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Torquato Tasso
Sorrento, 1544-1595
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Torquato Tasso - Sorrento, 1544-1595
Il cantore dell'epopea cristiana, il maggior poeta della seconda metà del Cinquecento. Nacque da Bernardo, allora segretario di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, e dalla gentildonna pistoiese Porzia de' Rossi.
A Napoli fece i primi studi, presso i Gesuiti, ma, quando il Sanseverino fu bandito come ribelle da Carlo V e Bernardo lo seguì nell'esilio, Torquato, non ancora decenne, si stabilì col padre a Roma lasciando la madre e la sorella a Napoli, in tristi condizioni.
Più tardi passarono a Urbino e, nel '59, a Venezia. Dopo aver cominciato a Padova gli studi universitari, Torquato cercò di continuarli a Bologna, ma dovette fuggirne perché accusato autore di una satira contro i professori e gli studenti di quella città; tornò allora a Padova e, nel '65, si stabilì a Ferrara, al servizio, prima, del cardinale Luigi Gonzaga, che accompagnò in Francia riuscendo solo a farsi notare per la sua imperizia diplomatica, poi del duca Alfonso II.
Fu questo il momento più felice della sua travagliata esistenza: poeta, oratore e organizzatore di spettacoli, godeva l'ammirazione e il favore di quella corte. E intanto portava innanzi alacremente il suo poema. Dopo il '75, quando già la Gerusalemme Liberata era compiuta, si manifestarono in lui i primi indizi di quella infermità mentale che doveva costituire la tragedia della sua vita: preoccupato delle sorti del poema, cominciò a farlo leggere a letterati e teologhi perché lo esaminassero dal punto di vista retorico e teologico e gli indicassero i possibili errori.

Di qui consigli vari e discordi che il poeta ora accettava contro voglia, ora combatteva veementemente: quindi polemiche, ostilità e, sempre più palese, l'apparire di una vera mania di persecuzione che culminò nel tentativo di uccidere un servo da cui si credeva spiato. Affidato ai monaci di S. Francesco e nuovamente accolto di poi nel castello ducale, ne fuggì una notte pellegrinando a lungo per l'Italia e rifugiandosi in fine a Sorrento, presso la sorella Cornelia.
Ma poco dopo era a Roma, e nel '78 ancora a Ferrara e a Torino. L'anno dopo tornava a Ferrara: la nostalgia di quella Corte lo aveva ripreso e spinto nuovamente là con la speranza di liete accoglienze. Vi giunse nel febbraio, quando il duca celebrava le proprie nozze con Margherita Gonzaga e nessuno aveva mente per il folle poeta, che non riuscì nemmeno ad aver udienza da Alfonso.

L'11 marzo, esasperato, il Tasso, spintosi nel castello, si diede a imprecare contro il duca e la sua famiglia con insensate minacce, e, condotto all'ospedale di S. Anna, fu incatenato, secondo l'uso dei tempi, come pazzo furioso. Vi restò sette anni, alternando periodi di quiete, nei quali poteva ancora scrivere, ad accessi di delirio e di collera violenta; è stata sfatata la leggenda secondo cui la lunga prigionia sarebbe stata una vendetta del duca il quale avrebbe voluto così punire un amore nascosto del poeta per sua sorella Eleonora.
Nel 1586 Vincenzo Gonzaga, cognato di Alfonso, ottenne per lui la libertà e lo condusse a Mantova, dove la sua salute sembrò migliorare. Ma anche di là fuggì, ripreso da mania di persecuzione, e lo troviamo pellegrino a Bologna, a Loreto, a Roma, a Napoli, ancora a Roma, a Firenze, a Mantova. La sua attività letteraria, frattanto, non veniva meno ma si faceva fredda e retorica.
Nel '94 Clemente VIII lo chiamava a Roma per attribuirgli l'incoronazione in Campidoglio, ma, prima che l'evento potesse realizzarsi, il poeta cadeva infermo; condotto per suo desiderio nel monastero di S. Onofrio sul Gianicolo, vi morì il 25 aprile del 1595.

Appena diciottenne, il Tasso aveva composto un poema in ottave in dodici canti, il Rinaldo, favorevolmente accolto, e questo successo gli confermò l'idea di portare a termine un poema sulla prima crociata di cui aveva già steso l'abbozzo.
Il Rinaldo mostra una non comune precocità d'ingegno ma non è niente di più di un tentativo giovanile. Nel '73, alla corte del duca Alfonso, compose l'Aminta, dramma pastorale in cinque atti, in cui sono narrate le vicende di un amore dapprima infelice e finalmente corrisposto. Vi è già nell'Aminta l'ambiente fiabesco e, insieme, il tono idillico che saranno note fondamentali della Gerusalemme Liberata.
Numerosissime, circa duemila, sono le sue Liriche, che, se seguono in gran parte la tradizione petrarchesca, non mancano di motivi genuini e profondi in cui appare la personalità completa del poeta: il suo senso del dolore, la sua continua e sempre inappagata ricerca di pace. Durante la prigionia nell'ospedale di S. Anna e nel periodo che seguì furono scritti i ventisei Dialoghi, in cui amici del poeta e, talora, egli stesso, discutono di letteratura, arte e morale secondo una concezione essenzialmente cristiana con colorito neoplatonico; spesso il pensiero dell'autore appare offuscato dalla malattia ma, nell'insieme, vi è un equilibrio molto maggiore di quanto potremmo pensare.

Importante è poi l'Epistolario che costituisce uno dei nostri più vivi e drammatici documenti letterari e ci permette di conoscere a fondo lo spirito del poeta.
Opere minori e di scarso valore sono gli scritti critici, fra cui I Discorsi del poema eroico e l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, il poemetto pastorale Il rogo di Corintia, la commedia Gli intrichi d'Amore, le Orazioni, La genealogia di Casa Gonzaga in ottave, il poemetto sacro, incompiuto, Il monte Oliveta e la tragedia Il re Torrismondo.
Tra queste è da mettersi anche la Gerusalemme conquistata, rifacimento in ventiquattro canti della Liberata, in cui cercò di purificare il significato religioso del grande poema, privandolo degli episodi amorosi e fantastici senza riuscire che a raffreddarlo e sminuirlo.
Nella Gerusalemme liberata, suo capolavoro, è cantata in venti canti la presa di Gerusalemme nella prima crociata sotto la guida di Goffredo di Buglione: essa costituisce un vero rinnovamento del poema cavalleresco, sia per i personaggi, non più tolti al ciclo di Carlo Magno, sia per una più umana e dolorante visione dell'umanità.
Ma, soprattutto, nella Gerusalemme al tono epico e grandioso, proprio della tradizione, è sostituito l'elemento idillico e malinconicamente elegiaco, contro cui si accanirono le critiche dei contemporanei e che rappresenta tuttavia la parte migliore del poema. Anche le scene di ispirazione fiabesca e sensuale sono pervase da un'accorata tristezza che le fa inconfondibili: l'eroismo non è esaltazione dell'uomo ma compimento di un dovere superiore dietro cui si profila un innato desiderio di serenità e di quiete.
Il problema morale domina i personaggi del Tasso, li rende inquieti, meditativi e malinconici, e vi è in loro un continuo disquilibrio che li spinge a cercare la perfezione ora nel trionfo ora nel sacrificio. Con la Gerusalemme liberata, la meravigliosa felicità del Cinquecento italiano sente il suo intimo declino e si avvia verso l'analisi introspettiva e faticosa da cui sorgerà la nuova civiltà secentesca; e il Tasso più di ogni altro ha sentito tragicamente questo passaggio.


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