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Tra il XIX e XX Secolo
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LA COLONIZZAZIONE DEL CONGO

Il 12, 13 e 14 settembre 1876 il re del Belgio Leopoldo II, fautore di un'espansione coloniale per il proprio paese, allora in pieno sviluppo economico, riunì a Bruxelles una conferenza geografica internazionale; questa creò un'Associazione internazionale africana, con lo scopo di favorire l'esplorazione dell'Africa e di lottare contro lo schiavismo. Le mire di Leopoldo si rivolsero subito verso il Congo, per la presumibile ricchezza del territorio e per la sua importanza quale via d'accesso all'interno del continente africano. Dietro suo suggerimento l'Associazione internazionale africana decise di creare nel bacino del Congo un organismo politico, fondando, nel novembre 1878, un Comitato di studi per l'Alto Congo, per conto del quale l'esploratore Stanley, già illustre per i viaggi in quella zona, accettò di intraprendere una nuova spedizione.
Il 4 agosto 1879 l'esploratore approdò alla foce del Congo e in ottobre fondò Vivi, destinata a diventare la prima capitale del futuro Stato.
Sorsero però nel frattempo alcune difficoltà: mentre Stanley era intento a superare i monti di Cristallo, lungo il fiume, una spedizione ufficiale francese, partita dal Gabon e diretta da Savorgnan di Brazzà, discese nella vallata e prese possesso dei territori esplorati. Il Portogallo intanto, segretamente incoraggiato dall'Inghilterra, rivendicò diritti storici su una parte del bacino del grande fiume. A queste difficoltà se ne aggiunsero altre sul piano politico internazionale. Tuttavia l'Associazione internazionale del Congo, succeduta al Comitato di studi, riuscì a farsi riconoscere (nel 1884) quale vero e proprio Stato, prima dagli USA, ai quali concesse, in cambio, libertà di commercio e di navigazione nel bacino del Congo, poi dalla Francia (alla quale accordò un diritto di prelazione nel caso in cui l'Associazione avesse dovuto vendere un giorno i suoi possedimenti), e dalla Germania, inquieta dell'appoggio inglese al Portogallo. Poco tempo dopo, l'Alto generale di Berlino, a conclusione della conferenza di Berlino del 1884-1885, sancì l'esistenza dello "Stato indipendente del Congo", di cui Leopoldo divenne il sovrano e la cui unione col Belgio ebbe carattere puramente personale.
Nell'aprile 1885 il parlamento belga autorizzò ufficialmente il re ad assumere le funzioni di capo del nuovo Stato.

Una conferenza, riunitasi a Bruxelles nel 1889, oltre a emettere alcuni editti antischiavisti, accettò di rivedere l'art. 4 dell'Atto generale di Berlino che interdiceva l'imposizione di diritti d'entrata sulle merci nel bacino convenzionale del Congo, e il re ottenne in tal modo indispensabili fondi. Ma le spese erano molto ingenti, sicché nel 1890 Leopoldo II chiese un anticipo di 25 milioni di franchi al Belgio.
In cambio lasciava il Congo in eredità al suo paese, unitamente al diritto di annetterlo entro dieci anni, in caso di mancato rimborso. In pochi anni il territorio, di cui Stanley aveva esplorato soltanto l'arteria fluviale principale, fu percorso da numerosi esploratori belgi e stranieri entrati al servizio dello Stato indipendente.
A est delle cascate di Stanley (Stanley Falls), i Belgi entrarono in conflitto con commercianti arabi che esercitavano, fra il Lualaba e il lago Tanganica, il traffico degli schiavi e dell'avorio; dopo una serie di azioni militari energicamente condotte per diversi anni (1892-1898), essi eliminarono gli Arabi, insediandosi nella zona, dove fondarono Albertville, sul Tanganica, ed Elisabethville nel Katanga, costruirono molte linee ferroviarie e studiarono le possibilità economiche del paese in vista di una sua futura valorizzazione. Leopoldo II volle fare dello Stato indipendente una colonia produttiva: egli aveva instaurato un regime destinato a sfruttare al massimo grado le ricchezze del paese.

Nel luglio 1885, un decreto dichiarò tutte le terre libere proprietà dello Stato (demanio privato dello Stato), e la formula venne interpretata in un senso molto ampio: nel 1891, lo Stato si riservò il monopolio della gomma e dell'avorio, e la libertà commerciale, proclamata con l'Atto generale di Berlino, venne soppressa. Il lavoro forzato e il traffico del caucciù e dell'avorio costituirono la fonte di immensi profitti. Ma lo sfruttamento intensivo provocò parecchi abusi. Il parlamento ben presto rivendicò la cessione dello Stato indipendente al paese. Il re dovette rassegnarvisi e concluse con il Belgio il trattato del 28 novembre 1907, che faceva del Congo, frutto del suo lavoro, una colonia belga.
Con la fine dello Stato indipendente e il passaggio della nuova colonia all'amministrazione belga, furono emessi numerosi decreti per impedire lo sfruttamento abusivo della manodopera indigena, per far rispettare le forme tradizionali della società africana e per restringere i privilegi delle società concessionarie.


LO SVILUPPO DEMOGRAFICO NELL'OTTOCENTO

Insieme alla rivoluzione industriale e alla crisi definitiva del sistema sociale e politico dell'Antico regime, l'altro fenomeno epocale dell'Ottocento europeo fu la grande trasformazione demografica. Il notevole aumento demografico che interessò l'intero continente, la cui popolazione nell'arco di un secolo aumentò più del doppio. Almeno due fenomeni permisero di rendere meno pesante l'impatto demografico sull'andamento delle risorse: l'emigrazione, dalle campagne alle città e dall'Europa verso i continenti extraeuropei, e l'inizio della diffusione di pratiche anticoncezionali.
Il fenomeno dell’emigrazione di massa dal vecchio continente verso le Americhe e l’Australia ha inizio nella metà dell’800 e prosegue nel corso del ‘900.

L’evento, di dimensioni continentali, ha principalmente due origini: la crisi dell’economia agraria, che con ondate successive determina un lungo periodo di cattivi raccolti che colpisce soprattutto i ceti rurali più deboli: piccoli proprietari, contadini salariati e braccianti, e l’andamento demografico, caratterizzato da una fase di alta natalità-bassa mortalità. Si emigra per cercare un lavoro che nelle campagne non c’è più, per migliorare condizioni di vita giunte a livelli miserabili, in alcuni casi, come per gli ebrei russi, per sfuggire a persecuzioni e pesanti forme di emarginazione sociale.

Dalla Polonia, dalla Russia, dall’Inghilterra partono milioni di persone, famiglie povere provenienti dalle campagne in cerca di una vita migliore, ma anche avventurieri in cerca di facili fortune. I luoghi di destinazione sono soprattutto gli Stati Uniti, e in misura minore l’Australia e l’America Latina. Negli anni a cavallo fra XIX e XX secolo l’emigrazione interessa soprattutto le regioni mediterranee ed orientali dell’Europa: la penisola balcanica, l’Italia e la Russia.

Nel periodo compreso fra il 1890 e il 1914 il 40% dell’emigrazione transoceanica proviene dai paesi mediterranei, il 26% dall’Europa orientale, e solo il 24% riguarda le isole britanniche, principalmente l’Irlanda. I protagonisti di questa nuova ondata sono gli irlandesi, gli slavi, ma soprattutto gli italiani (circa 5 milioni sbarcano in America del Nord e provengono in massima parte dalle regioni povere del Meridione).

Essi vivono un doppio sradicamento: geografico e culturale, ma anche sociale, poiché non torneranno a lavorare la terra ma saranno impiegati quasi tutti nelle fabbriche e in attività lavorative nelle grandi città americane. L’emigrazione europea nell’America meridionale è molto diversa. Anche in Brasile e in Argentina, dove affluiscono milioni di emigranti, la maggioranza sono italiani (il loro numero aumenta negli anni successivi fino a raggiungere il 50% dell’intera popolazione dell’Argentina).

Ma per loro paesi come l’Argentina diventano una “frontiera”, nel senso pionieristico della parola: a differenza di ciò che accade negli Stati Uniti in Sud America gli emigranti italiani tornano al lavoro agricolo, allevano bestiame, dissodano campi ed aree prima non coltivate e molti di essi fanno fortuna.
L'altro fenomeno che comiciò a manifestarsi in questo secolo fu il controllo delle nascite attraverso pratiche anticoncezionali.

LA BELLE EPOQUE

Glu ultimi venti anni dell’Ottocento furono relativamente per l’Europa anni dipace e di relativo benessere, condizioni che continuarono negli anni successivi, fino al 1914.

In molti paesi europei e negli Stati Uniti l’agricoltura iniziava a fare largo uso di macchine e di fertilizzanti prodotti dall’industria chimica. Il progresso dei trasporti permise la commercializzazione su scala internazionale dei prodotti industriali e agricoli. Questo periodo fu chiamato belle époque (francese=”epoca bella”). La società borghese del tempo era convinta di vivere un’epoca di pace e di prosperità, di avere davanti a sé un avvenire migliore.
Nel 1898, nello studio parigino del prestigiatore Georges Meliés, un suo amico di Lione, August Lumière, invita il mago a una rappresentazione insolita, la fotografia in movimento.

È la prima volta che Meliés assiste ad uno spettacolo cinematografico e ne rimane sbalordito. E’ nato il cinema, un invenzione destinata a rivoluzionare la cultura, l’industria dello spettacolo ed i sogni dell’intera società del XX secolo.
L’italiano Guglielmo Marconi (1895) comunicò con successo i suoi esperimenti di radiotelegrafia, primo passo verso la realizzazione della radio. Apparvero i primi apparecchi elettrici: fornelli, stufe, ferro per stiro.

Gravi e antiche malattie, come ad esempio la malaria, il colera e la pellagra, sembravano sconfitte definitivamente. Anche in campo sociale e politico ci furono notevoli mutamenti: il diritto di voto venne via via esteso e, infine, riconosciuto a tutti i cittadini maschi (suffragio universale maschile).
Il quadro ottimista, spensierato e felice con cui veniva rappresentata la “belle epoque” non corrispondeva in utto e per tuttò alla realtà. Sul piano economico-sociale, non tutte le classi di cittadini ebbero uguali benefici. Fu notevole il miglioramento delle condizioni di vita della borghesia.

Ma operai e contadini, soprattutto nell’Europa mediterranea e orientale, continuarono a vivere in condizioni dure e ingrate. Erano rimaste escluse dal diritto di voto le donne. Infine, l’immagine ridente della belle époque nascondeva tensioni e rivalità sia fra gli stessi paesi europei che fra l’Europa e gli Stati Uniti. In particolare, Francia e Inghilterra vedevano con molta preoccupazione l’accrescente importanza della Germania. Nel frattempo, sui mercati internazionali cresceva il peso economico degli Stati Uniti.

LA QUESTIONE FEMMINILE

A cavallo dei due secoli prendono l’avvio in Inghilterra movimenti di emancipazione femminile che si sarebbero, successivamente, estesi in varie parti del mondo e particolar modo negli Stati Uniti. La principale richiesta è il diritto al voto che viene propagandata anche con gesti estremi, come il suicidio dimostrativo della giovane suffragetta Emily Davidson.

I profondi mutamenti in atto nella società avevano comportato una lenta ma progressiva trasformazione della famiglia intesa in senso tradizionale e una nuova funzione della donna nel mondo del lavoro. La parte femminile della società, all’inizio del secolo, non ha ancora maturato alcun diritto politico e civico.

Le donne non sono ammesse al voto, non partecipano alla vita politica delle grandi e delle piccole comunità, non assumono quasi mai cariche o ruoli di responsabilità. Nasce così il movimento delle “suffragette”, chiamate così perché si battono per il diritto al suffragio. Da quel momento, sotto la guida della battagliera Miss Pankhurst, le donne promuovono mobilitazioni pubbliche, agitazioni, proteste, a volte anche violente. Le suffragette si diffondono in tutto il paese e, a poco a poco, le loro iniziative influenzano anche le donne di altre parti del mondo.

Finalmente nel 1918 le suffragette ottengono in Inghilterra la concessione del voto alle donne.
Finita la prima guerra mondiale le donne riescono ad ottenere il diritto di voto anche in altre nazioni: in Finlandia, Norvegia, Stati Uniti, Germania, Austria, Cecoslovacchia, Olanda, Danimarca e Spezia. Tuttavia la presenza femminile, nella vita politica, resta ancora per molto tempo marginale.
La secolare struttura della famiglia patriarcale, dove il maschio, marito e padre, esercita un potere assoluto, va lentamente attenuandosi.

Diminuisce il numero dei figli, spesso la donna è impegnata in lavori esterni alle pareti domestiche. In Francia viene riconosciuto il diritto al divorzio, attraverso il quale la donna può legalmente rompere il patto matrimoniale che in molti casi significa per la moglie una condanna a vita ad una condizione di inferiorità. Lo scoppio della prima guerra mondiale, impone una mobilitazione generale di tutti gli uomini validi destinati al fronte, che abbandonano così per anni i nuclei famigliari. In poco tempo, la donna si ritrova sola a dover governare la famiglia, i bambini e i vecchi. In molti casi la manodopera femminile è chiamata a sostituire gli uomini in molti settori : nelle fabbriche, nella gestione dei servizi cittadini, nelle amministrazioni.

Per molte donne ciò significa lavorare per la prima volta fuori casa, a contatto con altre donne.

LA NASCITA DEL SIONISMO

Theodor Herzl, un ebreo ungherese nato a Budapest assiste al pesante clima di antisemitismo.

Colpito da questo avvenimento, Herzel scrive un libro intitolato Lo Stato ebraico che ha come sottotitolo “Saggio di una soluzione moderna della questione ebraica” (1896). In seguito alla pubblicazione del libro, nasce il sionismo politico, cioè un movimento di liberazione che guiderà il disperso popolo ebraico dalla diaspora al ritrovamento di una patria.

Nel 1897 viene fondata l’Organizzazione sionistica mondiale, che si incontrerà periodicamente a Basilea, riunita a congresso per discutere programmi e strategie di lotta. Herzl è convinto che il suo popolo ha bisogno di una patria, se non proprio una “terra promessa”, un luogo dove riunificare la comunità, ora dispersa in tutto il mondo. Inizialmente rivolge la sua attenzione a regioni dell’Australia o dell’America Latina, ma, di fronte all’opposizione degli ebrei orientali, decide di proporre il ritorno a Gerusalemme, a Sion.

Il ritorno in Palestina significa il ritorno alla terra madre, significa rendere fertile un deserto, costruire città, fabbriche e coltivazioni, rompendo definitivamente con la tradizione che vede gli ebrei soltanto abili commercianti o banchieri. Alcuni pionieri, ottengono dal governo turco l’autorizzazione a stabilirsi in Palestina, a Giaffa.

Altri tentativi Hertzl li compie, l’anno prima della sua morte, con il governo inglese, il quale dispone la concessione di una regione dell’Uganda per fondare una colonia ebraica. Nel 1904, Hertzl muore appena quarantaquattrenne con la speranza di aver gettato le basi per una soluzione delle difficoltà in cui si dibatte l’ebraismo. Il più sensibile pare dimostrarsi ancora una volta il governo inglese: nel 1917 il premier Balfour invia una lettera all’organizzazione sionista nella quale afferma che “il governo di Sua Maestà vede con favore la fondazione in Palestina di un “home” per il popolo ebraico e farà del suo meglio per facilitare il raggiungimento di questo obiettivo”. Inizia così la lunga, definitiva, tappa della lotta per la costruzione di uno stato ebraico.

NASCITA DELL’INDUSTRIA AERONAUTICA

Questa conquista avvenne il 17 dicembre del 1903 quando i fratelli Orville e Wilbur Wright riuscirono a volare per cinquantanove secondi sulla nuova stupefacente macchina che avevano creato.

Perché se è vero che di pochi centimetri si sollevò la macchina nel suo primo volo, non è meno vero che dopo pochi anni, due ostinati quasi adolescenti italiani, Enrico Cobioni e Renato Donati, siano riusciti a raggiungere il loro ambizioso traguardo con un aereo creato da un altro ostinato giovanotto italiano Gianni Caproni. Il 15 giugno 1911, l’amico pilota Enrico Cobioni portava in volo per 50 minuti un nuovo apparecchio. Il 26 febbraio 1913, un biposto “Caproni” compie il primo viaggio Milano-Roma, questa volta pilotato da un altro audace pilota: il russo Hariton Slavorosof. I pionieri del volo bellico furono proprio gli italiani; infatti i primi esperimenti li fecero nella guerra italo-turca. Il capitano Piazza il 23 ottobre 1911 effettuò numerosi voli di ricognizioni dimostrando l’utilità dell’aereo per correggere i tiri di artiglieria. Dieci giorni dopo, il sottotenente G. Gavotti realizzò il 1° novembre 1911, il primo bombardamento della storia lanciando dal suo aereo sugli accampamenti nemici di Ain Zara delle comuni bombe a mano.

Poi ancora Piazza insieme a Gavotti il 23 febbraio 1912, furono i primi a realizzare le prime fotografie aeree della storia, fissando al velivolo delle comuni macchine da ripresa. Nacque l’aviazione civile, quella militare, i numerosi aeroporti.

IL SUDAMERICA TRA OTTO E NOVECENTO

La storia del Sud America nei primi due decenni del XX secolo è la storia dell'espansione degli Stati Uniti in quella parte del continente americano.

Sulle premesse della dottrina Monroe prima, e del corollario Roosvelt poi, gli Stati Uniti fanno dell'America Latina una propria area di influenza. Il primo segnale chiaro giunge nel 1901 quando nella seconda conferenza Panamericana convocata dagli Stati Uniti in Messico, l'Ufficio Commerciale delle Repubbliche Americane, di stanza a Washington, diventa l'Ufficio Internazionale delle Repubbliche Americane, posto sotto l'autorità di un consiglio permanente formato dai rappresentanti diplomatici accreditati a Washington, sotto la presidenza del Segretario di Stato statunitense.

Già nel 1903 si presenta agli Stati Uniti l’occasione di intervenire in nome della comunità americana, quando il Venezuela dichiara di non poter far fronte agli impegni economici contratti con la Germania, l’Inghilterra e l’Italia. Alla decisione di queste tre potenze di effettuare una dimostrazione navale contro lo stato sudamericano, gli Stati Uniti oppongono il loro veto, costringendole a cedere. Da quel momento nessun paese europeo sarebbe più intervenuto nella politica dell'America Latina.
Nel 1906 il Nicaragua, sotto la dittatura del presidente Zelaya, dichiara guerra ad una coalizione composta da Guatemala, Honduras e Salvador.

L'intervento congiunto di Stati Uniti e Messico, deciso dall'Ufficio Internazionale, impone alle quattro repubbliche il trattato di Washington (1907), nel quale si impegnano a ricorrere all'arbitraggio in caso di conflitto. Ma quando Zelaya, in violazione del trattato, attacca il Salvador, gli Stati Uniti provocano una sollevazione contro di lui e lo sostituiscono con un proprio candidato, il generale Diaz. Washington fa così occupare il Nicaragua, al quale accorda soccorso finanziario.
Nel 1911 gli USA impongono un governo amico anche in Honduras, che permette a società americane di sfruttare i giacimenti d'oro, argento e rame appena scoperti nel Paese.

Tutta l'America si trova così sotto l'influenza diretta o indiretta degli Stati Uniti. Ma quando anche il Messico, fallita la rivoluzione zapatista, entra a farne parte, i paesi più grandi dell'America latina, Argentina, Brasile e Cile si uniscono in un associazione nota con la sigla A.B.C., al fine di sottrarsi all'ingerenza statunitense. Questa alleanza finisce però per coagulare ancora di più i piccoli stati intorno agli USA.

IL COLONIALISMO GIAPPONESE

La Corea è stata trascinata nel modo più violento nel mondo moderno dalla penetrazione e dalla conquista imperialista. Nel giro di pochi anni, si passa dai primi tentativi (falliti) di penetrazione militare americana e francese tra il 1866 e il 1871 alla lotta tra cinesi e giapponesi, culminata nella guerra del 1894, dalle quale il Giappone uscì come la potenza che di fatto controllava la Corea, fino alla guerra russo-giapponese del 1904-5 con la sconfitta russa e la definitiva sanzione dell’egemonia giapponese in Corea. Nel giro di pochi anni si passò dal controllo giapponese dell’amministrazione centrale allo scioglimento dell’esercito fino all’annessione formale nel 1910.

La Corea cessava di essere anche solo formalmente indipendente per diventare colonia del Giappone e tale sarebbe rimasta fino al 1945. Non si può dire che i Giapponesi abbiano avuto, in Corea, la mano leggera.
Cominciarono con l’impadronirsi della terra e delle foreste. La tecnologia moderna era riservata ai giapponesi; nel 1944, ultimo anno del dominio coloniale, l’80% dei tecnici impiegati nelle industrie era costituito da giapponesi, mentre i coreani che coprivano l’altro 20% erano confinati soprattutto nelle imprese industriali meno importanti; in quelle importanti il personale tecnico era giapponese quasi al cento per cento.
Un’attenzione particolare i giapponesi dedicarono alla repressione del movimento indipendentista e di quello operaio, che con lo sviluppo (anche se sbilanciato) dell’industria acquistava nuove possibilità di azione. Una prima misura fu quella di coprire l’intero territorio di una fitta rete di spionaggio, di prigioni, di stazioni di polizia.

Nel 1912 le prigioni ospitavano 52 mila persone; nel 1918 142 mila; nel 1919, quando il 1° marzo esplose un grande movimento rivendicativo a Seul che si estese rapidamente a tutto il paese (era il primo grande riflesso in Corea della rivoluzione d’Ottobre) e coinvolse oltre due milioni di persone in 211 distretti (su 218), la repressione fu pronta e spietata: 8 mila morti, 16 mila feriti, 52.770 arresti.
I giapponesi puntarono soprattutto su una sistematica opera di snazionalizzazione: imposero l’adozione del modo di vita giapponese, proibirono l’uso della lingua coreana e imposero quella giapponese; arrivarono a “nipponizzare” i cognomi coreani. Nel 1942 venivano organizzate l’Unione pan- coreana degli operai e dei contadini e l’Unione della gioventù coreana; l’anno seguente veniva fondato il Partito Comunista Coreano attraverso la fusione dei vari gruppi di marxisti-leninisti esistenti nel paese.

Ma anche queste nuove organizzazioni avevano seri limiti, che vennero alla luce nel 1926 quando il funerale dell’ultimo re della Corea, Soojong, fu l’occasione per il lancio di un movimento (“il movimento del 10 giugno”), che avrebbe potuto promuovere la saldatura definitiva tra movimento operaio e movimento per l’indipendenza nazionale. Fu, invece, solo una manifestazione fine a se stessa, che diede ai giapponesi un nuovo pretesto per intensificare la repressione.
Nella primavera del 1935 Kim Il Sung fondava l’Associazione per la restaurazione della patria: il primo fronte nazionale unito antigiapponese diretto dai comunisti.
A partire dalla seconda metà dell’ottocento la Cina era stata oggetto delle mire imperialistiche delle grandi potenze europee alle quali si aggiunsero, successivamente, anche quelle dell’emergente Giappone. Scossa da continue agitazioni sociali e nazionaliste, la Cina, che dal 1913 era governata dal regime autoritario di Yuan Shi-kai, partecipa in subordine alla prima guerra mondiale al fianco dell’Intesa. Alla conferenza di pace però, nonostante figurasse formalmente tra i vincitori, riceve una pesante umiliazione dalle potenze occidentali che riconoscono alla nemica Giappone il diritto di subentrare alla Germania nel controllo della regione dello Shantung. Da qui il risveglio del movimento nazionalista cinese organizzato intorno al Kuomintang e al suo leader Sun Yat-sen. Questi nel 1921 costituisce un proprio governo a Canton con l’appoggio dell’appena nato Partito comunista cinese. Alla morte del leader nazionalista, nel 1925, il suo successore Chang Kai-shek rompe l’alleanza con i comunisti e scatena un’ondata di repressione contro i suoi esponenti e i suoi militanti operai (Shangai 1927). Nel 1928 conquista la capitale Pechino e tenta di instaurare un governo di tipo occidentale. Il suo programma si scontra contro le difficoltà di gestione di un paese immenso e specialmente contro le mire espansionistiche del vicino Giappone.

Nel 1931 i giapponesi invadono la Manciuria e vi creano uno Stato collaborazionista (il Manchu-kuo) con l’intenzione di estendere poi il controllo sul resto del paese. Nel frattempo la debolezza dimostrata da Chang Kai-shek favorisce la crescita del Partito comunista guidato da Mao Tse-tung che, puntando sul richiamo nazionalista e sulla organizzazione dei contadini, acquista sempre più consensi. La risposta del governo cinese è feroce: si disinteressa dell’invasore giapponese e concentra tutte le sue energie nella repressione dei comunisti.

Tra il 1931 e il 1934 Chang Kai-shek sferra l’attacco militare contro i seguaci di Mao compiendo un vero e proprio massacro. Nell’ottobre del 1934 i comunisti, accerchiati nella regione dell’Hunan a Sud del paese, decidono di spostarsi verso il Nord e iniziano quella che è stata chiamata la «Lunga marcia». Decimati dagli attacchi governativi, dalle malattie e dagli stenti, migliaia di comunisti compiono nel giro di un anno una marcia di oltre diecimila chilometri che li porta ad attraversare centinaia di villaggi contadini dove fanno numerosi proseliti.

Guidati da Mao giungono finalmente nella regione settentrionale dello Shanxi dove riorganizzano il partito. Nel 1937 il pericolo rappresentato dall’imperialismo giapponese induce Mao, spinto anche dall’URSS, a stringere una nuova alleanza con i nazionalisti di Chang, ma quando ancora se ne definiscono i dettagli, il Giappone invade la Cina, liquida la resistenza oppostagli e assume, alla fine del 1939, il controllo delle zone nevralgiche del paese.

La Prima guerra Mondiale

La Seconda Guerra Mondiale