano l'urbanistica”.

    A una prima emigrazione politico-ideologica, al tempo dei moti risorgimentali, e che vedrà i nostri esuli impegnati a riordinare le finanze, l'esercito e l'amministrazione dei locali Khedive che si succedono, segue il rientro in patria, una volta che l'unità da sogno doloroso si trasforma in realtà. La fine del secolo vede il fenomeno ripetersi, mutato di segno e ingrandito nei numeri.

    Non sono più le élites a muoversi, ma è una fiumana contadina e proletaria, piccoli artigiani e bracciantato, l'emigrazione classica di un Paese povero che cerca un posto al sole. Fra le due guerre raggiungerà le trentamila unità, seconda per numero soltanto a quella greca.

    Ciò che emblematicamente ne resta è qui, nelle stanze della Casa di riposo Vittorio Emanuele III costruita con i soldi della Società Italiana di Beneficenza e inaugurata dalla “augusta Maestà” in persona nel 1931. Quella che un tempo ospitava 1.500 persone, sole o bisognose di cure, oggi ne raccoglie appena trentadue, fra i settanta e i novant’anni, ultimi fuochi fattisi cenere di una presenza operosa e orgogliosa, travagliata e tenace.

    “Se vuoi vedere un brandello del come eravamo devi andare lì”, mi aveva detto Sergio Tau. Regista televisivo specializzatosi in questi ultimi anni nel raccogliere le memorie di un'Italia dimenticata perché vinta, perché politicamente scorretta, perché portatrice di sensi di colpa in chi avrebbe dovuto ricordarla, Tau in  autunno farà per la Rai Italiani d'Egitto, una pagina di storia appena sfogliata.

    Aveva ragione: ogni stanza contiene i ricordi di una vita, le memorie di una italianità nata e cresciuta fuori dei confini di casa, una casa mai abitata e quindi immaginata con la passione cieca e assoluta degli innamorati. Vecchi tornati bambini si stringono nei loro pigiami e nelle loro vestaglie, si lamentano del mal di pancia, dei mille acciacchi dell'età, sgranano gli occhi e ti snocciolano felici i nomi di ditte e di imprese dell'Alessandria italiana che fu, Cartareggia, Pinto, Misitano, Garozzo, Almagià ... le rughe delle ospiti più anziane conservano bagliori di sorrisi e stupori infantili, e la luminosità degli sguardi è la stessa del loro tempo di ragazze all'istituto Don Bosco, alla scuola del Sacro Cuore, la giovinezza di piccole italiane sull'altra sponda del Mediterraneo. L'antico refettorio è chiuso, così come il piano pagante, l'ala dove  le suore comboniane organizzavano la vita della casa, gli spazi comuni per lo svago e il riposo. “E un momento delicato, di transizione”, mi dice il  direttore Michele Patruno: “Di quelli della mia generazione siamo rimasti in pochi e facciamo  fatica a capire come poter riconvertire il complesso a nuove e diverse esigenze”.  

 

 

 

 

 

Casella di testo: Il faro di Abousir

Patruno aveva sedici, anni quando venne internato dagli inglesi nel 40. Nel Dopoguerra diresse  l'Ospedale italiano e rimase al suo posto anche a nazionalizzazione avvenuta. Da trent'anni è in quest'ufficio, anche lui, ormai anziano fra gli anziani, di cui conosce tutto, con cui condivide tutto, i ricordi per primi.

    “Non è una questione di soldi, è una questione di mentalità”. Il cavalier Alessandro Monti ha una ditta di abbigliamento e dirige la Dante Alighieri, bella e piena di vita, alle spalle del Museo Greco-Romano fondato da un archeologo italiano, Botti, costruito da un  architetto  italiano, Zaffarani. A Alessandria è fisso da mezzo secolo: se ne andò con l'esodo della guerra, vi ritornò, in controtendenza,  al tempo della crisi di Suez.

 

 

 

TECNICI E PROFESSIONISTI

    Da allora non s'è più mosso: “Capii che si poteva lavorare con gli egiziani, che c'erano ragioni profonde dietro al nazionalismo di Nasser, che l'epoca dei protettorati era finita e andava voltata pagina. Il tipo di presenza italiana che ho conosciuto da ragazzo non tornerà più, è cambiata l'idea stessa di emigrazione. Oggi arrivano tecnici e professionisti di grandi industrie, di imprese commerciali: stanno qui qualche anno, poi ci sarà il ricambio, una minoranza che noi aiutiamo nell'inserimento, ma che sappiamo essere aleatoria. Poi ci sono gli egiziani di nazionalità italiana, uomini e donne che con il matrimonio acquisiscono anche una cittadinanza. Per loro facciamo corsi di lingua, cerchiamo di facilitare la fusione fra due mentalità differenti.

    Fra loro c’è chi vorrebbe andare a lavorare in Italia, l’emigrazione vista nel suo rovescio rispetto al passato. Abbiamo 400 studenti l’anno, classi di 30/35 allievi. Il nostro futuro è questo, una comunità che supera appena il migliaio di persone e di cui non più di trecento a Alessandria ci sono nati, una scuola elementare e media che ha una ventina di alunni ...         E però, per la nostra storia, per il peso culturale che abbiamo, per le suggestioni che rappresentiamo e per i segni di pietra e di inchiostro che abbiamo lasciato, ci portiamo dietro un ruolo ed un significato di gran lunga superiori rispetto a cifre così piccole”.

    Alla Casa di riposo, nell'ufficio di Patruno, una fotografia ricorda il giorno dell'inaugurazione. Ci sono le autorità, il federale, i notabili, ci sono gli ospiti, assiepati sui gradini dello scalone d’ingresso. E naturalmente c'è il re, Vittorio Emanuele III. A Alessandria vi ritornò per morirci, ed è sepolto poco distante dietro l'altare maggiore della Chiesa Santa Caterina, di fronte all'organo più grande d'Egitto, una lapide semplice in una chiesa di metà Ottocento consacrata a una vergine del III secolo.

    Sepolture onorate, sepolture dimenticate, sepolture rivendicate. A Venezia, nella cappella di San Zeno della Basilica, un mosaico del 1200 immortala Marco evangelista mentre arriva per mare ad Alessandria. Il Faro della classicità, tre piani coronati dalla cupola della moschea voluta da Ibn Touloun nel IX secolo illumina il “faro della cristianità” ed è l’ultima rappresentazione credibile di questa meraviglia architettonica e urbanistica. Ancora un secolo e un cumulo di rovine ne prenderà il posto. Quando succede, le spoglie di San Marco hanno già da tempo lasciato la città, nascoste da un gruppo di veneziani in una botte di maiale in salamoia per sfuggire al controllo degli ufficiali mussulmani sul molo. Orgogliosa, la Serenissima rivendica il “sacro” trafugamento e s'inchina di fronte alla salma recuperata. Alessandria, persa nel suo sonno plurisecolare prima arabo e poi turco, lascia correre. Allorché risorgerà a nuova gloria, tuttavia, le antiche suggestioni, gli intrecci religiosi, culturali, di costume, si ripresenteranno attuali come non mai. 

    Nel piano edilizio che la connota a inizio Novecento, un canale taglia la penisola che separa i due porti, l'idea di una Venezia del Mediterraneo balena nei progetti, prende forma nelle costruzioni.

 

L'OASI DI ROMMEL

Sepolture onorate, sepolture dimenticate, sepolture rivendicate. A cento chilometri, il mare di fronte, la sabbia alle spalle, El Alamein allinea vite spezzate, migliaia di migliaia, un campo santo lì dove ci fu il campo di .battaglia. II Dio degli eserciti qui è senza peccato. Mai teatro bellico fu più pulito e più cavalleresco: l'assenza di popolazione e di obiettivi civili, la vasta nudità del terreno di manovra, ridiedero alla guerra il volto di una perduta dignità. Il pietoso recupero dei caduti e i tre sacrari che li accolgono ricompongono il tracciato di una umanità interrotta. Storia e mito, ancora una volta, intrecciano il loro cammino. Se ti inoltri nel deserto, rifarai il percorso che secoli prima fu di Alessandro Magno, in marcia verso l'oasi di Siwa. Nel più desolato dei paesaggi, all'improvviso una gigantesca macchia di verde ti sorgerà dinanzi, palme e limoni, olivi e datteri, laghetti e sorgenti, un'isola di colore che, a sud si arresta di fronte al Gran Mare di Sabbia del deserto libico, di un bianco abbacinante, al nord si annulla nelle dune del deserto occidentale. Sospesa nel tempo, Siwa è una sorta di luogo incantato, e quel po' di turismo che c'è é giovane e solitario, un neo-hippismo più riservato e composto, un abbandonarsi alla natura in nome della cultura. Al centro dell'oasi, la collina di Aghurmi conserva i resti del tempio dove l'oracolo sancì di Alessandro l'origine divina. Nell'estate del 1942, anche il feldmaresciallo Rommel vi si arrampicò. Cercava una strada che dal deserto lo portasse nella valle del  Nilo, aggirando, le difese inglesi. Non la trovò. E forse interrogò l’oracolo sul suo destino.

 

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