Amedeo Malleo (Classe di ferro 1914) racconta dell'internamento di Fayed

Testimonianza proposta da Roger Beraud

La giornata tipica al campo d’internamento (1940 – 1945)

 Foto della Gamaa del Campo Cinque

Dall’alto in basso e da sinistra a destra:

Luigi Fuzio; Bartolomeo Armanza; Ennio Orfanelli; Luigi Ardizzone; Amedeo Malleo; Aldo Biondi; Gaetano Bordonaro; Alberto Isaia; Giacomo De Gennaro; Pasquale Zonca; Luigi Ravasini; Ruggero De Gennaro

Fayed è suddiviso in 22 campi con 90 tende da tre persone. Media di 270 persone/campo per un totale di circa. 5940 internati civili italiani (età dai 16 ai 60 anni). Orari:

          Ore 7.00 sveglia

          Ore 7.30 distribuzione del pane consistente di una pagnotta per tre persone

          Ore 8.00 colazione: the, zucchero servito in cucina del campo d’appartenenza

          Ore 8.30 pulizia della tenda e relativa ispezione

          Ore 9.00-9.30 adunata e appello

          Ore 9.30-12.00 tempo libero

          Ore 12.00 rancio tipico: lenticchie o riso o ceci o fagioli

          Ore 12.30-16.30 tempo libero

          Ore 16.30 adunata e appello

          Ore 17.00 cena tipica: carne o tè con halawa e pane

          Ore 17.30-22.00 tempo libero

          Ore 22.00 spegnimento delle luci ma libera circolazione fra le tende

Ogni campo disponeva di un tendone per le funzioni religiose, l’infermeria per il pronto soccorso, un ritrovo per il tempo libero, la cucina, la cambusa (che era rifornita settimanalmente), la baracca del comandante del campo, docce, latrine (gli addetti alle pulizie erano arabi del luogo), l’orinatoio e quattro lavabiancheria. Ad ogni perimetro di ciascun campo vi erano quattro garitte con guardie armate (i primi furono egiziani poi inglesi, sikhs (indiani) e infine africani chiamati “i congolesi”.

Per i malati gravi c’era l’ospedale, il “19th General Hospital” distante un paio di km e dove eravamo immunizzati con periodiche punture per: colera, tetano, febbre gialla, tifo, ecc. (quelli destinati ad una lunga degenza erano sistemati all’ospedale-campo a Embabeh-Cairo).

La baracca-ufficio del comando italiano responsabile di tutti i campi era situata all’esterno sulla via dell’ospedale. I vari comandanti che si sono succeduti sono stati: il conte Raffo, sig. Buccianti ed infine il sig. Laganà che ricevevano dal comando inglese gli ordini da comunicare ai vari comandanti sottoposti di ciascun campo.

Visite dei familiari. Una al mese dalle ore 10.00 alle 15.00. Potevano portare un pacco d’indumenti e/o cibo. Queste visite erano organizzate dal consolato svizzero che rappresentava gli interessi degli italiani in Egitto. Il viaggio, a pagamento, avveniva tramite pullman dalle città principali al campo stesso. Distribuzione dei pacchi via posta (previo controllo) avveniva mensilmente. Posta (censurata) era distribuita tutte le mattine. D’estate sotto scorta armata c’era il bagno settimanale al lago Salato. Partenza alle 9.30, durata del percorso era di un’ora. Rientro alle 11.30 per il rancio al campo.

Nel periodo ’40-’42, la libera uscita degli internati tra un campo e l’altro avveniva dopo l’adunata del mattino fino l’ora di pranzo, nel pomeriggio nuovamente dopo cena fino alle ore 22.00. Dopo quel periodo iniziarono le prime fughe e la libera uscita fu ridotta ad una sola visita settimanale.

Sport. Oltre al campo di calcio regolamentare da 11, alcuni campetti six-a-side, tennis e bocce con relativi tornei. Si organizzavano delle recite e concerti sinfonici con 20 musicisti-internati, sotto la direzione dei maestri Carro e Rosati. A questi concerti assisteva anche il Comando britannico.

I permessi straordinari d’uscita da Fayed erano accordati per richiesta specifica del consolato svizzero per causa decesso di stretti parenti. Non mancarono le eccezioni di alcuni che ottennero permessi di cinque giorni grazie a conoscenze altolocate.

Gli incidenti mortali nei vari campi sono stati, credo, una decina, uccisi presumibilmente dalle guardie nel campo.

Oltre ai 22 campi vi era quello riservato alle visite, uno per quelli che aderirono alla “Italia Libera” ossia gli anti-fascisti, ed uno ai prigionieri libici.

Termino questa mia descrizione circa una “Giornata tipica” di noi ex internati al campo di Fayed salutando tutti quelli rimasti in vita o in loro assenza i parenti e di-scendenti.

 

Fuga da Fayed

Febbraio 1942. Era già iniziata nei campi la sindrome delle fughe. “L’organizzazione” di tali operazioni assicurava previo pagamento di 10 piastre per corrompere le guardie, allora egiziane, e agevolare la fuga. Perciò decisi con l’amico Giorgio Fiorillo di tentare la grand’avventura.

Dopo qualche giorno fummo avvisati che la partenza, sarebbe avvenuta il martedì seguente. Quel giorno, era di pomeriggio mentre giocavo una partitella di calcio, venne qualcuno ad avvisarmi che si partiva alle sei e di farmi trovare al Campo 7 per quell’ora. Mi raccomandai che anche Fiorillo fosse avvisato. Già fatto! fu la risposta.

Mi affrettai a prendere le poche cose che avevo già preparato e abbracciai i miei compagni di tenda, i fratelli De Gennaro, e alle cinque mi trovavo già sul posto super eccitato dove m’aspettava il mio compagno di fuga.

Gli organizzatori ci spiegarono che in un certo posto del Campo 7 avevano già predisposto lo spazio di passaggio sotto i reticolati e di non fermarci assolutamente se le guardie avessero ordinato Oaf Andak! (fermo dove sei) e di stare lontani dai luoghi illuminati. Andò tutto liscio per fortuna. Ci trovammo in sei fuggitivi e dopo qualche ora di cammino rimanemmo in due poiché gli altri erano diretti verso il Cairo.

Con l’aiuto di una piccola bussola che avevo, cercammo di dirigerci sempre verso il nord, cosa non facile nel buio del deserto. Verso le sette dopo una “scarpinata” di quasi 30 km (lo scoprì anni dopo quando guardai una cartina), ci trovammo vicino ad un villaggio ed esausti come eravamo, decidemmo di riposarci un poco. Appena adagiati sulla sabbia ci vediamo arrivare un gruppo di fellahin che ci chiese subito chi eravamo. Ho risposto: greci d’Alessandria e che eravamo in visita da amici che lavorano in un villaggio vicino, e che cercavamo un posto dove attraversare il piccolo canale d’acqua dolce per raggiungere la strada maestra e prendere infine il treno per Alessandria.

Per non rimanere sotto il sole cocente, c’invitarono nella loro capanna per prendere un the, e ci dissero che il vil-laggio vicino era Qassasin e che il ponte più vicino per attraversare il canale era guardato da militari. Detto questo, evidentemente avevano capito tutto! Si vede che non eravamo i primi fuggiaschi né gli ultimi.

La scappatoia c’era ed era una meaddeyah, un traghetto, che caricava persone e animali. Il costo del passaggio era di 25 piastre a testa! Non avemmo altra scelta, ci sentimmo ricattati, dovemmo accettare, anche se eravamo stati abituati fin da piccoli a contrattare… Ci dirigemmo verso il traghetto che era una semplice zattera tirata con delle funi. Allo sbarco, abbiamo chiesto per semplice curiosità all’addetto il costo del passaggio. Due piastre, fu la risposta… Ci consolammo a vicenda convincendoci che questo raggiro subìto era da considerarsi come un bakshish! C’informammo circa i mezzi che avremmo dovuto usare per arrivare alla nostra destinazione finale. Ci fu detto di prendere l’autobus per Zagazig, che avremmo raggiunto in circa un’ora, e da lì proseguire in treno per Alessandria. Affamati com’eravamo, a Zagazig ci siamo presi un paio di panini con pane baladi di foul e falafel e una Spathis. Che goduria! Dopo mezz’ora prendemmo il treno per Alessandria via Tantah, il viaggio durò più di quattro ore. Finalmente, nonostante l’odore acre del fumo del camino che emanava la locomotiva, alle porte della nostra amata città ci sembrò di sentire l’odore di salsedine, infine dei nostri tanti ricordi della nostra giovinezza spensierata, la famiglia, gli amici… Arrivati finalmente alla stazione di Sidi Gaber, Giorgio prese il tram in direzione di Moustafà ed io quello per Cleopatra-les-Bains.

I miei parenti erano naturalmente all’oscuro della mia fuga e quando ho suonato alla porta, dissi a Gemma sorella di mio cognato Armando: “non spaventarti, sono io Beo, apri” e quando aprì, cacciò un urlo così forte che il bawab si svegliò dallo spavento.

Foto presa nel 1941 a Fayed al Campo Visite

Dall’alto in basso e da sinistra a destra

Sig.ra Magnifico (zia materna dei fratelli De Gennaro); Giacomo, la sorella Franca e Ruggero De Gennaro; Jolanda e il fratello Giorgio Fiorillo

Accovacciati: Remo Fiore e l’autore Amedeo Malleo.

Oltre a mia sorella con i suoi due bambini, c’erano le sue due cognate e la suocera. Dopo tanti baci e abbracci, tutti a chiedermi: dai raccontaci come sei scappato… Io ero sfinito dalla stanchezza e dall’emozione. Avevo i piedi così gonfi da non poter più camminare. La suocera di mia sorella mi preparò subito un pediluvio con acqua calda e sale e devo affermare che è stato un vero toccasana.

Il giorno dopo mi svegliai dopo le dieci e al mio risveglio riprese l’interrogatorio: come si stava al campo, se avevo notizie dei loro fratelli internati (erano tutti i tre al Campo 11) ma purtroppo di loro non ne avevo nessuna. Le mie giornate le passavo con i miei nipotini, fare qualche commissione e le solite passeggiate alla “corniche”. Così passarono dieci giorni quando una mattina venne a casa un’amica maltese, che abitava nella stessa via e che sapeva della mia fuga, dicendo che il giorno prima la polizia chiedeva alle varie famiglie italiane residenti nel quartiere, notizie circa un internato italiano che era evaso da Fayed. La notizia mi allarmò e per evitare eventuali guai ai miei parenti decisi di presentarmi all’indomani al governatorato. Giunto al governatorato, incontrai un gruppo d’italiani che ricevettero “l’invito” di presentarsi con lo stretto necessario ”nécessaire” per l’internamento. Al ché la guardia mi chiede di esibire detto “invito”, gli risposi che non avevo nessun invito ma mi presentavo volontariamente essendo fuggito dal campo di Fayed ed ero venuto per costituirmi.

L’ufficiale egiziano dopo aver scartabellato alcuni documenti mi disse: <Bienvenu Monsieur l’évadé> mi chiese chi mi aveva arrestato. Gli risposi: nessuno, mi sono presentato volontariamente (forse in quel momento avrà pensato che avevo nostalgia del campo…). Mi disse di attendere con il gruppo e che saremmo partiti per Fayed dopo un’ora.

Erano le tre del pomeriggio. Fatti salire su una camionetta, ci dirigemmo verso la stazione centrale. Durante il viaggio in treno, rischiammo d’essere linciati da alcuni egiziani – che giorni prima subirono un bombardamento che provocò parecchi morti oltre alle loro case distrutte – i quali ci presero per prigionieri militari italiani. Fummo salvati dalle nostre guardie fortunatamente armate.

Finalmente dopo aver cambiato due volte treno, siamo arrivati al campo alle otto del giorno successivo e pensavo all’eventuale dura punizione che mi attendeva. Al posto di comando inglese, c’era un sergente ed un internato che fungeva da interprete, al quale il sergente gli chiese di farsi dare le mie generalità, il numero del campo dove ero alloggiato e quand’ero scappato. Dissi al sergente che conoscevo bene l’inglese e che poteva farmi le domande direttamente (fui per parecchi anni, dipendente alla Shell). Risposi che non ricordavo né la data, né il numero del campo da dove evasi e né la persona che aveva organizzato la fuga. Mi chiese inoltre se le guardie ci avevano fermato e come siamo scappati. Gli risposi con ironia che se le guardie ci avessero fermato non sarei potuto scappare e come siamo fuggiti, la risposta fu: ovviamente a piedi! Queste mie risposte in modo sarcastico devono averlo irritato non da poco e dopo aver chiamato la sentinella dicendogli di portarmi al Campo 5, con un sonoro calcio sul sedere mi disse: Go to your cage… bloody bastard! Mi sono voltato e guardandolo in faccia gli risposi: F…. you Sergeant! Arrivato al mio campo gli amici mi fecero grandi feste, e le solite domande sull’andamento della guerra, amici, la città, ecc. Ritornai nella mia tenda con i fratelli De Gennaro e ripresi il solito tran-tran. Fine dell’avventura.

L’internamento per me durò altri tre anni e mezzo, fui liberato nel mese di maggio del 1945.

P.S. Il mio compagno di fuga Giorgio Fiorillo, lo rincontrai al Cairo subito dopo il rilascio (non accennammo per nulla sul seguito della nostra fuga, non so il perché, forse per orgoglio) e poi un paio di volte a Milano negli anni Settanta.

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