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Il canto dell'allodola

di FRANCESCA GUIDI




La margherita si svegliò per prima, annusò l'aria e si accorse che stava per arrivare l'inverno. C'erano gocciole di brina leggera posate tra l'erba; dalla terra saliva più intenso il profumo di umida zolla, e dall'alto un vento impertinente sferzava con troppa foga i poveri petali. Rabbrividì la margherita, strinse le foglioline alle stelo, s'incurvò un poco e: "Ohi, ohi" disse. "Fa già tanto freddo." Una nuvola tempestosa oscurò per un istante il sole, ma fuggì in fretta verso un'altra fetta di cielo. "Che fortuna" sospirò la margherita. "Uno scroscio di grandine mi avrebbe distrutta." Ma l'inverno si annunciava proprio alle porte; da un pezzo le rane dallo stagno avevano smesso di gracidare, e lo sfavillio delle ali delle libellule era solo un ricordo. Gli alberi si spogliavano delle loro fronde; gli uccelli, prima gioiosi e vagabondi, restavano ora chiusi nei nidi. Qualche gatto randagio si attardava nei campi, ma non trovava facili prede per sfamarsi, poiché piccoli animali e insetti si nascondevano, in cerca di tepore, chi sotto terra, chi nell'incavo di un tronco. Non molti giorni prima il vecchio grillo Timoteo aveva preso domicilio in un copertone d'auto abbandonato; lì dentro contava senz'altro di sopravvivere fino al ritorno della stagione calda; e con fili d'erba intrecciati si era costruito un comodo giaciglio, dove sonnecchiare quietamente. Timoteo conosceva parecchi canti, d'amore o battaglieri, e inni al sole o al meriggio estivo, prolungato e dolce. Mancavano alla margherita le serenate del grillo che ora taceva. "Vecchio Timoteo," sospirò la margherita. "Possibile che tu non sappia una canzone, una sola canzone dell'inverno?" Il grillo fischiò roco e breve, poi: "Lasciami dormire" rispose.
"Sì, lasciaci dormire" sbuffarono in coro anche tre cicale nascoste in una petraia. "In fin dei conti abbiamo lavorato sodo per tutta l'estate, inventando ogni giorno nuove strofe e filastrocche." Intanto il via vai delle formiche si era fatto febbrile; al timore della pioggia, solcavano in lunghe processioni il terreno, trasportando minuscoli frammenti di cibo o vari cimeli: pezzi di foglie secche e di gambi, residui d'altri insetti, brandelli di fungo e di bucce di frutti, scaglie di gusci, semi. Tutto ciò doveva arricchire quella città sotterranea, in cui avrebbero trascorso gli interminabili mesi d'inverno. Certo la talpa Birilla si recava sempre a festeggiare con loro il Natale e l'ultimo dell'anno; bevevano insieme grappa d'argilla, mentre la talpa raccontava dei suoi viaggi dal Polo all'Equatore. Succhiando grani di riso e cristalli di zucchero, esprimevano desideri e buoni propositi per il futuro. Ma era l'unico svago di quei tempi di freddo; eppure bisognava che, prima dell'avvento del gelo, le formiche si inabissassero. La capo squadra delle formiche roteò attorno alla margherita e scese in un cunicolo poco distante. La seguirono con diligenza, ad una ad una, le altre; e il campo fu di nuovo un deserto di sonno, chiuso in un silenzio letargico. Nessuna forma di vita si arrischiava a strisciare di zolla in zolla, a volare di ramo in ramo, a saltare di cespuglio in cespuglio. Che fosse passero o cavalletta o lombrico, ciascuno se ne stava quatto, cercando d'istinto il tepore di un rifugio. Solo la margherita seguitava a guardarsi d'attorno, tremante alle carezze del vento. Ma da lontano si udì un flebile: "Oh issa!".
La margherita tese la corolla senza vedere nessuno. Ancora, e a ritmo cadenzato, si sentiva: "Oh issa! Oh issa!". Finché piano piano, a incalcolabile lentezza, un manipolo di formiche tardive e ansimanti apparve. Ripetevano a una sola voce "Oh issa!" come per sostenersi nella marcia forzata. Trasportando con grande fatica una coroncina trapunta di strass, ogni tanto qualcuna incespicava, rompeva suo malgrado le righe; e il gruppo intero sbandava con un pauroso: "Issa, issa…", che si smorzava a stento quando l'equilibrio veniva ritrovato. "A che vi serve quel tesoro?" domandò la margherita curiosa.
La formica più anziana diede l'alt al gruppo e, lieta di potersi così fermare, rispose: "Un evento, un evento eccezionale!". Prese fiato, mentre dietro di lei l'una si fasciava la zampina contusa, l'altra si stendeva stanca giurando di non rialzarsi più. "Avremo un ospite nel formicaio" continuò.
"La talpa Birilla?"
"Uh quella… Volevo dire: un ospite di riguardo!"
La margherita scosse la corolla impaziente: "Chi?".
"Chi?" ripeté la formica con aria furbesca. "Giuri di non rivelarlo?"
"Giuro" rispose pronta la margherita.
"Ebbene... la Sacra Allodola!"
"Ma non esiste" replicò la margherita.
"Se non ci credi, non parlo più."
"Ci credo" disse la margherita. "Ci credo, parla."
"La Sacra Allodola venne creata per prima dal Dio dei campi; Egli voleva che con il suo trillo l'Allodola scandisse, per animali e fiori, l'ora della solerzia e l'ora del riposo, ricordando che il tempo scorre per ognuno regolare e implacabile e che perciò non bisogna sprecarlo. Ma il trillo dell'Allodola di giorno in giorno si faceva mieloso. Gli uccelli dimenticavano di volare per ascoltarlo, gli insetti languivano storditi e i fiori restavano perennemente dischiusi, a consumarsi di sete e d'insonnia. La natura era stregata da quel canto, tanto che morire per ascoltarlo pareva miglior sorte che industriarsi per vivere. Allora il Dio dei campi esiliò l'Allodola nella regione dei Monti Furenti, dove l'atmosfera è di vetro e il suono si frantuma in note desolate. L'Allodola rimase tra i monti per mille anni; disimparò a cantare e persino a parlare. Ma con il becco scavò tra le montagne un tunnel, fino al limite della regione maledetta. Poi picchiò sulle pareti di grafite che isolavano i Monti dal resto del mondo, picchiò a capofitto; aprì una breccia e con gli occhi quasi ciechi scorse le stelle. Ma il suo corpo aveva disimparato a sopportare gli spazi liberi; perciò l'Allodola riprese a scavare, e ora vaga sottoterra."
"E tu come lo sai?" interruppe la margherita.
"La nostra esploratrice ha incontrato l'Allodola a tre miglia da qui. L'ha invitata a trascorrere il week-end con noi."
"E canta?"
"Non canta, non parla. Balbetta. Ma il suo balbettio è un dolce dono divino."
Le formiche si allontanarono, lasciando la margherita a fantasticare. "Oh potessi ascoltare anch'io l'Allodola."
Venne il sabato e la margherita protese la corolla nel cunicolo, all'ingresso del formicaio. Aspettò a lungo invano; a notte fonda, mentre già dormiva, le giunse l'eco di suoni straordinari; chissà perché ogni suono possedeva il gusto dei chicchi di una melagrana, e un colore sanguigno e trasparente.
Scese la pioggia; la margherita, rapita dalla musica, neppure se ne accorse. Scese la neve, coprì di una spessa coltre la terra; la margherita sepolta continuava a ripetere tra sé le note. Moriva, ma i suoni ormai familiari le si legavano in una melodia completa: era certa di aver colto il segreto del trillo della Sacra Allodola. E la sua voce aveva adesso le ali.
Giunse la primavera e con essa il disgelo. Dove era stata la margherita, spuntò una pianticina; crebbe in fretta, alta fino al cielo, con foglie che vibravano come le corde di un'arpa. La udì l'Allodola, e vecchia e scarruffata si spinse dal centro della terra alle nuvole; volò, cieca e esultante, per posarsi poi su quell'albero; e foglie tenere la ricoprirono, e frutti di melagrana dorata la nutrirono. Trascorsero secoli di beatitudine amorosa; le foglie esauste smisero di vibrare, l'Allodola sfinita perse anche le piume. Una nebbia improvvisa avvolse l'albero e l'uccello, un brivido percorse la terra: dopo qualche minuto, nulla era più.


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