Hugo
Chávez ha vinto. E gli ci
vorrà qualche tempo, ora, per
leccarsi le ferite di questa
vittoria. Il senso delle elezioni
parlamentari venezuelane,
celebratesi questa domenica, è, in
fondo, tutto racchiuso nel paradosso
di questa molto ossimorica
combinazione di frasi. Il
Psuv, ovvero, il
partito-stato creato dal presidente
bolivariano a sua immagine e
somiglianza nel 2006, ha conquistato
una solida maggioranza
– 95 seggi contro 62 – nell’Assemblea
Nazionale, ma non ha alcuna
ragione per celebrare questo “trionfo”
(e, infatti, non lo ha celebrato, se
non con qualche frase di
circostanza). Perché? Per una serie
di assai ovvie ragioni.
La prima (e più ovvia) delle quali
sta nel fatto che, grazie alla
vittoria di domenica, il partito di
Chávez perde il controllo assoluto
di un potere legislativo fin qui
ridotto ad una semplice (e spesso
caricaturale) cassa risonanza della
volontà politica del presidente.
Salvo trucchi o forzature –
elementi, questi, peraltro,
nient’affatto estranei al suo stile
di governo – Chávez non sarà, d’ora
in poi, né in grado di far passare a
comando le cosiddette “leggi
organiche” (il non sempre
incontaminato cibo di cui si è fin
qui nutrita quella magmatica
creatura che va sotto il nome di “socialismo
del XXI secolo”), né di
governare per decreto come ha fatto
negli ultimi cinque anni.
Seconda – ed altrettanto ovvia –
ragione: perché al di là del numero
dei seggi conquistato – ed
artatamente rigonfiato da leggi ad
hoc e da un’alquanto faziosa
ridefinizione dei confini dei
distretti elettorali – il voto
rivela come, oggi, una metà del
paese si opponga di fatto al sistema
politico vigente, alla politica ed
al culto della personalità (la sua
personalità, ovviamente) da Chávez
instaurato in Venezuela. Al momento
di scrivere questa breve nota ancora
non si avevano ancora dati ufficiali
sul voto globale. Ma qualche
rappresentate del Mud,
il cartello dell’opposizione, già
aveva attribuito alla propria parte
politica il 52 per cento del
suffragio complessivo. Ed i
risultati (questi sì già ufficiali)
del voto per il Parlamento
Interamericano davano cifre
non troppo dissimili (46 a 45 in
favore del Psuv). Un brutto segnale
(brutto per Chávez) in vista delle
presidenziali del 2012, dal
presidente bolivariano programmate
come una plebiscitaria riconferma
d’un potere (il suo) destinato –
ipse dixit – a durare “almeno
fino al 2031”.
In sintesi: con il voto di domenica,
Chávez – che aveva pronosticato la
conquista di “almeno i due terzi
dei seggi” – perde
un’importante tessera nel mosaico
del suo sistema di potere. Nel 2005
un’opposizione allo sbando (divisa
ed in alcuni suoi settori
attraversata da non placati sogni
golpisti) aveva deciso di non
partecipare ad elezioni che
considerava (complessivamente a
torto, anche se non senza qualche
ragione) prive di adeguate garanzie
d’imparzialità. Ed aveva in questo
modo regalato a Chávez un parlamento
che, eletto da appena il 25 per
cento dell’elettorato, era a lui
totalmente asservito (unica
eccezione: la sparuta pattuglia dei
deputati del partito “Podemos”,
staccatosi dalla coalizione che
aveva appoggiato Chávez). Il che
aveva consentito al presidente
bolivariano non solo di governare a
suo piacimento, ma anche di superare
l’inattesa sconfitta elettorale
subita nel 2007, quando il “superferendum”
destinato a sancire quella che Hugo
Chávez aveva solennemente definito
la “nuova geometria del potere”
– ovvero, di nuovo, il suo potere –
era stata battuta di strettissima
misura nelle urne. Grazie al suo
totale controllo del legislativo (e
ad un nuovo referendum, questa volta
limitato al punto della “rieleggibilità”
del presidente) , Chávez aveva poi
fatto passare ad uno ad uno tutti (o
quasi) i provvedimenti bocciati
dall’elettorato.
Che accadrà ora? Difficile dirlo. Le
elezioni di domenica hanno
dimostrato, anzi, confermato due
cose tra loro in contraddizione.
La prima: che il Venezuela,
nonostante la molto ingombrate
presenza d’un “capo supremo”
che come tale si pensa e si comporta
(non di rado con assai mussoliniani
accenti) resta, a suo modo, una
vibrante democrazia.
In Venezuela si continua a votare ed
il voto è davvero – grazie ad un
sistema introdotto nel 1997 – a
prova di frode (per quanto a prova
di frode possa essere il processo
elettorale in un paese nel quale gli
arbitri del voto sono, nella quasi
totalità, sotto il controllo del
governo).
La seconda: che in Venezuela questi
elementi di vibrante
democrazia si muovono in un
contesto dove molto facile è
annullarne (o renderne di fatto
irrilevanti) gli effetti. Del
referendum del 2007, già si è detto.
Ed è bene ricordarsi anche quel che
accadde nel novembre del 2008 (e nei
suoi postumi), quando in Venezuela
si tennero le elezioni
amministrative. Anche in
quell’occasione Chávez vinse. Ma
vinse perdendo (e perdendo male) in
molte delle regioni chiave del
paese. Tra le altre: nella
megalopoli di Caracas,
dove Antonio Ledezma,
candidato dell’opposizione, vinse
ampiamente la corsa per la poltrona
di sindaco. Che fece Chávez dopo
questa sconfitta? Semplicemente:
abolì la carica di sindaco,
sostituendola con un’altra – non
elettiva – affidata ad persona di
sua completa fiducia. Ledezma restò
sindaco, padrone – in pratica – di
un ufficio vuoto, senza poteri né
fondi da amministrare.
Succederà, anche dopo questa “dolorosa
vittoria”, qualcosa di simile?
Stiamo a vedere. In Venezuela si è
aperta una fase politica nuova. E
tutta da seguire…