LA COLONIZZAZIONE DEL CONGO
Il 12, 13 e 14 settembre 1876 il re del
Belgio Leopoldo II, fautore di un'espansione coloniale per il proprio paese,
allora in pieno sviluppo economico, riunì a Bruxelles una conferenza geografica
internazionale; questa creò un'Associazione internazionale africana, con lo
scopo di favorire l'esplorazione dell'Africa e di lottare contro lo schiavismo.
Le mire di Leopoldo si rivolsero subito verso il Congo, per la presumibile
ricchezza del territorio e per la sua importanza quale via d'accesso all'interno
del continente africano. Dietro suo suggerimento l'Associazione internazionale
africana decise di creare nel bacino del Congo un organismo politico, fondando,
nel novembre 1878, un Comitato di studi per l'Alto Congo, per conto del quale
l'esploratore Stanley, già illustre per i viaggi in quella zona, accettò di
intraprendere una nuova spedizione.
Il 4 agosto 1879 l'esploratore approdò alla
foce del Congo e in ottobre fondò Vivi, destinata a diventare la prima capitale
del futuro Stato.
Sorsero però nel frattempo alcune difficoltà: mentre Stanley
era intento a superare i monti di Cristallo, lungo il fiume, una spedizione
ufficiale francese, partita dal Gabon e diretta da Savorgnan di Brazzà, discese
nella vallata e prese possesso dei territori esplorati. Il Portogallo intanto,
segretamente incoraggiato dall'Inghilterra, rivendicò diritti storici su una
parte del bacino del grande fiume. A queste difficoltà se ne aggiunsero altre
sul piano politico internazionale. Tuttavia l'Associazione internazionale del
Congo, succeduta al Comitato di studi, riuscì a farsi riconoscere (nel 1884)
quale vero e proprio Stato, prima dagli USA, ai quali concesse, in cambio,
libertà di commercio e di navigazione nel bacino del Congo, poi dalla Francia
(alla quale accordò un diritto di prelazione nel caso in cui l'Associazione
avesse dovuto vendere un giorno i suoi possedimenti), e dalla Germania, inquieta
dell'appoggio inglese al Portogallo. Poco tempo dopo, l'Alto generale di
Berlino, a conclusione della conferenza di Berlino del 1884-1885, sancì
l'esistenza dello "Stato indipendente del Congo", di cui Leopoldo divenne il
sovrano e la cui unione col Belgio ebbe carattere puramente
personale.
Nell'aprile 1885 il parlamento belga autorizzò ufficialmente il re
ad assumere le funzioni di capo del nuovo Stato.
Una conferenza, riunitasi a
Bruxelles nel 1889, oltre a emettere alcuni editti antischiavisti, accettò di
rivedere l'art. 4 dell'Atto generale di Berlino che interdiceva l'imposizione di
diritti d'entrata sulle merci nel bacino convenzionale del Congo, e il re
ottenne in tal modo indispensabili fondi. Ma le spese erano molto ingenti,
sicché nel 1890 Leopoldo II chiese un anticipo di 25 milioni di franchi al
Belgio.
In cambio lasciava il Congo in eredità al suo paese, unitamente al
diritto di annetterlo entro dieci anni, in caso di mancato rimborso. In pochi
anni il territorio, di cui Stanley aveva esplorato soltanto l'arteria fluviale
principale, fu percorso da numerosi esploratori belgi e stranieri entrati al
servizio dello Stato indipendente.
A est delle cascate di Stanley (Stanley
Falls), i Belgi entrarono in conflitto con commercianti arabi che esercitavano,
fra il Lualaba e il lago Tanganica, il traffico degli schiavi e dell'avorio;
dopo una serie di azioni militari energicamente condotte per diversi anni
(1892-1898), essi eliminarono gli Arabi, insediandosi nella zona, dove fondarono
Albertville, sul Tanganica, ed Elisabethville nel Katanga, costruirono molte
linee ferroviarie e studiarono le possibilità economiche del paese in vista di
una sua futura valorizzazione. Leopoldo II volle fare dello Stato indipendente
una colonia produttiva: egli aveva instaurato un regime destinato a sfruttare al
massimo grado le ricchezze del paese.
Nel luglio 1885, un decreto dichiarò tutte
le terre libere proprietà dello Stato (demanio privato dello Stato), e la
formula venne interpretata in un senso molto ampio: nel 1891, lo Stato si
riservò il monopolio della gomma e dell'avorio, e la libertà commerciale,
proclamata con l'Atto generale di Berlino, venne soppressa. Il lavoro forzato e
il traffico del caucciù e dell'avorio costituirono la fonte di immensi profitti.
Ma lo sfruttamento intensivo provocò parecchi abusi. Il parlamento ben presto
rivendicò la cessione dello Stato indipendente al paese. Il re dovette
rassegnarvisi e concluse con il Belgio il trattato del 28 novembre 1907, che
faceva del Congo, frutto del suo lavoro, una colonia belga.
Con la fine dello
Stato indipendente e il passaggio della nuova colonia all'amministrazione belga,
furono emessi numerosi decreti per impedire lo sfruttamento abusivo della
manodopera indigena, per far rispettare le forme tradizionali della società
africana e per restringere i privilegi delle società concessionarie.
LO SVILUPPO DEMOGRAFICO NELL'OTTOCENTO
Insieme alla rivoluzione
industriale e alla crisi definitiva del sistema sociale e politico dell'Antico
regime, l'altro fenomeno epocale dell'Ottocento europeo fu la grande
trasformazione demografica. Il notevole aumento demografico che interessò
l'intero continente, la cui popolazione nell'arco di un secolo aumentò più del
doppio. Almeno due fenomeni permisero di rendere meno pesante l'impatto
demografico sull'andamento delle risorse: l'emigrazione, dalle campagne alle
città e dall'Europa verso i continenti extraeuropei, e l'inizio della diffusione
di pratiche anticoncezionali.
Il fenomeno dell’emigrazione di massa dal
vecchio continente verso le Americhe e l’Australia ha inizio nella metà dell’800
e prosegue nel corso del ‘900.
L’evento, di dimensioni continentali, ha
principalmente due origini: la crisi dell’economia agraria, che con ondate
successive determina un lungo periodo di cattivi raccolti che colpisce
soprattutto i ceti rurali più deboli: piccoli proprietari, contadini salariati e
braccianti, e l’andamento demografico, caratterizzato da una fase di alta
natalità-bassa mortalità. Si emigra per cercare un lavoro che nelle campagne non
c’è più, per migliorare condizioni di vita giunte a livelli miserabili, in
alcuni casi, come per gli ebrei russi, per sfuggire a persecuzioni e pesanti
forme di emarginazione sociale.
Dalla Polonia, dalla Russia, dall’Inghilterra
partono milioni di persone, famiglie povere provenienti dalle campagne in cerca
di una vita migliore, ma anche avventurieri in cerca di facili fortune. I luoghi
di destinazione sono soprattutto gli Stati Uniti, e in misura minore l’Australia
e l’America Latina. Negli anni a cavallo fra XIX e XX secolo l’emigrazione
interessa soprattutto le regioni mediterranee ed orientali dell’Europa: la
penisola balcanica, l’Italia e la Russia.
Nel periodo compreso fra il 1890 e il
1914 il 40% dell’emigrazione transoceanica proviene dai paesi mediterranei, il
26% dall’Europa orientale, e solo il 24% riguarda le isole britanniche,
principalmente l’Irlanda. I protagonisti di questa nuova ondata sono gli
irlandesi, gli slavi, ma soprattutto gli italiani (circa 5 milioni sbarcano in
America del Nord e provengono in massima parte dalle regioni povere del
Meridione).
Essi vivono un doppio sradicamento: geografico e culturale, ma anche
sociale, poiché non torneranno a lavorare la terra ma saranno impiegati quasi
tutti nelle fabbriche e in attività lavorative nelle grandi città americane.
L’emigrazione europea nell’America meridionale è molto diversa. Anche in Brasile
e in Argentina, dove affluiscono milioni di emigranti, la maggioranza sono
italiani (il loro numero aumenta negli anni successivi fino a raggiungere il 50%
dell’intera popolazione dell’Argentina).
Ma per loro paesi come l’Argentina
diventano una “frontiera”, nel senso pionieristico della parola: a differenza di
ciò che accade negli Stati Uniti in Sud America gli emigranti italiani tornano
al lavoro agricolo, allevano bestiame, dissodano campi ed aree prima non
coltivate e molti di essi fanno fortuna.
L'altro fenomeno che comiciò a
manifestarsi in questo secolo fu il controllo delle nascite attraverso pratiche
anticoncezionali.
LA BELLE EPOQUE
Glu ultimi venti anni dell’Ottocento furono
relativamente per l’Europa anni dipace e di relativo benessere, condizioni che
continuarono negli anni successivi, fino al 1914.
In molti paesi europei e negli
Stati Uniti l’agricoltura iniziava a fare largo uso di macchine e di
fertilizzanti prodotti dall’industria chimica. Il progresso dei trasporti
permise la commercializzazione su scala internazionale dei prodotti industriali
e agricoli. Questo periodo fu chiamato belle époque (francese=”epoca bella”). La
società borghese del tempo era convinta di vivere un’epoca di pace e di
prosperità, di avere davanti a sé un avvenire migliore.
Nel 1898, nello
studio parigino del prestigiatore Georges Meliés, un suo amico di Lione, August
Lumière, invita il mago a una rappresentazione insolita, la fotografia in
movimento.
È la prima volta che Meliés assiste ad uno spettacolo cinematografico
e ne rimane sbalordito. E’ nato il cinema, un invenzione destinata a
rivoluzionare la cultura, l’industria dello spettacolo ed i sogni dell’intera
società del XX secolo.
L’italiano Guglielmo Marconi (1895) comunicò con
successo i suoi esperimenti di radiotelegrafia, primo passo verso la
realizzazione della radio. Apparvero i primi apparecchi elettrici: fornelli,
stufe, ferro per stiro.
Gravi e antiche malattie, come ad esempio la malaria, il
colera e la pellagra, sembravano sconfitte definitivamente. Anche in campo
sociale e politico ci furono notevoli mutamenti: il diritto di voto venne via
via esteso e, infine, riconosciuto a tutti i cittadini maschi (suffragio
universale maschile).
Il quadro ottimista, spensierato e felice con cui
veniva rappresentata la “belle epoque” non corrispondeva in utto e per tuttò
alla realtà. Sul piano economico-sociale, non tutte le classi di cittadini
ebbero uguali benefici. Fu notevole il miglioramento delle condizioni di vita
della borghesia.
Ma operai e contadini, soprattutto nell’Europa mediterranea e
orientale, continuarono a vivere in condizioni dure e ingrate. Erano rimaste
escluse dal diritto di voto le donne. Infine, l’immagine ridente della belle
époque nascondeva tensioni e rivalità sia fra gli stessi paesi europei che fra
l’Europa e gli Stati Uniti. In particolare, Francia e Inghilterra vedevano con
molta preoccupazione l’accrescente importanza della Germania. Nel frattempo, sui
mercati internazionali cresceva il peso economico degli Stati Uniti.
LA QUESTIONE FEMMINILE
A cavallo dei due secoli prendono l’avvio in
Inghilterra movimenti di emancipazione femminile che si sarebbero,
successivamente, estesi in varie parti del mondo e particolar modo negli Stati
Uniti. La principale richiesta è il diritto al voto che viene propagandata anche
con gesti estremi, come il suicidio dimostrativo della giovane suffragetta Emily
Davidson.
I profondi mutamenti in atto nella società avevano comportato una
lenta ma progressiva trasformazione della famiglia intesa in senso tradizionale
e una nuova funzione della donna nel mondo del lavoro. La parte femminile della
società, all’inizio del secolo, non ha ancora maturato alcun diritto politico e
civico.
Le donne non sono ammesse al voto, non partecipano alla vita politica
delle grandi e delle piccole comunità, non assumono quasi mai cariche o ruoli di
responsabilità. Nasce così il movimento delle “suffragette”, chiamate così
perché si battono per il diritto al suffragio. Da quel momento, sotto la guida
della battagliera Miss Pankhurst, le donne promuovono mobilitazioni pubbliche,
agitazioni, proteste, a volte anche violente. Le suffragette si diffondono in
tutto il paese e, a poco a poco, le loro iniziative influenzano anche le donne
di altre parti del mondo.
Finalmente nel 1918 le suffragette ottengono in
Inghilterra la concessione del voto alle donne.
Finita la prima guerra
mondiale le donne riescono ad ottenere il diritto di voto anche in altre
nazioni: in Finlandia, Norvegia, Stati Uniti, Germania, Austria, Cecoslovacchia,
Olanda, Danimarca e Spezia. Tuttavia la presenza femminile, nella vita politica,
resta ancora per molto tempo marginale.
La secolare struttura della famiglia
patriarcale, dove il maschio, marito e padre, esercita un potere assoluto, va
lentamente attenuandosi.
Diminuisce il numero dei figli, spesso la donna è
impegnata in lavori esterni alle pareti domestiche. In Francia viene
riconosciuto il diritto al divorzio, attraverso il quale la donna può legalmente
rompere il patto matrimoniale che in molti casi significa per la moglie una
condanna a vita ad una condizione di inferiorità. Lo scoppio della prima guerra
mondiale, impone una mobilitazione generale di tutti gli uomini validi destinati
al fronte, che abbandonano così per anni i nuclei famigliari. In poco tempo, la
donna si ritrova sola a dover governare la famiglia, i bambini e i vecchi. In
molti casi la manodopera femminile è chiamata a sostituire gli uomini in molti
settori : nelle fabbriche, nella gestione dei servizi cittadini, nelle
amministrazioni.
Per molte donne ciò significa lavorare per la prima volta fuori
casa, a contatto con altre donne.
LA NASCITA DEL SIONISMO
Theodor Herzl, un ebreo ungherese nato a
Budapest assiste al pesante clima di antisemitismo.
Colpito da questo
avvenimento, Herzel scrive un libro intitolato Lo Stato ebraico che ha come
sottotitolo “Saggio di una soluzione moderna della questione ebraica” (1896). In
seguito alla pubblicazione del libro, nasce il sionismo politico, cioè un
movimento di liberazione che guiderà il disperso popolo ebraico dalla diaspora
al ritrovamento di una patria.
Nel 1897 viene fondata l’Organizzazione
sionistica mondiale, che si incontrerà periodicamente a Basilea, riunita a
congresso per discutere programmi e strategie di lotta. Herzl è convinto che il
suo popolo ha bisogno di una patria, se non proprio una “terra promessa”, un
luogo dove riunificare la comunità, ora dispersa in tutto il mondo. Inizialmente
rivolge la sua attenzione a regioni dell’Australia o dell’America Latina, ma, di
fronte all’opposizione degli ebrei orientali, decide di proporre il ritorno a
Gerusalemme, a Sion.
Il ritorno in Palestina significa il ritorno alla terra
madre, significa rendere fertile un deserto, costruire città, fabbriche e
coltivazioni, rompendo definitivamente con la tradizione che vede gli ebrei
soltanto abili commercianti o banchieri. Alcuni pionieri, ottengono dal governo
turco l’autorizzazione a stabilirsi in Palestina, a Giaffa.
Altri tentativi
Hertzl li compie, l’anno prima della sua morte, con il governo inglese, il quale
dispone la concessione di una regione dell’Uganda per fondare una colonia
ebraica. Nel 1904, Hertzl muore appena quarantaquattrenne con la speranza di
aver gettato le basi per una soluzione delle difficoltà in cui si dibatte
l’ebraismo. Il più sensibile pare dimostrarsi ancora una volta il governo
inglese: nel 1917 il premier Balfour invia una lettera all’organizzazione
sionista nella quale afferma che “il governo di Sua Maestà vede con favore la
fondazione in Palestina di un “home” per il popolo ebraico e farà del suo meglio
per facilitare il raggiungimento di questo obiettivo”. Inizia così la lunga,
definitiva, tappa della lotta per la costruzione di uno stato ebraico.
NASCITA DELL’INDUSTRIA AERONAUTICA
Questa conquista avvenne il 17
dicembre del 1903 quando i fratelli Orville e Wilbur Wright riuscirono a volare
per cinquantanove secondi sulla nuova stupefacente macchina che avevano creato.
Perché se è vero che di pochi centimetri si sollevò la macchina nel suo primo
volo, non è meno vero che dopo pochi anni, due ostinati quasi adolescenti
italiani, Enrico Cobioni e Renato Donati, siano riusciti a raggiungere il loro
ambizioso traguardo con un aereo creato da un altro ostinato giovanotto italiano
Gianni Caproni. Il 15 giugno 1911, l’amico pilota Enrico Cobioni portava in volo
per 50 minuti un nuovo apparecchio. Il 26 febbraio 1913, un biposto “Caproni”
compie il primo viaggio Milano-Roma, questa volta pilotato da un altro audace
pilota: il russo Hariton Slavorosof. I pionieri del volo bellico furono proprio
gli italiani; infatti i primi esperimenti li fecero nella guerra italo-turca. Il
capitano Piazza il 23 ottobre 1911 effettuò numerosi voli di ricognizioni
dimostrando l’utilità dell’aereo per correggere i tiri di artiglieria. Dieci
giorni dopo, il sottotenente G. Gavotti realizzò il 1° novembre 1911, il primo
bombardamento della storia lanciando dal suo aereo sugli accampamenti nemici di
Ain Zara delle comuni bombe a mano.
Poi ancora Piazza insieme a Gavotti il 23
febbraio 1912, furono i primi a realizzare le prime fotografie aeree della
storia, fissando al velivolo delle comuni macchine da ripresa. Nacque
l’aviazione civile, quella militare, i numerosi aeroporti.
IL SUDAMERICA TRA OTTO E NOVECENTO
La storia del Sud America nei primi
due decenni del XX secolo è la storia dell'espansione degli Stati Uniti in
quella parte del continente americano.
Sulle premesse della dottrina Monroe
prima, e del corollario Roosvelt poi, gli Stati Uniti fanno dell'America Latina
una propria area di influenza. Il primo segnale chiaro giunge nel 1901 quando
nella seconda conferenza Panamericana convocata dagli Stati Uniti in Messico,
l'Ufficio Commerciale delle Repubbliche Americane, di stanza a Washington,
diventa l'Ufficio Internazionale delle Repubbliche Americane, posto sotto
l'autorità di un consiglio permanente formato dai rappresentanti diplomatici
accreditati a Washington, sotto la presidenza del Segretario di Stato
statunitense.
Già nel 1903 si presenta agli Stati Uniti l’occasione di
intervenire in nome della comunità americana, quando il Venezuela dichiara di
non poter far fronte agli impegni economici contratti con la Germania,
l’Inghilterra e l’Italia. Alla decisione di queste tre potenze di effettuare una
dimostrazione navale contro lo stato sudamericano, gli Stati Uniti oppongono il
loro veto, costringendole a cedere. Da quel momento nessun paese europeo sarebbe
più intervenuto nella politica dell'America Latina.
Nel 1906 il Nicaragua,
sotto la dittatura del presidente Zelaya, dichiara guerra ad una coalizione
composta da Guatemala, Honduras e Salvador.
L'intervento congiunto di Stati
Uniti e Messico, deciso dall'Ufficio Internazionale, impone alle quattro
repubbliche il trattato di Washington (1907), nel quale si impegnano a ricorrere
all'arbitraggio in caso di conflitto. Ma quando Zelaya, in violazione del
trattato, attacca il Salvador, gli Stati Uniti provocano una sollevazione contro
di lui e lo sostituiscono con un proprio candidato, il generale Diaz. Washington
fa così occupare il Nicaragua, al quale accorda soccorso finanziario.
Nel
1911 gli USA impongono un governo amico anche in Honduras, che permette a
società americane di sfruttare i giacimenti d'oro, argento e rame appena
scoperti nel Paese.
Tutta l'America si trova così sotto l'influenza diretta o
indiretta degli Stati Uniti. Ma quando anche il Messico, fallita la rivoluzione
zapatista, entra a farne parte, i paesi più grandi dell'America latina,
Argentina, Brasile e Cile si uniscono in un associazione nota con la sigla
A.B.C., al fine di sottrarsi all'ingerenza statunitense. Questa alleanza finisce
però per coagulare ancora di più i piccoli stati intorno agli USA.
IL COLONIALISMO GIAPPONESE
La Corea è stata trascinata nel modo più
violento nel mondo moderno dalla penetrazione e dalla conquista imperialista.
Nel giro di pochi anni, si passa dai primi tentativi (falliti) di penetrazione
militare americana e francese tra il 1866 e il 1871 alla lotta tra cinesi e
giapponesi, culminata nella guerra del 1894, dalle quale il Giappone uscì come
la potenza che di fatto controllava la Corea, fino alla guerra russo-giapponese
del 1904-5 con la sconfitta russa e la definitiva sanzione dell’egemonia
giapponese in Corea. Nel giro di pochi anni si passò dal controllo giapponese
dell’amministrazione centrale allo scioglimento dell’esercito fino
all’annessione formale nel 1910.
La Corea cessava di essere anche solo
formalmente indipendente per diventare colonia del Giappone e tale sarebbe
rimasta fino al 1945. Non si può dire che i Giapponesi abbiano avuto, in Corea,
la mano leggera.
Cominciarono con l’impadronirsi della terra e delle foreste.
La tecnologia moderna era riservata ai giapponesi; nel 1944, ultimo anno del
dominio coloniale, l’80% dei tecnici impiegati nelle industrie era costituito da
giapponesi, mentre i coreani che coprivano l’altro 20% erano confinati
soprattutto nelle imprese industriali meno importanti; in quelle importanti il
personale tecnico era giapponese quasi al cento per cento.
Un’attenzione
particolare i giapponesi dedicarono alla repressione del movimento
indipendentista e di quello operaio, che con lo sviluppo (anche se sbilanciato)
dell’industria acquistava nuove possibilità di azione. Una prima misura fu
quella di coprire l’intero territorio di una fitta rete di spionaggio, di
prigioni, di stazioni di polizia.
Nel 1912 le prigioni ospitavano 52 mila
persone; nel 1918 142 mila; nel 1919, quando il 1° marzo esplose un grande
movimento rivendicativo a Seul che si estese rapidamente a tutto il paese (era
il primo grande riflesso in Corea della rivoluzione d’Ottobre) e coinvolse oltre
due milioni di persone in 211 distretti (su 218), la repressione fu pronta e
spietata: 8 mila morti, 16 mila feriti, 52.770 arresti.
I giapponesi
puntarono soprattutto su una sistematica opera di snazionalizzazione: imposero
l’adozione del modo di vita giapponese, proibirono l’uso della lingua coreana e
imposero quella giapponese; arrivarono a “nipponizzare” i cognomi coreani. Nel
1942 venivano organizzate l’Unione pan- coreana degli operai e dei contadini e
l’Unione della gioventù coreana; l’anno seguente veniva fondato il Partito
Comunista Coreano attraverso la fusione dei vari gruppi di marxisti-leninisti
esistenti nel paese.
Ma anche queste nuove organizzazioni avevano seri limiti,
che vennero alla luce nel 1926 quando il funerale dell’ultimo re della Corea,
Soojong, fu l’occasione per il lancio di un movimento (“il movimento del 10
giugno”), che avrebbe potuto promuovere la saldatura definitiva tra movimento
operaio e movimento per l’indipendenza nazionale. Fu, invece, solo una
manifestazione fine a se stessa, che diede ai giapponesi un nuovo pretesto per
intensificare la repressione.
Nella primavera del 1935 Kim Il Sung fondava
l’Associazione per la restaurazione della patria: il primo fronte nazionale
unito antigiapponese diretto dai comunisti.
A partire dalla seconda metà
dell’ottocento la Cina era stata oggetto delle mire imperialistiche delle grandi
potenze europee alle quali si aggiunsero, successivamente, anche quelle
dell’emergente Giappone. Scossa da continue agitazioni sociali e nazionaliste,
la Cina, che dal 1913 era governata dal regime autoritario di Yuan Shi-kai,
partecipa in subordine alla prima guerra mondiale al fianco dell’Intesa. Alla
conferenza di pace però, nonostante figurasse formalmente tra i vincitori,
riceve una pesante umiliazione dalle potenze occidentali che riconoscono alla
nemica Giappone il diritto di subentrare alla Germania nel controllo della
regione dello Shantung. Da qui il risveglio del movimento nazionalista cinese
organizzato intorno al Kuomintang e al suo leader Sun Yat-sen. Questi nel
1921 costituisce un proprio governo a Canton con l’appoggio dell’appena nato
Partito comunista cinese. Alla morte del leader nazionalista, nel 1925, il suo
successore Chang Kai-shek rompe l’alleanza con i comunisti e scatena un’ondata
di repressione contro i suoi esponenti e i suoi militanti operai (Shangai 1927).
Nel 1928 conquista la capitale Pechino e tenta di instaurare un governo di tipo
occidentale. Il suo programma si scontra contro le difficoltà di gestione di un
paese immenso e specialmente contro le mire espansionistiche del vicino
Giappone.
Nel 1931 i giapponesi invadono la Manciuria e vi creano uno Stato
collaborazionista (il Manchu-kuo) con l’intenzione di estendere poi il controllo
sul resto del paese. Nel frattempo la debolezza dimostrata da Chang Kai-shek
favorisce la crescita del Partito comunista guidato da Mao Tse-tung che,
puntando sul richiamo nazionalista e sulla organizzazione dei contadini,
acquista sempre più consensi. La risposta del governo cinese è feroce: si
disinteressa dell’invasore giapponese e concentra tutte le sue energie nella
repressione dei comunisti.
Tra il 1931 e il 1934 Chang Kai-shek sferra l’attacco
militare contro i seguaci di Mao compiendo un vero e proprio massacro.
Nell’ottobre del 1934 i comunisti, accerchiati nella regione dell’Hunan a Sud
del paese, decidono di spostarsi verso il Nord e iniziano quella che è stata
chiamata la «Lunga marcia». Decimati dagli attacchi governativi, dalle malattie
e dagli stenti, migliaia di comunisti compiono nel giro di un anno una marcia di
oltre diecimila chilometri che li porta ad attraversare centinaia di villaggi
contadini dove fanno numerosi proseliti.
Guidati da Mao giungono finalmente
nella regione settentrionale dello Shanxi dove riorganizzano il partito. Nel
1937 il pericolo rappresentato dall’imperialismo giapponese induce Mao, spinto
anche dall’URSS, a stringere una nuova alleanza con i nazionalisti di Chang, ma
quando ancora se ne definiscono i dettagli, il Giappone invade la Cina, liquida
la resistenza oppostagli e assume, alla fine del 1939, il controllo delle zone
nevralgiche del paese.
La Prima guerra Mondiale
La Seconda Guerra Mondiale