I "fatti di Montagnana"
la manifestazione delle donne di Parma

Commemorazione dei caduti del distaccamento “Griffith” nell’immediato dopoguerra, alla Casa del bersagliere in località Montagnana. La notte del 14 aprile 1944, un gruppo di partigiani del distaccamento Griffith della 12a Brigata Garibaldi venne sorpreso e catturato in un cascinale di Montagnana, nel primo Appennino parmense, da reparti tedeschi. Molti dei giovani “ribelli” provenivano dai borghi dell’Oltretorrente cittadino e dalle case popolari dei “capannoni”. Essi furono arrestati e rinchiusi nel carcere di San Francesco a Parma. Gli esenti dall’obbligo militare vennero processati da un tribunale civile e furono condannati a pene che andavano dai ventisei ai trent’anni di reclusione. Per tre dei fermati, Anteo Donati, Salvatore Canossa e Afro Fornia, venne immediatamente sentenziata la pena di morte che fu eseguita il giorno successivo a Monticelli Terme. Il processo ai 35 partigiani soggetti alla leva si svolse il 20 aprile davanti al Tribunale speciale. Furono tutti condannati alla pena capitale.
I Gruppi di difesa della donna, che a Parma si costituirono stabilmente nella primavera del ’44 e nei quali si raccolsero figure femminili di tutti gli orientamenti politici, dopo alcuni precedenti disordini, organizzarono una manifestazione di protesta per la data del processo. Furono soprattutto proletarie dell’Oltretorrente, amiche e parenti di partigiani arrestati, ad uscire dalle fabbriche e a scendere in piazza, come testimonia Claudia Bosi: “Mi sono venute le lacrime agli occhi, sapevamo che li avevano presi […]. Allora quel mattino è venuta la Magnani e ha detto: ‘Guarda che li fucilano, c’è solo una cosa da provare ancora, se possiamo salvarli: uno sciopero, andare fuori dalla fabbrica, andare a tirare giù tutte le altre delle altre fabbriche, andare dal prefetto e fare una manifestazione’”.
All’uscita dal palazzo del Tribunale i partigiani trovarono il piazzale gremito di gente, di donne che chiedevano con forza il loro rilascio, schierandosi di fronte alla corriera che riportava i giovani in carcere. “Il pullman – ricorda Guglielmo Catuzzi – su cui eravamo saliti, non riusciva a passare, bloccato com’era dalla fiumana di donne. C’era un baccano terribile! Le donne strappavano i fucili dalle mani dei fascisti che le respingevano a spintoni. Ad un certo punto intervennero anche i tedeschi”.
Seguirono momenti di scontro con le forze dell’ordine e solamente i colpi sparati in aria riuscirono a disperdere la folla che continuò a protestare anche davanti al carcere. Diverse furono le donne arrestate e condotte in San Francesco. Benita Migliavacca racconta: “E siamo andate dentro in una cella piccolissima, con un tavolo di legno, due materassi per terra, pidocchi nei materassi, cimici…tutte nella stessa cella […]. Io avevo l’hobby del canto, mi piaceva cantare e cantavo anche bene…E allora una sera nel cantare […], questi ragazzi che avevano preso in montagna, i nostri amici, mi hanno sentito cantare attraverso la muraglia che ci divideva. ‘Benita, Benita, domani ci fucilano…’. Ci hanno detto tutte queste cose, e noi siamo scoppiate a piangere a dirotto. Allora mi hanno detto: ‘Cantaci la tal canzone perché dopo non ti sentiamo più’ e allora gliel’ho cantata […]. Poi mi hanno salutato. Mi hanno detto: ‘Non ci vediamo più fuori’”.
Nei giorni successivi arrivò la notizia che “per ordine del Duce l’esecuzione della sentenza per i condannati alla pena capitale è stata sospesa”. L’avvenimento ebbe grande eco nell’opinione pubblica cittadina, sui giornali locali ma anche sulla stampa clandestina nazionale, come, ad esempio, sull’ “Avanti!” e su “l’Unità”, dove venne dato risalto alla lotta condotta dalle donne di Parma “contro il terrore”. Altri cinque partigiani, purtroppo, furono in seguito fucilati il 4 maggio nel comune di Bardi. Tra questi, Giordano Cavestro , studente diciottenne di Parma.
Erano ormai passati sette mesi dall’8 settembre e un numero sempre maggiore di donne, anche nel Parmense, operava nel movimento clandestino, agendo attivamente contro i nazifascisti soprattutto attraverso i mezzi della resistenza civile. Erano in buona parte lavoratrici dei borghi e delle campagne, provenienti da famiglie di tradizione antifascista nelle quali avevano trovato le ragioni della propria scelta; donne per le quali i lunghi anni di guerra avevano rappresentato l’inizio di un proprio personale percorso di presa di coscienza e di lotta che le avrebbe portate, già tra le fila della resistenza e in seguito nel dopoguerra, a impegnarsi con forza per l’emancipazione. La manifestazione dell’aprile ’44, nella complessità del quadro politico in cui ebbe luogo, fu per queste donne, dunque, un evento periodizzante, che forzò ancora una volta, come già era avvenuto con i “fatti del pane” del 1941, il modello attraverso il quale il fascismo le aveva relegate nel privato, cercando di privarle, definitivamente, del diritto di cittadinanza.