Kora

Il Melograno, Bollettino di Kora

Il Melograno N 1 : Marisa Galbussera, Perché Kora? Mauro Santacatterina, La cura dell'anoressia-bulimia. Franco Borghero, Il sintomo e la struttura familiare. Ettore Perrella, La cura come formazione.

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Il Melograno 1


Botticelli, La primavera, particolare


Cerere certa si crede oramai di trar fuori la figlia,
ma non è questo il destino, ché aveva interrotto il digiuno
la vergine e mentre vagava ignara per i giardini
aveva raccolto un frutto da un melograno ricurvo
e dalla buccia biancastra sette suoi grani staccato,
portandoli alla bocca.

Ovidio, Metamorfosi V, 332-8

Presentazione

Negli ultimi vent'anni, si è assistito ad un allarmante aumento dei casi di anoressia e bulimia, a tal punto che si potrebbe ormai parlare d'una vera e propria "epidemia sociale" dovuta a molti e complessi fattori, fra i quali ricordiamo il cambiamento del ruolo sociale della donna, le crescenti difficoltà legate al passaggio dall'adolescenza e l'età adulta, ed infine il progressivo diffondersi d'un'immagine idealizzata del corpo femminile.
    La cura dell'anoressia e della bulimia pone spesso problemi particolari, perché in esse non sempre è presente quella chiara consapevolezza del disagio che solitamente induce a chiedere un intervento terapeutico. Proprio per questo tali forme cliniche richiedono spesso un'accoglienza diversa da quella proposta dall'analisi classica.
    Kora, Centro per lo studio e la cura di anoressia e bulimia ha attivato un pool di professionisti che hanno approfondito la teoria e la clinica di queste malattie (psicologi, psicoanalisti, medici e psichiatri). I presupposti di base dell'attività di Kora sono: la necessità di una reciproca integrazione tra la lettura psicologica e quella fisiologica, l'opportunità di non procedere all'allontanamento del paziente dalla famiglia (salvo i casi che richiedano un ricovero ospedaliero), il coinvolgimento dei genitori, lo svolgimento della cura preferibilmente in gruppo, ma soprattutto l'ascolto rispettoso del dolore che tale forma clinica comporta.
    Kora si propone inoltre di svolgere un'attività preventiva nei confronti di tali disturbi. A tal fine organizza giornate di studio, seminari e conferenze su questo argomento.
    Tiene inoltre rapporti con le scuole (in particolare scuole medie superiori) per le quali organizza incontri-dibattito: i giovani tra i quattordici e vent'anni infatti sembrano costituire una popolazione a rischio per i disturbi alimentari. L'azione preventiva viene svolta anche nei confronti degli insegnanti e proprio per questo anche il Provveditorato agli Studi di Padova ha, da quest'anno, inserito i Seminari 1997-1998 tenuti da Kora tra i corsi di aggiornamento per il personale scolastico.
    Kora svolge opera costante di sensibilizzazione dell'opinione pubblica, degli organi politici e sanitari riguardo ai disturbi legati ad anoressia e bulimia nella convinzione che essi implichino anche una responsabilità collettiva che affonda le sue radici nel sociale.
    In questo primo numero del "Melograno" pubblichiamo la trascrizione dei quattro interventi che hanno inaugurato la serie di seminari su Anoressia e bulimia, organizzati a Padova da Kora e dall'Accademia platonica delle Arti (CUAMM, via San Francesco 126, alle ore 15). Per ricevere "Il melograno" basta essere iscritti a Kora.
 


 

Marisa Galbussera

Perché Kora ?

Qual è la marca essenziale che distingue il lavoro di questa istituzione, costituitasi a Padova ed a Vicenza a partire dal desiderio d'un gruppo di psicoanalisti riunitosi attorno ad un idea comune: comprendere e chiarire il desiderio anoressico e soprattutto dargli voce? Ai suoi esordi il gruppo si poneva una serie di domande: perché una giovane donna, spesso intelligente, dotata di una grande volontà e caparbietà, voleva ridursi ad un grumo, ad un mucchietto di ossa senza spessore, a volte anche a rischio della propria vita ? Che cos'è che sta alla base di una così tenace determinazione nello smantellamento di ogni traccia di grasso che possa sporcare quelle membra già tanto scarne ed appuntite? E perché con altrettanto ardore una giovane donna è costretta da se stessa ad infilarsi due dita in gola per procurarsi il vomito ogni volta che il cibo mangiato venga considerato al di sopra di un certo "livello di guardia"? Che cosa provoca tutto questo? Qual è la passione che anima ciascuna di queste singole donne? Esiste un discorso comune a tutte loro? E perché il cibo?

Queste sono le domande che ci ponevamo a partire da un desiderio soggettivo molto preciso e molto determinato. Tutti noi avevamo una formazione psicoanalitica ed a partire da questa ci interrogavamo su un quesito cruciale: perché così poco spesso accade che un'anoressico-bulimica giunga a porre una domanda d'analisi, benché la diffusione del disturbo sia così alta che si può parlare d'un'"epidemia sociale"? (I dati ISTAT relativi al 1996 evidenziano un'incidenza del disturbo del dieci per cento nella popolazione compresa tra i tredici e i ventisei anni).

Credo che nella risposta a questa domanda ci stia la chiave del sintomo anoressico-bulimico. Proverò a definirlo. Potremmo pensare all'anoressia-bulimia come ad una sorta di torre all'interno della quale il soggetto si chiude, si cementa, s'incapsula; una torre i cui mattoni che servono per difendersi dall'esterno sono tanto più spessi quanto più il soggetto che ci sta dentro sente di essere un esserino tanto indifeso da considerarsi nulla più che un niente. "Non sono niente" è un'espressione che capita spesso di ascoltare ad un certo punto della cura di queste pazienti.

Non a caso uso la metafora della torre; infatti la fenomenologia del sintomo anoressico (cioè la sua espressione così come si presenta) fa pensare immediatamente ad una sorta di bozzolo all'interno del quale chiudersi, al riparo da tutto e da tutti. Infatti l'anoressia, nel suo dolore, non si mette in relazione con nessuno. L'Altro è escluso dalla sua orbita, è rigettato, è tenuto a distanza. Tutta la conpulsione sintomatica sta proprio qui, nel tenere l'Altro fuori, il più lontano possibile.

"Quando mangio e mi abbuffo di cibo fino a scoppiare, e poi corro sulla tazza del water per vomitare tutto, non penso a niente. Non c'è niente che mi venga in mente. Lo faccio automaticamente senza alcuna ragione", diceva una paziente del Centro parlando delle sue abbuffate bulimiche. "Non posso ingrassare perché mi viene un'angoscia senza pari se penso di mettere su anche un solo chilo; so di non essere bella così, ma non ha importanza, l'importante è che io mi veda bene, degli altri non m'importa nulla!", diceva un'altra donna parlando della sua immagine scheletrica.

L'Altro immaginario è tenuto quanto più possibile a distanza, fuori da qualsiasi dialettica con se stessi. Non che l'anoressica non abbia le sue buone ragioni per non farlo! Infatti il suo Altro è qualcuno o qualcosa da cui bisogna difendersi. È un Altro terrificante e terribile al punto che l'anoressica, con il suo sintomo, vuol tenerlo il più distante possibile. Ecco allora perché - per tornare alla domanda iniziale - l'anoressica pone così difficilmente una domanda d'analisi.

Nell'anoressia si tratta quindi per così dire d'autocrearsi ed anche d'autocurarsi: di prendersi cura di sé, da sé, senza mettersi in relazione con l'Altro. Il sintomo anoressico esprime proprio questo: un'autocura senza passare dall'altro, un tentativo autarchico di guarigione destinato naturalmente a fallire. Non si tratta beninteso di un'esclusione assoluta, ma puramente immaginaria. In realtà l'unico modo per estromettere totalmente l'Altro, in modo radicale ed assoluto, è la morte. Nella vita, di fatto, i conti con l'Altro bisogna farli; l'anoressia lo sa (almeno l'anoressia non psicotica) e immaginariamente lo rifiuta, tant'è vero che a volte, piuttosto che fare i conti con l'Altro, preferisce scegliere la via del non mangiare.

Nell'anoressia nel suo versante bulimico invece non è più così. Nella bulimia l'Altro è messo in qualche modo in relazione. Ma questa relazione mostra chiaramente di che Altro si tratti: è un Altro che va masticato aggressivamente, buttato dentro, incorporato ma, subito dopo, sputato, espulso, vomitato, perché terribile, tant'è vero che una bulimica, se per puro intoppo meccanico non riesce a vomitare, cade in un'angoscia terribile, che la obbliga a cercare qualsiasi espediente pur di espellere quel cibo-Altro che sente dentro come devastante. In questo senso l'anoressia rappresenta solo l'altra faccia della medaglia della bulimia. L'anoressica pone un argine a ciò che la bulimica non riesce più a sorreggere: cioè il rapporto angosciante con l'Altro. Ecco perché molto spesso l'anoressia rappresenta un passo verso la guarigione rispetto all'anoressia "pura" (detta anche restrict). Con la bulimia l'Altro è entrato nel circolo compulsivo del sintomo divoramento-rigetto.

Ma torniamo alla domanda iniziale, perché Kora? La marca essenziale della filosofia di Kora è quella di porsi come luogo del "riconoscimento". È il luogo concreto dello scambio fra domanda e offerta di cura. Il Centro è un luogo in cui è il soggetto ad essere riconosciuto. In un primo momento queste ragazze giungono al Centro sulla scia di un'identificazione con la loro situazione sintomatica: "Vengo qui perché sono anoressico-bulimica". È la prima tappa del "riconoscimento". Solo più tardi, tramite la possibilità di partecipare ad un gruppo terapeutico o d'avere dei colloqui, sarà possibile per il soggetto mettersi al lavoro, "tirar fuori la testa" e parlare, parlare a partire da una posizione, per la prima volta, assolutamente unica e singolare.

Kora è dunque il luogo in cui il soggetto è riconosciuto come soggetto di una sofferenza e perciò come portatore di una domanda. Infatti domanda di sapere quali sono i mezzi della trasformazione del suo rapporto con l'Altro (e dunque con il suo sintomo). Kora vuole far scaturire il sapere inconscio del soggetto sul suo sintomo. Nel far emergere un sapere, si tratta di costruirlo insieme al paziente, di dar voce a questo esserino schiacciato che tenta, tramite il sintomo anoressico, di cementarsi vivo in una torre che non è d'avorio, ma di dolore e di sofferenza.

L'anoressia-bulimia ha messo in crisi la psicoanalisi, l'ha costretta ad una rivisitazione, ad una rimessa in discussione dei paradigmi del sapere clinico costituito sulle strutture ormai consolidate di nevrosi, psicosi e perversioni. Essa rivendica un posto per sé all'interno della nosografia classica. Si tratta di posizioni nuove e diverse da quelle del tempo di Freud, ed anche di Lacan (né l'uno né l'altro ne ha fatto menzione nei suoi scritti, se non per alcuni brevi e fugaci accenni). La logica del sintomo anoressico è infatti ben diversa da quella del sintomo isterico. Quest'ultimo mette in risalto il rapporto con l'Altro (del significante, del desiderio) mentre il sintomo anoressico tende ad escludere l'Altro, ad estrometterlo.

Che rapporto hanno allora anoressia e bulimia con il nostro tempo ? Si tratta effettivamente di un "disturbo etnico", come lo definisce Devereux nei suoi Saggi di etnopsichiatria comparata? Certamente anoressia e bulimia incarnano perfettamente il nostro sociale, ne sono espressione iperbolica e mitica. Oggi, a differenza del tempo di Freud, in cui la donna si "ammalava" d'isteria, la donna "si ammala" di anoressia-bulimia. La differenza è che a quel tempo l'Altro era pienamente partecipe, si sedeva a tavola col soggetto: il sintomo isterico banchetta con l'Altro, l'inconscio è in primo piano. Invece nell'epoca del rigetto dell'inconscio, della storicità dell'inconscio, le figure iperboliche femminili non sono più le isteriche, ma le anoressico-bulimiche: figure iperboliche di un mondo - quello di oggi - in cui l'Altro è respinto ed il soggetto è schiacciato e surgelato.

L'anoressica lo sa bene e, oggi, può facilmente realizzare il suo progetto: mostrare costantemente l'inconsistenza dell'Altro, ovvero il fatto che l'Altro non può mai garantire il senso del soggetto.


 

Mauro Santacatterina

La cura dell'anoressia-bulimia

Vorrei fare qualche cenno alla possibile cura di anoressia e bulimia, ovviamente senza pretendere di essere esaustivo, ma solo d'individuare qual è la direttrice fondamentale di sviluppo del progetto Kora.

Innanzitutto un chiarimento sul termine "cura". "Cura" è senz'altro preferibile a "terapia", poiché l'uso del secondo termine può essere in questo contesto assolutamente equivoco. In ambito medico, infatti, la terapia è la somministrazione di un farmaco in grado di aggredire la malattia e di riportare il paziente alla condizione di normalità; in ambito psicologico è la tecnica, o l'insieme di tecniche, che mirano al condizionamento e alla modificazione del comportamento. Basterebbe riflettere su questi due significati per rendersi conto che la posta in gioco della cura dell'anoressia-bulimia non è terapeutica. A questo proposito, la semplice lettura di un dizionario della lingua italiana ci permette di prendere una scorciatoia. Un qualsiasi dizionario, infatti, ci dice che noi usiamo "terapia" soprattutto nel suo significato figurato, e cioè come intervento brusco teso a modificare rapidamente una situazione. In altri termini la terapia è sempre terapia d'urto: è chiaro che il presupposto di tutto ciò è la solita epistemologia ingenua, per cui ciò che ci sta di fronte e che chiama un nostro intervento è un oggetto, una datità. Arriverei a dire che si tratta di un'epistemologia anoressica. Infatti, specularmente, il soggetto, il soggetto della terapia, si riduce così a puro punto di vista, completamente innocente rispetto a ciò che gli si dà a vedere. Inutile dire che questa innocenza è perlomeno pilatesca. Ma quello che interessa non è tanto sottolineare la vigliaccheria che può stare alla base delle buone intenzioni terapeutiche.

Questa vigliaccheria c'è, e consiste nel far finta di niente, nel far finta che ciò che vediamo ci chiami fuori, ci deresponsabilizzi, proprio in quanto semplicemente lo vediamo. Ma per non rischiare di fare del moralismo e cioè per non prendere ancora una volta la via delle buone intenzioni, bisogna saper apprezzare la portata etica della cura a partire da una sua necessità logica. A questo proposito va rimarcata l'importanza del riferimento alla psicanalisi. Qual è il fondamento della considerazione psicanalitica della patologia? È che ogni patologia, anche nelle forme più estreme, è un tentativo di guarigione e non un accidente, una perturbazione casuale della soggettività. La patologia, cioè, è una risposta che il soggetto si dà - per quanto paradossale o impropria - al bisogno di salute. Ciò ha delle importanti conseguenze: la prima è che la patologia non è riducibile ad una contrazione, ma al contrario è frutto di un lavoro, attraverso cui - e non solo malgrado cui - il soggetto si prende cura della sua determinazione etica; la seconda è che la considerazione dell'Altro, per meglio dire delle sue risorse, è del tutto inclusa nella patologia, anzi la soluzione anoressica è un'offerta all'altro pensato in quanto altro immaginario (non si tratta tanto della madre, quanto dell'immagine della madre).

Quando un soggetto si presenta a noi come scheletro ci dà la misura della dignità del nostro sguardo; è come se ci dicesse: "L'unico modo in cui puoi vedermi è questo: infatti tu non sopporteresti la mia carne". Oppure: "L'unico modo in cui poi sopportare la vista della carne è questo: l'assenza". Essere all'altezza della dignità anoressica, qui, che significa? Direi innanzitutto riconoscere che il giudizio sul nostro essere indegni di vedere deve essere stato formulato a ragion veduta (è proprio il caso di dirlo). Chi non ha la tentazione, d'altra parte, di lasciarsi scappare un "ma perché non mangi?". Le terapie attuate a partire dal presupposto e con il fine di riportare il soggetto al suo peso-forma, come si dice, poco più, poco meno, non solo confermano il giudizio d'indegnità, ma lo rafforzano. Qui un'efficace terapia può diventare l'ultimo suggello di quella che mi sembra essere la cupa consapevolezza che sta alla base dell'anoressia-bulimia, cioè quella che dell'altro - non c'è nulla da fare - non ci si può minimamente fidare. È vero che anche quando potrebbe il soggetto in questione fatica a fidarsi. Ma, se è così, è perché il soggetto che soffre di anoressia e bulimia è stato mille volte tradito dall'Altro. Il concetto di fiducia, di fides, di capacità di ricordarsi della parola data, ha qui un rilievo fondamentale, come, d'altra parte, nella depressione, nella melanconia o in altre forme cliniche. Allora la fiducia in noi può essere riposta solo quando diamo prova di aver inteso qual è la posta in gioco e di averla accettata coraggiosamente. D'altra parte perché qualcuno che sfida la morte così a viso aperto dovrebbe accontentarsi della sembianza della verità o del suo simbolo o, addirittura, accontentarsi di far credito?

Si capisce allora perché è preferibile il termine "cura": esso indica, oltre che la terapia, ciò che ci sta a cuore. Ma è l'altro che ci sta a cuore? Certamente sì. Solo a patto, però, che, prendendocene cura, sappiamo che ci prendiamo cura di noi stessi. Non è affatto un'operazione facile e tantomeno comoda, ma è sicuramente ciò che l'anoressia sta insegnando alla psicologia e alla psicanalisi. Dico questo perché, se è vero che solo la psicanalisi permette di orientare la cura nelle coordinate etiche, è anche vero che questo non basta, che bisogna andare oltre, innanzitutto prendendo le distanze da una serie di concetti freudiani che rischiano di condizionarci pesantemente, proprio perché ritenuti ovvi. Qui accennerò soltanto ad uno di questi: la neutralità. La neutralità è una delle qualità che definiscono l'atteggiamento dell'analista nella cura. In che cosa l'analista deve essere neutro? Intanto rispetto ai valori religiosi, morali e politici del paziente, dice Freud. L'analista deve astenersi da qualsiasi ideale e da qualsiasi consiglio. Poi deve essere neutro rispetto alle manifestazioni transferali; e da ultimo non deve privilegiare nel suo ascolto nessun contenuto particolare in nome dei suoi pregiudizi teorici. Il concetto di neutralità è al lavoro fin dagli Studi sull'isteria, ma è forse solo in Consigli al medico nel trattamento psicanalitico, del 1912, che Freud arriva a precisarlo. Ora non mi posso certo dilungare su questo punto: chi conosce gli scritti freudiani di questo periodo sa che viene elaborata l'immagine dell'analista come ricevitore e come "parete bianca" (lo slittamento tra il senso uditivo e quello visivo è presente in Freud). Ebbene, oggi possiamo trovarci d'accordo con Freud e usare tranquillamente quest'immagine? Direi di no. Infatti Freud qui pensa alle nevrosi e non considera l'intera nosografia. Ferenzci è il primo analista che segnala questa difficoltà a livello di psicanalisi in intensione; Glover lo farà a livello di estensione, nel 1955, col suo saggio sulla Tecnica della psicanalisi. Ovviamente va condivisa la preoccupazione freudiana di resistere alle tentazioni dell'"orgoglio terapeutico" e dell'"orgoglio educativo", nel senso magistrale del termine. Ma va detto anche che l'assoluta neutralità dell'analista rischia di essere completamente sterile quanto all'anoressia-bulimia. Bisogna invece teorizzare la necessità dell'intervento del corpo emozionale dell'analista e credo che ciò che qualifica la ricerca di Kora sia proprio questo punto. Kora - lo dico come impegno e come augurio - dovrà sforzarsi d'inventare parole nuove, per rendere operativa quella che già Lacan nel suo primo seminario chiamava presenza dell'analista. La presenza dell'analista va pensata come una presenza effettiva, concreta, ma ovviamente non traumatica: ciò, infatti, che lega l'anoressia e la bulimia alla depressione è il fatto che, nel momento in cui si manifesta l'affettività, ciò si traduce in un pericolo per il soggetto, in un pericolo assai concreto, che è un equivalente, neanche tanto fantasmatico, della morte, di cui l'analista deve pur aver provato il brivido, se pretende di capire e soprattutto d'indicare una strada diversa, che tuttavia non risulti una digressione.


 

Franco Borghero

Il sintomo e la struttura familiare

Kora si prende cura anche della struttura familiare in cui vive la persona che presenta sintomi anoressici o bulimici. I colloqui con i membri di queste famiglie fornisce molto materiale per lo studio di questo strano disturbo alimentare che coinvolge tanti giovani. In questa ricerca è però necessario muoversi con molta cautela, perché è molto facile cadere nell'errore di generalizzare, grazie anche alle numerose statistiche che altri studi ci forniscono, ed illudersi di spiegare il fenomeno attraverso facili formulette. Queste spiegazioni credo che siano molto consolatorie per chi studia il problema, ma non fanno avanzare di un passo sulla via della sua reale comprensione. In molte ricerche appare assodato che esiste una relazione tra il cambiamento del ruolo sociale della donna e l'aumento quasi epidemico del disturbo alimentare. Siamo propensi a pensare che, su questo punto, ci sia del vero. Posto questo, però, nulla è stato detto sul tipo di relazione che eventualmente può sussistere. A dire il vero si leggono spiegazioni su questa relazione che sembrano, a dir poco, artificiose. La posizione che assume Kora nei confronti delle statistiche è sì molto attenta, ma anche molto sospettosa. Mi spiego meglio con un esempio: uno studio aveva accertato che le persone anziane che vivono con la compagnia di un animale domestico hanno un'aspettativa di vita più lunga di altre; ne conseguiva il brillante consiglio di procurarsi un gatto o un cane al fine di prolungare la vita, come se la relazione tra il possedere un gatto ed avere un'aspettativa di vita più lunga fosse una relazione di tipo causale, mentre veniva commesso un grave errore logico. La spiegazione avrebbe potuto essere esattamente capovolta ed essere formulata in questo modo: chi è predisposto ad amare i gatti, e quindi ne possiede uno, ha un approccio con la vita più sereno e quindi vive di più.

Questa breve digressione è servita a chiarire la posizione di estrema attenzione che Kora assume nell'affrontare le questioni poste da precedenti studi, ricerche e statistiche inerenti il problema posto dall'anoressia. Ci sono dei dati di fatto sui quali non si può sorvolare, uno di questi è senz'altro il cambiamento del ruolo sociale delle donna. Ma non è il solo, c'è anche il mutamento subìto dall'uomo in questo nuovo contesto sociale, c'è la presenza continua di un nuovo elettrodomestico che si chiama televisione, c'è un'aumentata difficoltà per i giovani d'intrattenere rapporti sociali al di là di quelli scolastici e ce ne sono altri ancora che è inutile enumerare. Ma, come dicevo prima, tutti questi dati sono soltanto, parafrasando un linguaggio fisico, delle "condizioni al contorno", che contribuiscono ad impostare correttamente il problema, ma che, senza formula risolutiva, non dicono nulla. Non solo, ma nel nostro caso, oltre a non possedere alcuna formula risolutiva, non ci troviamo di fronte a degli oggetti, ma a dei soggetti.

A questo punto, e con tutta l'attenzione del caso, è bene cercare di evidenziare quali possono essere le strutture comuni nei genitori e di quant'altri vivono in rapporto affettivo con l'anoressica. Lo scopo è quello di cercare di capire perché s'instauri questo strano rapporto con il cibo e che cosa cerca di dire l'anoressico-bulimica con questo strano linguaggio, che è il mangiare nulla o l'abbuffata con conseguente vomitata.

Una frase che spesso ci si sente dire da un'anoressica è "la mamma non mi ha fatto mai mancare nulla". Ciò è senz'altro vero, ma bisogna chiedersi che cosa questa mamma abbia dato alla figlia. Approfondendo la conoscenza appare sempre più evidente che tutto ciò che la mamma ha dato alla figlia è stato sempre e solo sul piano oggettuale. Non le ha fatto mancare, nei limiti delle sue possibilità, giocattoli, vacanze, vestiti, denaro ecc., ma non appena ci si addentra nel campo dell'affetto ci si accorge che il discorso si fa più nebuloso, se non addirittura evanescente. Da tutto ciò non bisogna concludere che la madre sia incapace d'amare, anche se sicuramente ha qualche difficoltà nel dimostrarlo, ma che esiste un problema nel rapporto d'amore tra madre e figlia.

Un altro dato evidente nella struttura familiare dell'anoressica è che il rapporto tra i genitori appare fondato su basi che sembrano escludere emozione, affetto ed amore. Formalmente il loro rapporto sembra perfetto, raramente si adombrano sospetti d'infedeltà, il rispetto e la stima sono spesso evidenziati nei colloqui, ma tutto si ferma qui. "Non potevo desiderare marito migliore, ha fatto di tutto per non far mancare nulla alla famiglia" è una frase che si ascolta spesso; ma del desiderio e dell'affetto tra padre e madre non si sente parola. Spesso il padre è molto permissivo, demanda alla madre i rimproveri, le punizioni e i divieti (se ce ne sono). Raramente ha ideali o utopie, pensa che una volta procurato il denaro per la famiglia - molto, a volte -, il suo compito sia esaurito. Già con questi pochi dati che ho ora enumerato è possibile trarre alcune considerazioni inerenti il carattere della madre, il quale c'interessa di più di quello del padre, in quanto è alla madre che la figlia tende ad identificarsi. È una donna che ha un grande potere all'interno della famiglia, fatica a sostenere una posizione squisitamente femminile - accoglienza, calore, comprensione, perdono ecc. - e non accetta che la figlia sia diversa da come lei vorrebbe che fosse. In altre parole, più pertinenti ad un linguaggio psicanalitico, si può dire che si tratta di una madre fallica, per la quale il fallo non è il padre, ma la figlia.

La figlia si trova perciò nella scomoda d'essere il fallo della madre: posizione scomoda, perché implica da parte sua l'obbligo di dare qualcosa in cambio: essere brava a scuola, primeggiare in qualche disciplina, in bellezza, bravura, ecc. Il disturbo quindi non si presenta fintantoché le sarà possibile sostenere questo scambio, ma nel momento in cui qualcosa s'incrina sarà possibile che s'inneschi il processo che porta all'anoressia. È sufficiente anche una piccola défaillance per indurre la figlia a pensare di non essere più all'altezza delle aspettative della mamma. Quando si trova di fronte ad un presunto fallimento, che interpreta sempre come incapacità di dare qualcosa alla madre per soddisfarla, può instaurarsi il disturbo, che altro non è se non un discorso che la ragazza fa a se stessa e che si può riassumere così: "Poiché non posso darti quello che vuoi da me (che non so che cosa sia) e che ti temo, allora non voglio più niente da te, non voglio soprattutto quello che non mi hai fatto mai mancare, cioè il cibo". Ciò che l'anoressica deve chiarire è proprio il suo rapporto con la madre, alla quale resta indissolubilmente legata: la ama, la teme e la odia.

Generalmente nelle prime fasi del disturbo l'anoressia viene sopportata dai familiari meglio della bulimia, che invece provoca insofferenza e a volte vero e proprio odio. L'insorgenza del disturbo, sia sul versante anoressico che su quello bulimico, all'inizio può essere minimizzato dalla famiglia, ma alla fine spesso si dimostra devastante, può produrre fratture e separazioni, o quanto meno dinamiche di aggressività e, purtroppo, solo molto tardivamente induce i famigliari a richiedere aiuto. Aiuto che comunque viene sempre richiesto dalla famiglia, quasi mai dall'anoressica.

Per affrontare la cura, Kora considera l'anoressica non come un'ammalata, a cui prestare delle cure per mezzo di medicine o di parole preconfezionate, ma come un soggetto - profondamente etico - che vuole dire qualcosa di estremamente importante che riguarda la sua soggettivazione: quindi tratta caso per caso tenendo sempre presente la diversità tra soggetto e soggetto. Il problema sta nel fatto che il linguaggio usato dall'anoressica, per dire questa cosa estremamente importante, è apparentemente incomprensibile: in altre parole il sintomo non è simbolicamente dialettizzabile. L'anoressica grida con tutte le sue forze, ma resta incompresa. Forse le parole che usa per dire questa cosa estremamente importante sono quelle di un infante che piange e strepita non per fame ma per bisogno d'attenzione o, meglio, d'amore.
 


 

Ettore Perrella

La cura come formazione

Le due parole che, nel nome di Kora, definiscono i suoi scopi - "studio" e "cura" - sono da assumersi in senso forte. Del resto la parola latina dalla quale proviene direttamente la prima, studium, non indica solo lo studio come noi lo intendiamo, ma anche - appunto - il prendersi cura di qualcosa. Studio et cura è un'endiadi molto comune, che possiamo tradurre in questo modo: "con grande interesse ed attenzione" o con espressioni simili. Inoltre la parola "cura", in italiano, non designa affatto solo o prima di tutto la terapia in senso medico (come ha creduto qualcuno, con l'ignoranza linguistica che oggi troppo spesso i medici si concedono allegramente, lontani come sono da ogni considerazione per tutto ciò che non riguardi dei fatti meramente meccanici), ma è qualcosa di molto più complesso. Basta consultare un vocabolario per accorgersene. Quello del Battaglia, per esempio, sotto questa voce, elenca diciannove gruppi di significato, uno solo dei quali (il nono!) è quello medico.

Tuttavia non mi soffermo ora su ciò che implica la parola "cura", se non per alcuni punti essenziali, dal momento che riprenderò il problema alla fine di questo seminario. Ho anticipato alcuni punti solo per mostrare perché un'associazione come l'Accademia platonica delle Arti, che si occupa di formazione, ha ritenuto importante occuparsi anche, studio et cura, d'anoressia e bulimia, fino al punto di creare una sezione apposita. Questo non dipende soltanto da esigenze specifiche del campo della psicanalisi, che richiedono un'organizzazione pratica altrettanto specifica e soprattutto la formulazione d'un pensiero, ma dall'esigenza di tenere conto di certi orientamenti (o disorientamenti) che si diffondono oggi nella società o nella cultura (in senso antropologico) perché corrispondono a motivazioni profonde del nostro tempo.

L'anoressia e la bulimia sono sintomi d'un'epoca dell'immagine e dell'incomprensione dell'immagine. Si dà per scontato: 1. Che l'immagine non abbia nessuna relazione con la realtà; 2. che la realtà debba riprodurre l'immagine. In altri termini la realtà, per essere davvero tale, dovrebbe divenire una sorta di sovraimmaginario. Non è difficile accorgersi che questi princìpi stanno alla base dell'anoressia e della bulimia solo perché sono diffusissimi in tutta la società contemporanea (basti pensare alla pubblicità), e che introducono tutti noi ad una sorta di delirio collettivo, nel quale crediamo che la prima cosa da fare sia di adeguarci ad una certa immagine, e che tale adeguamento possa avvenire semplicemente confezionandola ed esibendola. In questo modo tuttavia s'ignora che in realtà un'immagine è tale solo perché mette in comunicazione due realtà diverse: quella di cui fa parte in quanto oggetto, e quella che evoca perché la rappresenta. Queste due realtà dovrebbero essere sempre presenti in un'immagin, come si sapeva benissimo una volta; si pensi per esempio alla funzione delle icone nel culto ortodosso, che si è indebolita in quello cattolico ed è scomparsa del tutto in quello protestante; del resto proprio in questa progressiva laicizzazione e desacralizzazione della realtà quotidiana possiamo scorgere uno dei motivi remoti della diffusione attuale di certe forme patologiche. Nel nostro mondo tendenzialmente sempre più desacralizzato, invece, bisogna apparire per essere e non si è se non in ciò che si appare. Questo è un principio sociopolitico ed educativo del nostro tempo, del quale l'anoressia-bulimia è la denuncia implicita, eppure sempre sostenuta nel dolore. Questa situazione denuncia la nostra cecità, purtroppo senza riuscire a mutarla, perché ne condivide i presupposti. Come lo si può ignorare, quando si constata come l'immagine che un'anoressica si fa del proprio corpo - ritenuto troppo grasso anche quando il suo peso è radicalmenteinferiore alla norma minima - è così lontana da quanto vedono gli altri? Si potrebbe forse credere che la certezza con cui viene sostenuto che esso non è mai abbastanza magro (vale a dire disincarnato) meriterebbe un impiego migliore, ma sarebbe un errore. Infatti se un'anoressica dedica tanta passione alla propria certezza è perché veramente è certa di qualcosa che tutti noi non vediamo. Lo scopo, quindi, merita il suo impegno, pur meritando anche una politica ed una strategia migliori della tendenza al suicidio graduale.

L'apparenza non è. Tuttavia essa non è nemmeno una semplice mancanza d'essere. Apparire è il tendere dell'essere verso il non essere: non un compromesso, ma un dono. Per apparire bisogna prima essere. Tutto ciò che è si dà a vedere nella sua pienezza. Ora, è proprio questa pienezza che viene negata dall'anoressia, perché l'essere che viene così negato è in realtà un falso essere: appunto quello dell'apparenza.

Dal fatto che tutto ciò che è viene a darsi nell'apparire (nella sembianza, doxa) non si deduce affatto, come crede il nostro tempo, che valga la reciproca: cioè che tutto ciò che appare sia. Perché questo è un principio d'illusione e, quando l'illusione (cioè l'esser giocati dal gioco) diviene un principio d'esistenza, questa esistenza è diventata falsa.

L'anoressia dichiara la falsità del concetto d'esistenza della società regolata in base al privilegio dell'informazione. La domanda posta dall'anoressia è che i formatori diano forma a ciò che è e non ad una mera negazione dell'essere. La negazione che si istituisce nel rifiuto di mangiare è in realtà una vera negazione della negazione. Non in termini hegeliani, tuttavia, perché in questo caso non c'è conciliazione, almeno se il formatore non risponde. Pochi sintomi, infatti, hanno più successo di quello anoressico, nel costringere l'ambiente a prendere partito; e naturalmente è essenziale che in questi casi le scelte fatte siano quelle giuste.

La radice verbale di "essere", un tempo, significava crescere. I filosofi sono i primi ad averlo dimenticato (Heidegger lo sapeva in astratto, ma non ne ha tratto nessuna conseguenza). Si può fare di meglio. Proprio per questo l'Accademia platonica delle Arti deve tentare di dare una risposta a tali equivoci, occupandosi del problema posto dall'anoressia e dando pienezza d'essere anche a questa domanda. Vediamo meglio come.

Kora si propone essenzialmente tre scopi: lo studio, l'informazione, la cura (o formazione). Si tratta prima di tutto d'approfondire il problema clinico della natura dell'anoressia-bulimia, cioè di lavorare non solo alla comprensione dei problemi posti dai soggetti che si trovano in queste situazioni, ma anche d'intendere meglio qual è il posto di queste patologie all'interno d'una clinica e d'una nosografia generale.

I termini medici non ingannino. La nosografia è infatti un terreno o una regione dell'etica. Questo dovrebbe valere anche per la medicina. Non sarebbe male se ci fosse una Sezione dell'Accademia che se ne occupasse. Ma i medici, oggi, hanno in mente tutt'altro che il proprio compito etico, perché vogliono solo dare soluzioni generali a problemi che sono sempre e solo singolari. La medicina partecipa così del problema di formazione che l'anoressia-bulimia denuncia. La medicina, per quanto sia indispensabile, da sola non basta non solo a risolvere, ma nemmeno ad affrontare questo problema. La clinica e la nosografia fanno parte dell'etica come lo studio e la classificazione dei peccati fanno parte della teologia, e per gli stessi motivi (lo dico con un po' d'umorismo, ma non troppo, perché il confronto è serissimo). Insomma, è tempo che clinica e nosografia entrino a far parte d'una teoria della salute, mentre fino ad oggi il concetto stesso di salute è scomparso persino dall'uso degli stessi che dovrebbero ocuparsene, a causa del loro interesse per la patologia (così in psicanalisi si crede troppo spesso che la situazione ottimale sia una specie di media fra più patologie!).

Per occuparsi di questo primo scopo Kora organizza dei Seminari come questo e soprattutto dei Gruppi di studio di diverso livello. Questo ci consente ora di passare al secondo scopo: l'informazione. Si tratta di diffondere una conoscenza il più possibile corretta del problema. I gruppi di studio riguardano certo coloro che operano a diverso livello come psicanalisti o terapeuti, ma riguardano anche coloro che si occupino di anoressia e bulimia per diversi motivi, anche di mera curiosità (ma in questi casi la curiosità è sempre motivata da ragioni molto prossime). L'anoressia, come dicevo poco fa, ottiene un grande successo nel costringere il proprio ambiente ad occuparsi degl'interrogativi che gli pone. Per questo è essenziale che le persone che ne sono toccate trovino delle risposte adeguate, vale a dire non così parziali da diventare erronee. Per esempio è evidente che nessun reparto ospedaliero potrebbe servire ad altro che a tamponare temporaneamente delle situazioni di rischio fisico: operazione talvolt inevitabile, ma che, da sola, non risolve nulla, almeno se non è affiancata da altri punti di riferimento e da altri strumenti d'intervento. Nel caso dell'anoressia, per esempio, spesso la domanda di ricovero è traducibile nella domanda che qualcuno si prenda cura del soggetto. Questo prendersi cura tuttavia è da intendersi nel senso più giusto, vale a dire come espressione d'una giustezza dell'amore, e non come passivo maternage.

Kora si preoccupa perciò di organizzare anche dei seminari informativi destinati ai luoghi che più sono esposti al proliferare del sintomo (per esempio le scuole, presso le quali organizza degli incontri con studenti ed insegnanti).

L'informazione è uno strumento necessario, se consiste in un aspetto della formazione. Chi si forma è tenuto a formare, e per formare spesso bisogna prima informare. Ciò non significa che l'informazione sostituisca in nulla la formazione stessa.

Infine veniamo alla cura, che può avvenire sia con delle analisi a due (che non sono affatto inutili, anche se presentano spesso dei problemi di necessaria connessione con l'ambiente in cui vive il soggetto), sia nei gruppi terapeutici, che si prestano a volte molto meglio, soprattutto all'inizio, per il semplice motivo che un'anoressica di solito si fida - non senza motivo - più facilmente di se stessa che di quanti si pongono come terapeuti, rischiando così d'essere situati dalla parte della stessa mancanza d'essere che essa denuncia con la mancanza cui assoggetta il suo corpo (infatti spesso questa complicità esiste e dev'essere smentita di fatto). L'anoressia pone sempre dei problemi di gruppo. Non si diventa anoressici da soli, ma in un nucleo sociale dominato da una mancanza d'essere mostrata come essere. Perciò l'intervento terapeutico deve riguardare sempre l'intero gruppo (è per questo che l'analisi sistemica ottiene dei successi ben noti, ma spesso schematizzando troppo le situazioni, e compensando la recita familiare solo con una controrecita terapeutica).

Tutto questo dimostra che la cura dell'anoressia consiste sempre (ma lo stesso si potrebbe ripetere anche per altre situazioni) in un modo della formazione. Curare qualcuno significa offrirgli degli strumenti formativi. Ben inteso, solo quelli che ha già. Non si tratta d'insegnare a nessuno qualcosa che non sappia, ma di dimostrare in base alla nostra ed alla sua esperienza che quegli strumenti possono essere adoperati molto meglio se non ci si limita a denunciare attraverso la negazione, ma si tenta di costruire attraverso la formazione. Questo è l'unico intervento terapeutico possibile e difendibile eticamente. Occorrerebbe che i vari campi che possono intervenire in questi casi collaborassero, invece di mettersi in concorrenza uno con l'altro. Del resto è questa la posizione di Kora nei confronti della medicina.

Come si vede questi tre livelli d'intervento sono in relazione reciproca, perché non se ne può affrontare uno trascurando gli altri.