A mio padre

Agatino Lombardo

racconta il figlio Ruggero

Mio padre, figlio di emigranti siciliani, nacque ad Alessandria d'Egitto il 7.11.1915, si sposò nel 1937 ed ebbe il primo figlio a gennaio del 1939, l'anno successivo, per l'esattezza il 10 giugno 1940, Mussolini dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. In quel tempo l'Egitto era sotto la tutela dell'Inghilterra e anche se tra Italia ed Egitto non c'era una dichiarazione di guerra il governo egiziano fu costretto dalla Gran Bretagna a prendere i seguenti provvedimenti contro gli Italiani:

Gli Egiziani deportarono nei mesi successivi circa ottomila Italiani con l'accusa di essere considerate "persone molto pericolose". Mio padre fu arrestato il 22 settembre 1940, e portato nel campo di concentramento nel deserto arabico a "el Fayed", il più duro.

Davanti all'entrata della tenda militare

Per i prigionieri vi erano solo tende militari, nessuna assistenza sanitaria, pochissima acqua, nessun contatto esterno, dovettero scavare dentro le tende per fabbricarsi una trincea e per trovare un po' di fresco e dovettero lottare contro una moltitudine di insetti che le riempivano.

Campo internanamento di el Fayed Davanti alla tenda el Fayed

In quattro anni fu concesso solo una volta la visita dei parenti. Quelli di mio padre, con molta fatica e con un certo rischio, vennero tutti a trovarlo per fargli vedere quanto era cresciuto il figlio che era stato costretto ad abbandonare alcuni anni prima.

In questo campo che si estendeva su un perimetro di oltre 5 Km, erano rinchiusi 5.500 Italiani. Gli Inglesi lo avevano suddiviso in 21 sottocampi separati da reticolati di filo spinato che chiamavano "cages" (gabbie).

Mio padre era nel campo n° 17 in mezzo al deserto e lì passò quattro terribili anni.

Ovviamente ci furono dei tentativi di fuga, proteste, scioperi della fame e in più occasioni le guardie armate spararono rasoterra: vi furono 4 uccisi e 13 feriti. Per le privazioni e mancanze di cure morirono 38 internati. Fortunatamente gli Egiziani erano benevoli nei confronti degli Italiani e facevano quanto possibile contro il rigore delle leggi di guerra inglesi.

(mappa riprodotta su gentile concessione di Luciano Prinzivalli)

Durante la prigionia, mio padre rischiò di morire a causa di una brutta infezione al naso (la definì un "vespaio") e fu un medico italiano, di un altro campo vicino, che, a rischio della propria vita e passando attraverso i reticolati di filo spinato, lo operò con una semplice lametta da barba e gli salvò la vita.

Fu liberato il 23 luglio del 1944 e, tornato a casa, dovette ricominciare tutto da capo per la seconda volta. Trovò lavoro per pochi mesi al campo inglese, poi alla compagnia dell'acqua e poi in una azienda di reti metalliche il cui proprietario era secondo cugino di mia madre.

Riuscì a costruirsi un buon futuro ed ebbe altri due figli maschi e per ultima la figlia femmina tanto desiderata. Aveva una abitazione al Cairo ed una ad Alessandria per le vacanze, due domestici che provvedevano alle pulizie della casa ed al lavaggio dei piatti e dei panni. A cucinare pensava mia nonna, regina della casa.

La stazione di Ramleh ad Alessandria negli anni '50

Il 23 luglio 1952, ci fu il colpo di stato che depose il re Farouk, venne allora dichiarato re il figlio, Ahmad Fouad, ancora molto piccolo. L'organizzazione "The Free Officers" che aveva organizzato il colpo di stato, assunse gradualmente il potere e negli anni successivi depose il re e dichiarò l'Egitto una Repubblica con a capo il generale Naguib. Questi, però, nel febbraio del 1954, fu a sua volta spodestato da un altro colpo di Stato e sostituito dal colonnello Nasser. Francesi ed Inglesi furono costretti ad abbandonare l'Egitto. Nasser venne eletto ufficialmente presidente nel 1956. Mio padre, che lavorava presso una ditta francese di reti metalliche, si ritrovò a capo della stessa, delle persone che non erano all'altezza di gestirla e dopo poco tempo litigò in modo brusco con alcune di esse perché riteneva che stessero mandando in fallimento l'azienda.

Mentre tornava a casa, incontrò un amico arabo che faceva l'avvocato e questi, sentito l'accaduto e conoscendo le persone a cui mio padre si riferiva, gli consigliò vivamente di abbandonare immediatamente l'Egitto.

Fu così che si rivolse al Consolato Italiano, spiegò cosa era accaduto e dopo 24 ore ci trovavamo nel porto di Alessandria pronti ad imbarcarci sulla nave Esperia.

Ricordo quanto piansero i domestici quando appresero che saremmo partiti, non solo perché avrebbero perso un buon posto di lavoro, ma perché erano sempre stati trattati come gente di famiglia ed erano veramente addolorati dal fatto che probabilmente non ci avrebbero più rivisto.

L'imbarco non fu certamente bello perché fummo tutti perquisiti, mia madre e mia nonna furono perquisite "accuratamente", alla nonna furono addirittura strappati gli orecchini che indossava con la frase "tanto questi a te non servono più".

Partimmo in sei, mio padre, mia madre, mia nonna, mio fratello, mia sorella ed io mentre il mio fratello maggiore rimase in Egitto da parenti nella speranza di poter concludere gli studi e di aiutarci, ci avrebbe raggiunto in seguito.

Così mio padre si preparava a ricostruire per la terza volta il suo e il nostro futuro.

La traversata fu buona, ricordo che giocavo con i miei fratelli sul ponte della nave, ci rincorrevamo e ci nascondevamo dietro le scialuppe di salvataggio. Rimpatriammo il 30.5.1957.

Dopo lo sbarco (se ricordo bene fu a Napoli) prendemmo il treno per raggiungere Padova, perché mio padre aveva avuto notizia di un posto di lavoro sicuro che, invece, non si rivelò tale, per cui ripartimmo alla volta di Milano dove risiedeva il fratello di mia nonna.

In treno ci rubarono la borsa dove mio padre teneva tutti i documenti e la sua penna d'oro, unico oggetto di valore che era riuscito a far passare malgrado i controlli alla partenza dall'Egitto, mi sentivo responsabile perché quella borsa era sotto la mia testa e la utilizzavo come cuscino.

Una volta raggiunta Milano, lo zio, che aveva una casa molto piccola ai Bastioni di Porta Ticinese, e non poteva ospitare nessuno di noi, ci venne a prendere e ci portò in un albergo, ma qui non ci accettarono perché eravamo senza documenti. Mio padre si dovette, quindi, recare in questura per denunciare il furto della borsa. La morale fu che finimmo in un due dormitori diversi, mio padre con mia nonna non so in quale dormitorio e mia madre con noi bimbi nel dormitorio di via Pasquale Sottocorno dove si rifugiavano tutti i vagabondi dei dintorni. Non potendo rimanere nel dormitorio durante la giornata, la mamma, la nonna, e noi tre piccoli ci recavamo ai Giardini di Pinocchio oppure ai giardini Pubblici e lì passavamo tutto il giorno. La speranza che nostro padre trovasse un lavoro che ci avrebbe permesso una sistemazione migliore regnava nei nostri cuori. Ricordo una certa signora Lucia, una donna senza fissa dimora, magra, molto alta dai capelli bianco argentati, con un sorriso meraviglioso, che ci aveva preso a cuore e tutti i giorni portava qualche cosa da mangiare per noi bambini, ricordo anche che scriveva poesie dolcissime, vederla ci riempiva di gioia. Eravamo nel mese di giugno del 1957.

Dopo 22 giorni mio padre fu chiamato in questura e qui gli furono consegnati i documenti che erano stati ritrovati in una casella postale. Fu un giorno meraviglioso, avevamo ritrovato la nostra identità e per mio padre la speranza di trovare un lavoro diventava più reale.

Poi comparvero due Angeli del cielo, Adriano e Liliana (mia cugina e suo marito), grazie al loro aiuto e alla loro intercessione, la proprietaria dell'appartamento che loro avevano affittato fino ad allora in Via Nino Bixio, venne affittato a mio padre anche se non era molto contenta della presenza di tre piccoli marmocchi.

Mio padre trovò lavorò come piazzista il 23.12.1957, con una pesante borsa si spostava a piedi da Milano a Monza e ritorno per risparmiare i soldi per poter comprare un pezzo di pane in più da dare a noi piccoli. Ricordo che ogni volta che ci si trovava in difficoltà era solito dire "dove non c'è, Dio provvede".

Poco più di un anno dopo fu licenziato perché il principale morì in un incidente stradale, ma lo raccomandarono alla Mascherpa dove fu assunto come piazzista e continuò a girare a piedi.

Un giorno in ditta cercavano delle fatture e non riuscivano a trovarle e a mio padre scappò di dire che in quell'ufficio c'era un po' di caos e che lui sarebbe stato capace di sistemare tutto in poco tempo, la risposta fu "tel chi l'Egizian che l'è bun de sistemà tuch coss (eccolo qui l'Egiziano che è capace di sistemare tutto)". Fortunatamente qualcuno decise di metterlo alla prova, il principale disse che se fosse stato capace di sistemare tutto in tre mesi lo avrebbe tenuto in ufficio, e così fu. Il 3 Ottobre 1959 fu assunto come impiegato alla E. Mascherpa e lì rimase fino alla pensione.

Si dedicò poi anima e corpo affinché tutti i profughi potessero trovare un aiuto al loro arrivo in Patria e per questo nobile obiettivo si iscrisse all'associazione nazionale profughi Italiani d'Egitto (ANPIE) e in pochissimo tempo ne diventò vicepresidente e poi presidente della sezione settentrionale e fu sempre rieletto fino alla sua dipartita.

Il 12 Aprile del 1969 ricevette la nomina di Cavaliere dell'ordine "al merito della Repubblica Italiana."

Mori il 25 marzo 1987, dopo mesi di sofferenza, a causa di un tumore polmonare.

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