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Interno scozzese

di GUIDO COMIS




  Per un anno ho studiato giurisprudenza a Bologna. Dopo un’estate passata in ambasce ho deciso di cambiare facoltà e mi sono iscritto a lettere a Venezia.
   Ho preso in affitto un piccolo appartamento vicino a campo S.S. Apostoli, in calle del Forno. Una calletta scura e tortuosa uguale a tante altre. Un portone di legno dalla calle immetteva in uno stretto e umido vano di scale, in cui ristagnava sempre odore di cipolle. Una breve rampa conduceva ad un piccolo pianerottolo sul quale si aprivano le porte di due appartamenti.
   Il mio si articolava in poche stanze. La cucina era quella principale. Vi si accedeva attraverso un breve corridoio d’ingresso. Era arredata da un frigorifero di quelli bassi, una vecchia lavatrice non funzionante, un tavolo e un mobile di fòrmica. Dietro alle ante di un armadio color avorio erano celati un fornello e un lavellino: angolo cottura ante litteram, che pareva, per dimensioni, esser appartenuto ad una famiglia di gnomi. La camera alla sinistra della cucina era lunga e stretta, aveva spazio sì e no per un letto e un tavolo. Questa stanza avevo avuto in principio intenzione di tenere per me. L’altra era più grande, aveva due letti e al centro un tavolo rotondo. Il bagno, cui si accedeva dal corridoio d’ingresso, era in tono con il resto: vasca a sedile, e una feritoia per finestra. Una stufa a gas provvedeva al riscaldamento dell’intero alloggio. L’impressione d’insieme era d’angustia: i soffitti erano bassi, le finestre piccole si affacciavano sui muri delle case tutt’intorno. Pochi raggi di luce le attraversavano; macchie di muffa segnavano in più punti le pareti color giallino. Suppellettili varie erano state destinate da antiche abitanti ad adornare l’ambiente.
   La prima volta che vidi l’appartamento era occupato dal mio amico Raffaele. Raccolto com’era mi diede una certa impressione d’intimità familiare, forse anche per contrasto con la grande, ma ancor più squallida casa che occupavo a quel tempo a Bologna. Così al momento del mio trasferimento a Venezia non esitai a prenderlo in affitto, sostituendomi a Raffaele che aveva traslocato.
   Al tempo ero di spirito positivo e i difetti dell’alloggio, che pure non mi erano sfuggiti, non mi spaventavano. Né avevo voglia di cercare un’altra casa. Nell’appartamento c’era posto per tre e affissi un annuncio alla bacheca dell’università. Mi telefonarono, fra gli altri, Walter, studente di filosofia, e David, un ragazzo straniero. Parlava italiano facendosi capire, ma in modo impacciato, con un marcato accento inglese. Mi piaceva l’idea di condividere l’appartamento con uno straniero, di qualunque nazionalità fosse. Tanto meglio se era inglese. Io stesso avevo abitato per un anno in Inghilterra ai tempi del liceo.

  Incontrai David per la prima volta all’imbarcadero di Ca’ d’Oro. Era la metà di ottobre. Come preannunciato, per facilitarmi l’identificazione indossava una giacca di pelle nera da motociclista e teneva un giornale sotto il braccio. Gli avevo dato appuntamento per portarlo a vedere l’appartamento. Era diverso da come l’avevo immaginato: senza fantasia avevo pensato allo stereotipo del ragazzo inglese. E in effetti dell’inglese David aveva tutti i caratteri, ma spinti fino alla caricatura. Era molto alto e magro, la carnagione chiara e i capelli castani chiari e luminosi come li hanno i nordici. Mi strinse la mano e si presentò con gesti forzatamente decisi. Accompagnava i movimenti con la contrazione dei muscoli del mento e spingendo in fuori le labbra come chi stia facendo qualcosa di impegnativo, come se una grande carica d’energia gli fosse necessaria a superare la soglia della timidezza. Il viso era lungo. Anche il naso era lungo e aquilino. Camminava un po’ curvo, pendendo in avanti, le braccia allungate rigidamente lungo il corpo, come lottasse contro un forte vento.
   Non era inglese, era scozzese, di Edimburgo. Studiava in Inghilterra però, alla Warwick University, a poca distanza da Leamington Spa dove io avevo abitato per un anno.
   Gli mostrai l’appartamento. Disse che gli andava bene. Alloggiava in una pensione dal momento in cui due o tre settimane prima era arrivato a Venezia ed era impaziente di sistemarsi. Disse che avrebbe preferito avere la stanza singola. Pur di abitare con un inglese ero disposto a cedergliela. L’appartamento accontentava anche Walter.
   Andammo a prendere un caffè insieme. Divertito osservai David prendere una sigaretta da un pacchetto dopo aver spiegato con le lunghe dita pallide la carta stagnola di protezione, per ripiegarla meglio che gli riusciva prima di richiudere il pacchetto. Gli chiesi come mai non la strappasse come fanno tutti. Credevo che la tenesse per scrupolo di miglior conservazione delle sigarette, come certe vecchie avvolgono residui di cibo in canovacci. Mi guardò con aria interrogativa. Gli mostrai cosa intendevo dire e lui confessò di non essersi mai accorto che la carta potesse essere strappata.
   Pochi giorni dopo David e io ci trasferimmo nel nuovo alloggio. Walter si sarebbe unito a noi la settimana successiva. Aiutai David a trasportare le valige dalla pensione. Erano pesantissime. Non avevamo fatto la spesa e così la prima sera andammo ad un take-away cinese in Strada Nuova. Prendemmo degli spaghetti di soia e li portammo a casa. Era difficile farli scivolare dal loro contenitore nei piatti poco per volta, senza che sgusciassero fuori tutti. “Struggling to get out!” commentai io. David apprezzò la battuta. Il giorno dopo assaggiò del formaggio Latteria. Gli chiesi se gli piaceva. “Assai” disse. Scoprii in seguito che pensava significasse “abbastanza”.

  Era un autunno grigio, o a me pareva tale. Mi rivedo aggirarmi per una Venezia nebbiosa e triste. Andavo a lezione dapprima con entusiasmo, poi sempre più stancamente. Il corso di storia dell’arte, l’unico a interessarmi, cominciò a stagnare. Mi sedevo in fondo all’aula con un libro, nell’attesa che la lezione finisse, come fossi stato nella sala d’attesa d’un dentista. Non avevo amici essendo quelli i primi tempi in una nuova città. La sera stavo a casa, impegnato in lunghe e penose telefonate con la mia ragazza d’allora, il fine settimana correvo a Pordenone a rinfrancarmi in famiglia e con gli amici.
   David si sentiva come me; più spaesato ancora. Andava a lezione di letteratura italiana e ne tornava scoraggiato. Si lamentava di capire poco. “Padoan parla veneziano” diceva del professore. Non riusciva a fare amicizia con i compagni per inettitudine e timidezza. Non era bello e si esprimeva in modo un po’ incerto. L’aspetto insolito deve aver attratto qualche sguardo, ma sono cose che valgono poco per chi non ne sa approfittare. Era giovane anche fra i giovani. Compì diciott’anni dopo il suo arrivo in Italia, all’inizio di novembre. Walter e io gli regalammo un paio di guanti. Riuscì a perderli nel giro di una settimana

   Mi ricordava il periodo che avevo passato in Inghilterra.
   Avevo diciassette anni. Anche quello è un anno grigio nella memoria. Gli inglesi non mi sembravano amichevoli. “Hanno il senso del sarcasmo”, pensavo, “non dell’umorismo”. Era difficile per me, adolescente senza disinvoltura, far breccia in gruppi d’amici di vecchia data. I ragazzi conservano ancora tracce della crudeltà infantile, le ragazze giocano a fare le altezzose.
   Il venerdì e il sabato la scuola si trasferiva al pub. Serate noiose. Per un po' ero uscito con una ragazza. La cosa non era durata a lungo e ripensando al me stesso d’allora, c’è poco da sorprendersi. Terribile delusione. La domenica era senza prospettive. Nessuno in giro. Non avevo il coraggio di uscire di sotto le coperte. Per un anno non sono mai tornato a casa, per spirito d’indipendenza e perché non credevo che ci sarei stato meglio. Mi è rimasta da allora la convinzione che sta solo a sé trarre il meglio dalle cose.

  La vita nell’appartamento di Venezia prese presto un ritmo regolare. Ero io a fare da mangiare. Affidare compiti di cucina ad un goffo scozzese mi sembrava poco ragionevole. Durante l’anno trascorso a Bologna avevo avuto modo di perfezionare alcune ricette. Passo dopo passo ero arrivato ad un’autonoma reinvenzione del soffritto e alla successiva preparazione del sugo di pomodoro. La spartizione del cibo a tavola era un affare delicato, non estraneo a momenti di tensione. David, benché molto esile, si dimostrò voracissimo. Dopo avermi rimproverato perché soffiavo sugli spaghetti per raffreddarli, si lanciava sul suo piatto in preda a furia famelica. Ebbi un bel tentare di insegnargli a mangiarli arrotolandoli sulla forchetta. Continuò a tagliarli con il coltello, se non altro per dispetto. Neppure riuscii ad introdurlo all’uso del tovagliolo, in alternativa a quello del polsino, che va per la maggiore in Albione.
   Un giorno, tardi dopo cena, ebbi l’ardire di avvicinare i pochi corn flakes residui sul fondo di un sacchetto. Richiamato dal rumore della credenza che si apriva uscì dalla sua stanza in allarme. Accortosi di cosa mi accingevo a fare, si mise a sbraitare e a braccia levate corse a frapporsi fra me e i fiocchi di mais. Come avrebbe fatto colazione lui il giorno dopo? Per dimostrarmi più ragionevole (sono sempre stato eccessivamente ragionevole) cedetti. La mattina dopo David candidamente mi propose di dividere i corn flakes oggetto della contesa notturna.
   Alla cena seguivano immancabili le discussioni su chi dovesse lavare i piatti. Dal rubinetto del lavello l’uscita d’acqua calda non era prevista. Prima di andare a dormire spegnevamo la stufa a gas. Di mattina nelle camere ai lati della cucina c’erano undici gradi.
   Quasi ogni giorno bussava alla nostra porta la vicina di casa, una curva e lamentosa ottuagenaria, sola al mondo e unica occupante dell’alloggio con cui condividevamo il pianerottolo. Gli altri appartamenti tutt’intorno, anche quelli sopra il nostro, avevano ingressi in altri punti lungo la calle.
   La vicina veniva a lamentarsi perché il portone sulla calle non era stato sprangato con tutti i chiavistelli di cui lei stessa l’aveva dotato, o perché la fioca lampadina sulle scale era rimasta accesa.
   Ai rimproveri facevano seguito inevitabilmente le confidenze. Quel disgraziato biscazziere del marito era morto anni prima, lei aveva tanti dolori, ed una misera pensione. La sua casa, dove ebbi occasione d’entrare un paio di volte, era buia ed umida, mai rallegrata da un raggio di sole.
   La vicina rimaneva degli interminabili minuti sulla nostra soglia, aggrappata allo stipite della porta, ripetendo l’elenco delle disgrazie al malcapitato di turno. David in particolare era messo in croce da questi colloqui. Volevamo un goccetto da bere?
   Fu battezzata La vecchia. La vechia diceva David.

  La lamentosa consentaneità fra me e David, lo sprezzo nei confronti di tutto e tutti indotto dalla condizione di forzati outsiders ci unirono. L’amicizia fu suggellata da lunghe conversazioni serali.
   David era appassionato in particolare di cinema, sua materia di studio insieme alla letteratura italiana. Fra i suoi film preferiti c’era Taxi Driver che aveva visto un sacco di volte. Che impressione avesse fatto su di lui ebbi modo di capire in seguito. Discutevamo con ardore adolescenziale di temi che spaziavano dall’arte al lavaggio dei piatti. Furiose e balorde discussioni di letteratura si protraevano, fra una sigaretta e l’altra, fino a notte fonda. Ezra Pound gli sembrava pretenzioso e senza il talento di T.S. Eliot. Alternandoci recitavamo The Waste Land, che conoscevamo in buona parte a memoria. Coglieva l’occasione per farsi scherno dei miei difetti di pronuncia inglese.

  Cercammo di rendere l’ambiente di casa più confortevole. La lavatrice rotta fu calata dalle scale ed eliminata insieme a un po’ della chincaglieria e delle suppellettili che incrostavano l’arredamento. David proponeva di imbiancare le pareti “piss yellow” della casa; a me il lavoro sembrava troppo impegnativo. Appesi in cucina un poster della Corazzata Potemkin con altre locandine russe di spettacoli organizzati da mia madre. Incollai in una composizione delle cartoline che riproducevano un ritratto di Maiakovskij. In bagno coprimmo la parete dietro alla vasca con sacchetti della spazzatura per poter fare una doccia in piedi senza bagnare il muro. L’effetto non era granché. Mancava anche un gancio cui attaccare il telefono della doccia. Ne comprammo uno e David insisteva perché portassi da casa il trapano con cui fare i buchi per i tasselli cui fissarlo. Dicevo sempre di sì, ma non lo portavo mai, non ne avevo nessuna intenzione.

  L’amicizia fra me e David divenne più stretta con il passare del tempo. Aveva bisogno d’un amico e di un confidente. Né avrebbe saputo dove andarne a cercare un altro. Io ne apprezzavo l’intelligenza e ne condividevo gli interessi. Walter era amichevole ma indifferente. Comprendendo il disagio e il senso di solitudine di David cominciai a proporgli di tornare a casa con me durante il fine settimana. Una pericolosa vena di xenofilia è sempre stata presente in famiglia. Un ospite straniero sarebbe stato accolto con interesse. Mia madre ha per i britannici ammirazione e curiosità. Si occupa di relazioni culturali con le repubbliche ex sovietiche. Russi sono spesso ospiti a casa, in russo parla spesso al telefono.
   David piacque a mia madre. Quando lo vide per la prima volta indossava un cappottino grigio, corto fino al ginocchio e portava una sciarpetta annodata al collo. Aveva un aspetto così upper class, così public school. Mia madre è sensibile a queste cose. Le raccontai di quando un giorno David fu sorpreso fuori casa dall’acqua alta e tornò bagnato fino al polpaccio. Si sedette tranquillamente senza neanche togliersi le scarpe. So very British of him.
   Una mattina mia madre portò David a fare una passeggiata. Sulla via del ritorno, a poche centinaia di metri da casa, gli disse di proseguire da solo. Lei aveva da fare e non sarebbe rientrata. Si trattava di girare alla prima a sinistra e percorrere qualche decina di metri. David protestò che si sarebbe perso, perché lui era stupido, non aveva il senso dell’orientamento.

  In Italia mancavano anche i pub, anche questo, si lamentava David, rendeva difficile socializzare. Cercava scuse per la sua inettitudine. “Although many Italian children are brought up on wine, not much emphasis is put on drinking” recitava la sua guida turistica. Sopperiva a tale incresciosa deficienza nazionale con bevute casalinghe e si lamentava perché non partecipavo con entusiasmo anch’io. Ogni tanto Walter cedeva alle insistenze e usciva con David. Una sera David era in vena di confidenze e mostrò i polsi a Walter. A lui parve di vederci due cicatrici. David aveva tentato di suicidarsi? Ironizzammo sul fatto che, maldestro com’era, neppure quello gli fosse riuscito.

  Mi raccontò a lungo di un suo amico danese, compagno d’università a Warwick. Ne aveva grande stima, ne parlava con ammirazione. Parlava inglese senza accento, molto meglio di me. Abitava con una ragazza che piaceva tanto anche a lui. Ne era stato innamorato, era chiaro, ma non lo disse apertamente.
   Un giorno mi rivelò di essersi invaghito di una ragazza incontrata a lezione. Mi prodigai in consigli ostentando esperienza, senza comunque rinunciare a ricamare sulla circostanza con lazzi e battute scambiate con gli amici di Pordenone cui l’avevo presentato. Scrivevo con il succo di limone messaggi d’amore che si rivelavano al calore della fiamma e li firmavo con il nome della ragazza. I miei incoraggiamenti però erano sinceri. Si riteneva brutto, non credeva di poter piacere. Nella speranza di infondergli un po’ di autostima dissi: “David, girls don’t look at your face”. Intendevo dire che il carattere è quanto più conta.“My body isn’t very good either” rispose con divertita malinconia e rise scrollando le spalle cadenti. Una delle sere seguenti tornò a casa con una grande bottiglia di vino e una stecca di cioccolato, indizi sicuri di delusione sentimentale. Dopo aver opposto per qualche minuto una resistenza di circostanza mi rivelò di aver invitato la fanciulla del cuore a prendere un caffè dopo la lezione (mio il suggerimento), ma senza successo. Ottima occasione per dichiararsi sconfitti e dare la stura al vittimismo.
   Non trascorse molto tempo prima che rivolgesse i suoi impacciati favori ad un’altra ragazza. Era una studentessa che a Trieste condivideva l’appartamento con mia cugina. Fu quest’ultima ad invitarmi, una sera di fine novembre, ad una festicciola in casa sua. Ci andai e portai David con me. Mentre attraversavamo piazza Unità David mi recitò un nonsense di sua composizione: I went to the doctor’s because I was feeling bony / He asked: Tell me the name of an Italian playwright / so I replied: Pirandello.
   La festa era vivace. Britannica in un certo senso. In una stanza fumosa stavano una ventina di persone, stravaccate sui divani o sedute sul pavimento. Alcuni studenti della scuola interpreti cantavano canzoni spiritose in inglese. Non conoscevo quasi nessuno e me ne stavo un po’ in disparte, senza rammarico. David pareva divertirsi. Delle ragazze parlavano con lui, ma dopo un po’ se ne andavano. Ma perché se ne andavano, si chiedeva David? Perché in Italia non si riesce mai a conoscere nessuno? Qualcuno fumava hashish in cucina. Andavamo anche noi? Poi si innervosì. L’assembramento lo spaventava. Si fumavano spinelli, il baccano avrebbe finito per disturbare i vicini e sarebbe arrivata la polizia. La successione gli pareva di logica inevitabile, e il pensiero degli effetti lo angosciava. Lo sistemai per la notte a casa di un amico, io andai da Francesca.
   David trascorse anche la giornata successiva con mia cugina e le sue compagne d’appartamento. Nacque la nuova infatuazione. Non ne conosco i particolari, ma poco, credo, trapelasse dalla sua labirintica psiche. Da quel momento tuttavia le visite di David a Trieste si fecero frequenti e cominciò a vagheggiare un trasferimento a quell’università.
   Mi parlava spesso dell’amico danese. Insieme avevano preso L.S.D. Poi erano entrati in un pub che era così brutto che David non era riuscito a trattenersi e aveva vomitato.
   Una sera portò a casa un pezzetto di hashish recuperato non so dove. Voleva fare uno spinello ma non ne era capace. Non avevo voglia di fumare, ma lo aiutai ad arrotolare il tabacco facendo sfoggio di destrezza. Mi pareva la parodia d’una scena d’intimità familiare: il babbo riscopre entusiasmi giovanili aiutando il figlio a costruire un aquilone.

  David prese la mia esperienza in Inghilterra a metro dei suoi successi in Italia. Primo oggetto di confronto era la lingua. Mi chiedeva ossessivamente se stesse facendo dei progressi. Lo assicuravo di sì. Voleva sapere se il suo italiano fosse ormai migliore del mio inglese. Questa era la tesi per cui protendeva. Lo invitavo alla prudenza. Cercava di volgere la situazione a suo vantaggio esprimendo giudizi sempre più negativi sul mio inglese. Al telefono gli sentii dire che conoscevo pochi vocaboli, che ero pigro e avevo letto pochi libri in inglese (dal canto suo cominciò a comperarne grande quantità in italiano, ben più di quanti avrebbe potuto leggere). Sapeva che potevo sentirlo. In un’altra occasione, non credeva di essere ascoltato, disse che parlavo con sorprendente naturalezza.
   Insisteva perché riconoscessi nel suo italiano una cadenza veneta, sicuro indice di progressi. Lui poteva chiaramente ricondurre il mio inglese ai Midlands, dove infatti avevo abitato. Le inflessioni dialettali di David mi sfuggivano tuttavia, nonostante le sue risentite proteste.
   Prese ad estendere i confronti ad ambiti di cultura sempre più generale. Faceva paragoni fra il francese che si piccava di conoscere ed il tedesco che io avevo studiato a scuola. Mi sfidava a tradurre dei passi. Lui declamava poesie in francese zoppicante.
   Un giorno si spinse al punto di sfidarmi a braccio di ferro. Dapprincipio mi schermii. Poi, un po’ per vanità, accettai. Era magro e dinoccolato. Non mi fu difficile vincere. Sconfitto, rise con gli occhi bassi, nervosamente, era deluso. Comunque non ero molto forte, disse, tanti suoi amici prima di me lo avevano battuto con maggior disinvoltura.
   Si alzava tardi. Le lezioni mattutine erano “in the middle of the night” protestava. Passava ore disteso sul letto disfatto, fumando, nella camera angusta. Stava sul letto appoggiando la schiena al muro con la testa china. Pareva un fantoccio. Le braccia stese lungo il corpo sembravano di gomma. Vestiti erano sparpagliati ovunque. Sbadigliava spalancando la bocca e percorso da un fremito.
   Una sera ero a casa con Francesca venuta a trovarmi. David emerse dalla sua camera dove aveva passato il pomeriggio dormendo. Non aveva neppure risposto al richiamo per il pranzo. La sua comparsa fu annunciata dallo sgradevole stridere della porta che si apriva. Senza proferir motto, abbrutito dal sonno, barcollò con movimenti disarticolati fino alla pentola che conteneva gli avanzi del pranzo e vi affondò la testa. Pareva in stato di trance.
   Si lamentava che a Venezia non c’era niente da fare. Non avevamo neanche un videoregistratore, né un televisore con cui lui potesse guardare dei film, la sua passione. Passava le giornate in preda ad un’accidia rabbiosa. Disteso a letto fumava, si sedeva sulla stufa nell’angolo della cucina con l’aria sconsolata. Non perdevo occasione di sgridarlo. A Venezia ci sono un sacco di cose da fare, protestavo, basta darsi una mossa. Aveva un suo appartamento, completa libertà, quasi nessun obbligo di studio, di cosa si lamentava? Vanagloriosamente, ma in accordo con il tono paternalistico della rampogna, citavo me stesso in Inghilterra ad esempio di intraprendenza, di resistenza alle avversità. Questo anche contribuì a far germogliare in lui un malsano desiderio di competizione.
   Poco prima di Natale visse un momento d’animazione. Gli avevo prestato la Breve ma veridica storia della pittura italiana di Roberto Longhi e parve ardere di vivissimo interesse per l’arte. Comperò dei libri su Venezia e ne parlò con entusiasmo. Un po’ enfatico, mi pareva, per essere sincero. Un tentativo di arginare il senso d’insuccesso della propria esperienza.
   Non perse le cattive abitudini. Fumava incessantemente e beveva volentieri, da solo. Forse anche con compiacimento bohemien.
   Una sera mi spazientii. David aveva passato gran parte della giornata nella propria camera, sofferente dei postumi della solitaria bisboccia della notte precedente. Uscì e si raggomitolò vicino alla stufa. Fu colto da un indomabile conato di vomito. Muco giallastro gli usciva dalla bocca. Senza scrupoli si sporse dalla finestra, non abbastanza tempestivamente comunque. Il bagno non era a portata. Un momento dopo vomitò di nuovo, nel lavello. Ero seduto al tavolo della cucina, dietro di lui. “Adesso pulisci!” sbottai “e smettila di bere, fai schifo!” eccetera. David prese una grossa pentola dal secchiaio, si voltò e me la scaraventò in fronte. Sentii la pelle gonfiarsi sotto le dita. “So now you can tell what it’s like to feel sick!” disse. Empirismo britannico. Forse avrei dovuto dargli un pugno. Allo specchio il bernoccolo mi parve grande e buffo in mezzo alla fronte.
   Quella sera Walter non era a Venezia. Più tardi sentii David al telefono con la madre lamentarsi di non avere niente per cena. Gli proposi di fare degli spaghetti con me. Era un gesto di riconciliazione. Accettò, ma da parte sua non venne una parola di scusa.

  Poi ci furono le vacanze di Natale. Andai in montagna e cercai di restarci il più a lungo possibile. Non avevo voglia di tornare a Venezia, ne avevo un ricordo malinconico. Qualche giorno dopo capodanno telefonai al nostro appartamento. Volevo sentire se David era arrivato. Se io avevo poca voglia di tornare a Venezia, ancor meno pensavo dovesse averne lui. Per David mi sentivo un po’ responsabile. Mi sembrava triste, se fosse stato lì, lasciarlo solo.
   Era a casa già da qualche giorno, in ampio anticipo sull’inizio delle lezioni. Mi sorpresi un po’. Forse era arrivato così presto sulla scia del recente entusiasmo per l’arte veneziana.
   Il lunedì della settimana successiva dovetti io stesso andare a Venezia, solo per la giornata. Passai per casa. C’erano David e Walter. David aveva portato con sé dalla Scozia un sacco di cose, molti libri e anche il suo equipaggiamento da scherma. Mi raccontò di essere stato ad un a festa a Trieste il sabato precedente. Aveva un’ampia macchia rossa sulla tempia. Dal muro della cucina mancava il poster della Corazzata Potemkin. David mi disse che non gli piaceva. Aveva portato delle videocassette girate da suoi compagni di università. Avrebbe voluto le guardassimo insieme. Mise sul fuoco la moka. Ne uscì solo acqua giallognola, aveva dimenticato di aggiungere il caffè. Non era la prima volta che gli capitava. Avevo con me la macchina fotografica e scattai delle foto a lui e Walter. Un concerto di musica di compositori russi era stato organizzato da mia madre per la sera successiva a Pordenone. Chiesi a David se gli avrebbe fatto piacere venirci. Avrebbe potuto dormire da me, che mi chiamasse il giorno dopo per darmi la conferma.
   L’indomani tuttavia non si fece vivo e verso sera lo chiamai io. Non sembrava ricordarsi dell’impegno, aveva la mente occupata da pensieri più importanti. Con fervore mi spiegò che era senza patria e senza lingua, diviso fra l’Italia e l’Inghilterra, non avevo io provato lo stesso quando ero stato all’estero? Assentii distrattamente, senza dar peso ai discorsi bislacchi.
   La mattina successiva suonò il telefono. Era David. Mi chiese: “Guido, sono tuo amico, perché hai rubato le mie casete?” Il tono era sinistramente calmo e suadente, percepivo la rabbia dominata a fatica. Risposi, perplesso e sorpreso: “David non ho rubato le tue cassette!” Neanche capivo a quali si riferisse. Ripeté la domanda, ma a metà della frase la rabbia si manifestò incontrollata. Cadde la comunicazione. Poco dopo il telefono squillò di nuovo. David gridò degli insulti, disse: “Ladro, ridami le mie casete!”. Di nuovo la comunicazione si interruppe. Evidentemente chiamava da un telefono pubblico inserendo una sola moneta. Telefonò ancora. Rispose mia madre. Il trattamento per lei fu ugualmente furioso. “My poor David, you are mad!” rispose lei con tono di petulante commiserazione. La frase non mi sembrava la più appropriata da rivolgere a un matto.
   L’improvviso rivelarsi della pazzia in David non suscitò in me particolare sorpresa. Mi forniva un comodo punto di vista da cui riguardare gli atteggiamenti che l’avevano preceduta. Ero però un po’ inquieto. L’aggressività di David poteva manifestarsi in un gesto? Avrebbe preso il treno per venire a Pordenone a reclamare le proprie casete?
   Telefonai io stesso all’appartamento di Venezia anche se dubitavo che Walter fosse ancora lì in compagnia d’un pazzo. Invece c’era. “David è in piena crisi isterica”, disse. La definizione non mi parve calzante. Mi riferì che la sera precedente David aveva farneticato per ore riguardo alla sua non appartenenza ad una patria. Walter lo aveva portato a fuori perché si distraesse, ma poi David aveva passato una notte insonne. Quella mattina stessa, approfittando del fatto che Walter era andato a lezione, si era messo a telefonare a tutti i numeri della propria agenda. Sua madre trovò misteriosi messaggi incisi nella segreteria telefonica.
   Raffaele abitava in Strada Nuova. Ricevette anche lui una telefonata. David pareva spaventato, piangeva. Raffaele corse a vedere cosa stesse succedendo. Solo in casa David si era circondato di coltelli. L’appartamento era nel caos, tutto era stato messo sottosopra. Sul tavolo e sul pavimento c’erano bottiglie d’alcolici vuote. Il secchiaio traboccava di stoviglie sporche. Le locandine che avevo appeso erano state strappate dai muri. La composizione di cartoline di Majakovskij era in pezzi. Sul muro della cucina, dove mancava il poster della Corazzata Potemkin era stato inciso con un punteruolo “COMIS SPIA RUSSA”. Ma era a stento leggibile. “COMIS = KGB” era graffiato sull’armadio dell’entrata. Raffaele badò a non dargli le spalle. David angosciato gli rivelò di aver scoperto cosa si tramava contro di lui. Fumava continuamente. La testa gli scoppiava da tanto aveva pensato per notti intere. Io ero russo. Ero comunista. Anche mia madre lo era. Quale prova migliore di tutte le telefonate in russo cui aveva assistito quando era da me? Una puttana russa, ben inteso.
   Mio padre no, lui era italiano. Il suo aspetto un po’ più mediterraneo, i capelli scuri, lo mettevano al riparo dai sospetti. Anche Raffaele, biondo, era russo. Dì “dà”, dì ”niet”, parli russo, sei russo. Non pericoloso come me, tuttavia, non l’ideatore di questo complotto. Avevo ucciso sua madre. Ero una spia russa, infatti mi nascondevo: non gli avevo mai mostrato la strada per arrivare dalla stazione di Pordenone a casa mia. Perché Raffaele si ostinava a parlargli in italiano? Tanto ormai l’inganno era scoperto. Raffaele lo convinse ad andare a fare due passi. David cominciò presto a correre e sparì nella confusione di Strada Nuova. Fece poco dopo le telefonate indirizzate a me.
   Quel pomeriggio Walter portò David in ospedale. La pazzia si accompagnava ad un forte malessere. Dirottato dal pronto soccorso al reparto psichiatrico, fu liquidato con delle gocce. Lasciato di nuovo solo, attirò su di sé l’attenzione di un libraio nel cui negozio aveva dato segni di nervosismo scombinando i libri esposti. Fu riaccompagnato a casa da due poliziotti.
   Quella sera, ripensando agli avvenimenti della giornata mi rattristai. Il caso di David era pietoso.
   II giorno successivo sarebbe arrivata la madre, messa in allarme dalle telefonate, per riportarlo a casa. Decisi che sarei andato a Venezia a salutarlo. La madre sarebbe stata lì, non c’era pericolo. Ero curioso di vedere l’animale raro.

  Presi il treno di mezzogiorno. Era una giornata fredda e grigia. Indossavo due maglioni sotto al cappotto e alla giacca. Arrivai a Venezia verso l’una e mezza. Poco prima delle due suonai al campanello di casa, benché avessi le chiavi. La serratura elettrica scattò. Aprii cautamente e vidi Walter affacciarsi alla porta dell’appartamento, in cima alle scale. “La madre di David è arrivata?” chiesi. “No” rispose “c’è nebbia e l’aereo non è ancora atterrato”. Alla porta comparve l’esile figura di David, curvo come un gancio. “Guido”, mi disse, “per piacere vieni perché ti devo parlare”. Salii le scale con un po’ di titubanza. Walter aveva un’espressione tranquillizzante. Superata la porta d’ingresso, nella piccola entrata, David ripeté, affettando calma: “Guido vorrei parlarti per piacere”. Il per piacere suonava posticcio. “Non preoccuparti, non sono pericoloso”. Non capii la frase. Ero curioso, volevo essere rassicurato. “Tu sei più forte di me” aggiunse “mi hai batuto a bracio di fero”. Entrammo in cucina. Walter aveva messo un po’ in ordine. Con tono premuroso disse a David che doveva prendere le gocce prescritte dal dottore. David chiese a Walter per piacere di uscire di casa, voleva parlarmi a tu per tu. Walter disse che sarebbe uscito se David prometteva di prendere le gocce. Non volevamo farlo innervosire. Sottovoce Walter mi spiegò che doveva telefonare all’aeroporto per sapere se l’aereo fosse atterrato. Lo guardai infilare la porta con una certa apprensione.
   David mi chiese di sedermi. Prendemmo posto ai due lati lunghi del tavolo della cucina. Cominciò ad espormi il frutto di notti di elucubrazione. La testa gli faceva così male da tanto aveva pensato! Presi una sigaretta e ne offrii una anche a lui con un gesto che voleva sembrare amichevole. Mi rispose “Stop playing all this friendly bullshit! ‘Would you like a cigarette’ and all that”. Storpiava la mia frase e il mio gesto di fasulla cortesia caricandoli. Mi sorprese che nella follia si fosse accorto della mia insincerità. Parlammo in inglese. Avevo ucciso sua madre. Ero una spia russa. Parlavo un sacco di lingue. Il complotto ordito insieme a mia madre era quasi perfetto. Ero “fucking intelligent”. La mia vanità ne fu toccata. Non era vero che ero stato in Inghilterra. Era una balla per poterlo meglio circuire. Protestai timidamente. Accennò alle videocassette che avevamo visto insieme e che avevo rubato. Aveva scoperto perché ero sempre io a fare da mangiare e perché non partecipavo alle sue bevute solitarie: per avvelenare cibo e bevande, per questo stava male e vomitava. Mi disse di prendere dal frigo una vecchia bottiglia di Martini e berne un bicchiere. Riempii un bicchiere ma non bevvi. Temporeggiavo. Temevo potesse davvero averlo avvelenato. Ricordavo quando “we fucked in the bathroom?” Evidentemente aveva anche fantasie omosessuali. Con una smorfia perplessa feci un cenno vagamente affermativo. Il fine del mio diabolico piano era, in sostanza, trasformare in un fallimento il suo soggiorno in Italia.
   C’erano ancora delle domande amichevoli che doveva farmi, tuttavia. Così diceva quando aperse il cassetto delle posate sul suo lato del tavolo e ne estrasse un coltello da cucina. Lo afferrò con tale sicurezza che mi parve chiaro che l’aveva sistemato lì prima che arrivassi, che era tutto premeditato. Era un coltello lungo una trentina di centimetri. La lama aguzza e seghettata era rugginosa, il manico crepato per troppi lavaggi. Lo sollevò minacciosamente e ghignando ne guardò la lama con soddisfazione. Pareva un film. Pareva De Niro in Taxi Driver. Fui scioccato, ma tutto sembrava prevedibile. Con affettata sufficienza dissi: “Don’t be stupid, put that down”. Minacciandomi con il coltello mi trascinò con sé giù per le scale che conducevano al portone sulla calle. Lo sprangò con tutti i suoi cigolanti chiavistelli. Due potevano essere aperti solo dall’interno. Risalimmo lungo le scale strette. Non c’era spazio per tentare la fuga. Un senso d’inquietudine mi salì alla gola. La vecchia della porta accanto non poteva essere d’aiuto. Rientrammo in casa e David chiuse la porta d’ingresso con la stessa meticolosità. Anche questa aveva un gran numero di lucchetti e catenelle, odiosa eredità di precedenti e apprensive inquiline.
   David mi intimò di togliermi il cappotto che ancora indossavo e la giacca. Continuava a mimare sinistramente qualche thriller già visto. Mi disse di vuotare le tasche dei pantaloni. Obbedii. Poi provai una reazione decisa. Brandendo una sedia cercai di respingerlo, con aria seccata, come mi fosse venuto a noia uno scherzo durato troppo a lungo. Non si lasciò intimidire. Come poteva pretendere di farmi delle domande amichevoli con quel coltello in mano, chiesi con tono di legittima protesta. Disse che voleva fare delle telefonate. Per potermi controllare prese il telefono dall’entrata e lo appoggiò sul tavolo. Mi fece sedere di fronte a sé, a capo del tavolo, dalla parte opposta alla porta. Stava in piedi. Componeva numeri che mi sembravano casuali. Biascicava qualcosa, poi riattaccava, infastidito per non aver avuto risposta. Disse che avrebbe chiamato la polizia. Sperai ci riuscisse. Compose un numero e con voce meccanica recitò: “In cale del Forno numero 4752 c’è un uomo con un coltelo e un altro uomo”. La comunicazione cadde nel vuoto. Non c’era da sorprendersi. Provò di nuovo e ripeté la stessa formula. Non c’era risposta. Stizzito mi disse, scrollando la testa, “Guido you’ve fucked up the police too!”. S’innervosiva sempre più. Notai che ogni tanto, per comporre il numero, appoggiava il coltello sul tavolo. Con i piedi avrei potuto spingergli il tavolo addosso ed impadronirmi del coltello approfittando del momento di difficoltà. Cosa sarebbe successo se aspettavo, se si fosse avventato contro di me? Con l’aria spazientita di chi abbia di meglio da fare, gli dissi di darmi l’elenco del telefono, gli avrei trovato io il numero da chiamare. Si apprestò a comporre il nuovo numero.
   Appoggiò il coltello sul tavolo. Di scatto sollevai i piedi e gli spinsi il tavolo addosso. Le bottiglie e i bicchieri caddero con uno schianto. David barcollò all’indietro. Mi lanciai verso di lui ma tese una mano e raggiunse il coltello un attimo prima che gli fossi addosso. Con il braccio sinistro gli cinsi il collo. Volgevamo le spalle alla porta della cucina. Vidi con la coda dell’occhio il coltello e mi sentii toccare sul fianco destro fra le costole. Forse mi aveva graffiato, forse era solo una botta. Gli serrai il polso della mano che impugnava la lama puntata contro di me. Qualche attimo di lotta e cademmo all’indietro nella piccola entrata. Mi trovai sopra di lui che giaceva faccia in giù. Misi un piede sul suo braccio armato e con il pugno destro lo colpii ripetutamente sulla nuca, con quanta forza avevo, dall’alto in basso. I miei pugni mi parevano innocui. Non facevano quasi rumore. Non volevo fargli male, non troppo. Colpivo fra i capelli, non era né molle né dura la testa, era rosa. Gli pestai la mano perché allentasse la presa delle dita sul coltello e lo calciai via. Non volevo toccarlo con le mani, non volevo che ci fossero mie impronte, semmai ci fossero stati dubbi su quanto era avvenuto. Uno scrupolo che a posteriori mi sembrò un po’ eccessivo. Dovevo aprire i chiavistelli della porta di casa, precipitarmi giù dalle scale, far scorrere le spranghe rugginose del portone sulla calle, fuggire prima che David si riprendesse. Se mi fosse piombato addosso mentre armeggiavo con il portone non avrei avuto scampo. Tenendolo d’occhio disincagliai la porta di casa. Tornai da lui e gli diedi ancora qualche pugno, per essere più sicuro. Corsi giù per le scale. Mentre tiravo le spranghe del portone mi sentii bagnato intorno alla vita.
   Corsi fuori nel dopopranzo grigio e sonnolento. Mi guardavo alle spalle. Alzai i maglioni per scoprirmi il fianco. Poco sotto l’ascella c’era una ferita rossa slabbrata, lunga cinque centimetri. Al movimento del braccio verso l’alto si aprì, si rivelò profonda. Aria ne ribolliva fuori. Non avevo creduto realistiche le rappresentazioni della ferita fra le costole di Cristo nei dipinti. Dovevo ricredermi. Correvo verso campo S.S. Apostoli. Dietro l’angolo di una calle incontrai Walter che tornava con calma a casa. Non sapevo cosa fare. Temevo che David mi inseguisse. L’ospedale mi pareva lontano. M’infilai nella farmacia di campo S.S. Apostoli che in quel momento apriva i battenti. Ero atterrito, il maglione zuppo di sangue. La commessa mi chiese: “Caduto in un canale?”
   No, sono l’ultima vittima della guerra fredda.

  Nei giorni d’ospedale che seguirono ripensai ossessivamente all’accaduto. Nell’immaginazione rivissi la scena mille volte. Ne analizzai tutte le possibili varianti. Sarebbe stato meglio se, spinto il tavolo addosso a David, mi fossi chiuso in una delle camere laterali? Non avevano chiavi, ma forse potevano essere bloccate con qualche pezzo di mobilio. Poi avrei potuto gridare aiuto (non molto dignitoso), o calarmi dalla finestra nella calle. E se avessi semplicemente aspettato senza arrischiare una reazione? Se non mi fossi tolto la giacca forse il portafogli nella tasca avrebbe parato il colpo...
   Venni a sapere che David, ripresosi, aveva tentato un inseguimento dopo aver abbozzato qualche altra scritta con il sangue di cui era rimasta traccia sull’armadio in entrata. Non trovando il coltello si era armato di cacciavite. All’aperto, non vedendomi, si era lanciato contro un chiosco di giornali a pochi metri da casa. L’edicolante lo aveva sbrigativamente messo fuori combattimento e gli si era seduto sopra in attesa della polizia.
   Con il passare dei giorni l’accaduto, dapprima razionalmente circoscritto dai confini del ricordo, cominciò a dare luogo a timori irrazionali. Appena uscito d’ospedale mi era ancora possibile soggiornare nella casa di Venezia. In seguito ogni mio passaggio nel luogo del delitto dovette essere preceduto dall’accurata ispezione di ogni andito. Guardavo sotto i letti, negli armadi, dietro le porte. Qualche settimana più tardi la sola vicinanza al teatro del misfatto divenne ragione di timor panico e dovetti rinunciare definitivamente ad abitare l’appartamento. Il rumore di passi alle mie spalle divenne motivo d’inquietudine, non entravo in una stanza buia senza avervi prima acceso la luce dal di fuori, cercando con un braccio l’interruttore, a tentoni.
   Divenni diffidente. Negli occhi e negli atteggiamenti delle persone che incontravo, o che avevo da sempre frequentato, mi parve di scorgere indizi di follia. Istintivamente valutavo le possibilità che avrei avuto di cavarmela contro di loro in situazioni di pericolo.
   Ma fu soprattutto la mia fiducia nelle capacità della ragione, nelle capacità di discernimento fra vero e falso ad essere scossa. David aveva interpretato la realtà in modo insolito. Non dico aberrante perché questa parola esprime già un giudizio. La verità di David si basava su interpretazioni che si discostavano dalla norma. Nulla di tangibile separava però quella verità da qualunque altra. A segnare la differenza era solo il senno: quanto comunemente consideriamo vero è definito come tale da qualcosa che si era dimostrato preoccupantemente instabile.
   Questo soprattutto mi spaventò e per qualche tempo fui io stesso angosciato dal timore di perdere la ragione.

  Ho rivisto David tempo dopo per caso, a Edimburgo, dove mi trovavo per motivi di studio. Era cambiato, ingrassato, gonfiato dagli psicofarmaci. Ma stava meglio, per fortuna. Ha parlato con me dell’accaduto serenamente.
   Non studiava più cinema, studiava russo.

1994


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