LE REPUBBLICHE DELL'ITALIA PARTIGIANA

Le “repubbliche partigiane” dislocate nel territorio nazionale che tra il giugno e il novembre del 1944, sotto la pressione di attacchi partigiani sempre più stringenti, furono liberate dalla presenza delle truppe d'occupazione tedesca e dai presidi fascisti che ad esse si appoggiavano.
Il termine “repubbliche”, benché largamente diffuso nella storiografia, rischia di ingenerare qualche fraintendimento, in quanto sembra alludere alla costituzione di veri e propri stati, mentre in realtà nelle zone completamente controllate dalle formazioni partigiane, si realizzarono certo anche esperienze innovative dal punto di vista politico e amministrativo, senza per altro poter acquistare, per durata e qualità delle nuove istituzioni prodotte, la consistenza di “repubbliche”. A questo termine sembra preferibile, per esattezza descrittiva, ed anche perché quello più utilizzato dagli ambienti resistenziali, quello di “zone libere”.
Si tratta di un fenomeno quasi esclusivamente concentrato nell'Italia del nord, in particolare nelle vallate alpine, o in zone collinari a ridosso dell'Appennino ligure e tosco-emiliano. Nessuna “zona libera” si realizza invece nella pianura padana, ambiente quanto mai sfavorevole alla guerra partigiana, essendo privo di rifugi adatti, e caratterizzato da un sistema di comunicazioni che favoriva ovviamente un esercito di tipo tradizionale.
Le “zone libere” rispondono al progetto di assegnare alla resistenza armata compiti più vasti delle semplici azioni di inquadramento dei renitenti alla leva e di sabotaggio, che caratterizzano la fase di definizione ed assestamento della resistenza fino al maggio del 1944; la realizzazione delle prime “zone libere” coincide dunque, dal giugno, con l'inizio di una fase espansiva della resistenza armata, e con l'elaborazione da parte del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) e del Comando del Corpo Volontari (CVL) di un progetto di trasformazione delle bande partigiane in un grande esercito capace di collaborare in prima persona alla liberazione del territorio nazionale, e di porsi, nei confronti degli Alleati che stavano risalendo vittoriosamente la penisola, come protagonisti del riscatto di una “nuova Italia”. Perché proprio all'inizio dell'estate? Perché è allora che si realizzano alcuni decisivi cambiamenti nell'andamento della guerra: la vittoria degli Alleati a Cassino (18 maggio), la liberazione di Roma (4 giugno), lo sbarco in Normandia (6 giugno), sono i momenti salienti di un'accelerazione il cui esito finale più prevedibile parve la liberazione dell'intiero territorio nazionale entro la fine dell'anno, forse addirittura entro l'estate.
Questa “grande illusione caratterizza l'orizzonte all'interno del quale s'iscrivono il grande afflusso di giovani nelle formazioni partigiane, e il parallelo parziale fallimento delle leve militari fasciste. In questo decisivo mutamento di previsioni e di attese, la sempre più evidente incapacità della Repubblica Sociale Italiana (RSI) di reggersi da sola, e la sua scarsa credibilità come stato autonomo, sono il presupposto, e nello steso tempo vengono amplificate dalla perdita del controllo su intere vallate e su ampie zone collinari.
E, congiuntamente, sarà il rapido ampliamento della base di reclutamento partigiana a rendere non solo possibile, ma indispensabile, la realizzazione di strutture di comando centralizzate, attraverso la creazione del Comando del CVL (10-19 giugno 1944), alle cui direttive d'ora in poi sarà sottoposta la gran parte delle formazioni partigiane esistenti. In questo contesto, il progetto di creare “zone libere” assume la funzione pratica di permettere una più razionale organizzazione del tumultuoso afflusso in montagna dei giovani aspiranti partigiani. Nello stesso tempo, la possibilità di far assumere alla Resistenza il compito di concreta sperimentazione di modelli di democrazia, di partecipazione dal basso all'amministrazione e alla vita politica nelle “zone libere”, rappresenta un'occasione di verifica delle istanze di radicale rinnovamento, e della connessa capacità di coinvolgere vaste porzioni di popolazione.
Tendenzialmente, si presuppose di poter compiere il passaggio dalla limitata guerriglia per bande alla creazione di un vasto esercito di popolo, in vista di un obiettivo ritenuto ormai prossimo, l'insurrezione generale. Una volta creata una zona libera, la necesstà di inventare nuove forme di potere politico-amministrativo era naturalmente dipendente, oltre che dai generali orientamenti dei vertici politico-militari della resistenza, dalla concreta, indilazionabile necessità di organizzare anche la vita materiale di popolazioni, e di rispondere urgentemente a impellenti bisogni, primo fra tutti quello dei rifornimenti alimentari.

Molto diffusa, proprio per la particolare collocazione geografica delle “zone libere”, fu infatti la ritorsione delle autorità fasciste e tedesche, di isolare i distretti partigiani sospendendo l'invio di risorse alimentari dalla pianura (è il caso, per esempio, delle zone insediate nelle valli di Lanzo, nell'Alto Tortonese, nell'Ossola, in Carnia). Non può quindi stupire che buona parte delle energie dei nuovi organismi fosse di fatto assorbita dal tentativo di risolvere questioni annonarie e fiscali, dalla cui soluzione in definitiva dipedeva la possibilità dei nuovi istituti (Giunte comunali popolari, CLN di paese, di vallata, di zona, comandi partigiani) di venir riconosciuti ed appoggiati. Naturalmente, accanto ad un generale sforzo di radicale rinnovamento delle forme e dei simboli del potere politico, si determinò in concreto un vasto ventaglio di posizioni e di realizzazioni politico-amministrative. A seconda della maturità politica dei comandanti partigiani, e soprattutto delle popolazioni coinvolte (che molto spesso era estremamente carente), si ebbe una predominanza o degli aspetti di progettazione e innovazione politica, o dell'elemento militare su quello politico, o una proficua collaborazione fra i due elementi. Sul piano dell'innovazione politica, dell'affermazione e realizzazione di vocazioni e istituti democratici, le “zone libere” rappresentarono, anche con numerosi chiaroscuri, un indubbio successo della Resistenza.
Sul piano militare, invece, una strategia implicante la necessità di presidiare un vasto e bel delimitato territorio, nonostante comportasse anche indubbi vantaggi, era nettamente contrastante con la principale caratteristica della guerriglia partigiana, consistente nella mobilità, nella capacità di scegliere autonomamente il terreno e il momento dello scontro.
La creazione, e la necessità di presidiare le “zone libere” implicava indubbiamente un rovesciamento delle parti, dove alle forze armate tedesche (in quanto quelle fasciste non furono mai in grado di svolgere un ruolo autonomo) veniva lasciata la scelta di attaccare quando e dove lo ritenessero più opportuno, a seconda dell'effettiva importanza militare delle “zone libere” in relazione allo spostamento del fronte; alla fine risultò evidente l'impossibilità, per le formazioni partigiane prive di armi pesanti, di quadri di comando sperimentati, di indispensabili strutture logistiche di collegamento, di tenere posizioni investite da forze armate incomparabilmente più efficienti nel quadro di battaglie campali.
Gli effetti di questa incapacità di difendere le “zone libere”, benché in parte previsti (e a volte sottovalutati), complicò notevolmente i rapporti con la popolazione civile, soprattutto in contesti rurali dove difficoltà materiali, povertà endemica, totale assenza di preparazione politica venivano intollerabilmente aggravati dalle ritorsioni, dalle razzie e dalle stragi delle truppe tedesche e delle varie milizie fasciste. La situazione nella quale venne a trovarsi la Carnia, sottoposta a inenarrabili violenze da un corpo di occupazione di ventiduemila cosacchi e caucasici con famiglie e cavalli al seguito, al quale la zona fu assegnata come bottino di guerra, è quella che meglio esemplifica la drammaticità della fase che seguì alla formazione delle “zone libere”.
E' per altro doveroso in sede storica richiamare la complessità di uno scenario dove “la grande illusione”di una rapida conclusione della guerra sul fronte italiano, se a dicembre appariva ormai un funesto abbaglio, era apparsa, non solo alla direzione politico-militare della Resistenza, all'inizio della primavera, una previsione razionalmente fondata.
Riteniamo utile allegare una tavola cronologica delle zone libere, così come è stata elaborata da Massimo Legnani. Le date affiancate alle indicazioni geografiche evidenziano che si è trattato di esperienze dalla durata compresa generalmente fra le poche settimane e i due mesi:

Valsesia (11/6-10/7); Val Ceno(10/6-11/7); Val d'Enza-Val Parma (giugno-luglio); Val Taro (15/6-24/7);
Montefiorino (17/6-1/8); Val Maira (fine giugno-30/7); Val Varaita (fine giugno-21/8); Valli di Lanzo (25/6-fine settembre);
Friuli orientale (30/6-fine settembre); Bobbio (7/7-27/8); Torriglia (I° periodo luglio-fine agosto); Carnia (metà luglio-15/10); Imperia (fine agosto-metà ottobre); Val d'ossola (10/9-23/10); Langhe (settembre-metà novembre);
Alto Monferrato (settembre-2/12); Varzi (22/9-29/11); Alto Tortonese (settembre-dicembre); Torriglia (II° periodo metà ottobre-inizio dicembre).

Riferimenti bibliografici:

E. Gorrieri, La Repubblica di Montefiorino. Per una storia della resistenza in Emilia, Il mulino, Bologna, 1966.
M. Legnani, Politica e amministrazione nelle repubbliche partigiane. Studio e documenti, supplemento al n. 88 de “Il movimento di Liberazione in Italia”.
Istituto Storico della resistenza in provincia di Novara e in Valsesia, Le zone libere nella resistenza italiana ed europea. Relazioni e comunicazioni presentate al Convegno internazionale di Domodossola, 25-28 settembre 1969.
P. Secchia, Il partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Feltrinelli, Milano, 197