Antonio Farnese

Antonio

Antonio, l'ultimo

Il papa tentò invano d'indurre Antonio Farnese, fratello del duca, a prender moglie: se avesse avuto un figlio, non avrebbe potuto esser escluso dalla successione... Ma Antonio investiva in altre occupazioni, da cui trarre ogni possibile interesse gaudioso: il cibo, le feste, le partite a carte, le passeggiate. le cacce, le cene, le dame calde appena sfornate per lui, e i pisolini al riparo dal sole e dal gelo. Una vita alla quale il fratello, ben diverso nelle intenzioni, lo avviava senza dubbio per calcolo. Quando si pensa alla reggia di Colorno al comodo splendore che doveva essere già con Francesco, la vita beata di Antonio sembrava corrispondere a tutto quanto forniva quella piccola Versailles, che però rimaneva la residenza di Francesco. Antonio volle imitarla e ingrandì, abbellì il castello di Sala, e lo cinse di un magnifico parco.

Anche lui come il fratello aveva buon gusto, sensibilità se non cultura. Se fosse vissuto un pò oltre avrebbe potuto integrare le raccolte di quadri e medaglie iniziate da Francesco e magari istituire qualche altro Ordine eqluestre della milizia angelica dorata costantiniana, detto di San Giorgio martire (anche se era soltanto una decorativa invenzione). Magari individuare altre provvidenze specie nell'arte, nel teatro, come del resto aveva cominciato a fare, dato che i suggerimenti del sangue non gli mancavano, se di magnificenza si trattava. Quando Francesco mori' improvvisamente nel febbraio del 1727, a quarantanove anni, senza eredi, Antonio gli succedette. Ma il suo stomaco non resse: fra l'opulenta pinguedine e la quantità di alimenti che continuavano a nutrirla, si bloccò in un'indigestione malcurata e fatale, che interruppe la vita del neoduca a cinquantuno anni, nel gennaio del 1731.

Come abbiamo detto, Antonio non sarebbe stato da buttar via. Diciottenne nel dicembre 1697 si recò da Piacenza a Milano insieme ad alcuni nobili, fra i quali il conte Alessandro Roncovieri, divenuto vescovo e messo alle calcagna di Vendome, come tutti ricordano. I piacentini visitarono il conte Carlo Borromeo e la celebre Biblioteca Ambrosiana, quindi passarono alla corte di Torino, e di là in Francia nel gennaio seguente, per un lungo periodo. Raggiunsero poi l'Inghilterra, ben accolti da re Guglielmo, il Belgio, 1'Olanda e la Germania. Nel novembre del 1699 erano a Vienna, ricevuti dall'imperatore Leopoldo. Rientrato in Italia, Antonio si trattenne a Venezia attirato dal carnevale dell'anno 1700, che apriva in maschera il nuovo secolo. A Parma comparve, da Napoli, solo il 24 luglio quando cioè il contante gli bastava sì e no per il biglietto di ritorno. Il viaggio gli aveva prosciugato un milione e 584.000 lire di Parma, come Roncovieri registrò nel libro delle spese.

A parte la contabilità non è difficile pensare che nell'intenzione del duca Francesco il lungo viaggio del fratello attraverso le corti europee avesse, oltre quello dell'istruzione, anche un carattere politico, sul modello delle pubbliche relazioni. Quanto a lui, Antonio. che aveva mente aperta, una volta in compagnia di persone qualificate, venne a contatto con la migliore società europea, allargò la sua modesta cultura, formata alla scuola dei padri gesuiti, e si acquistò preziose amicizie. Esperienze che non pote mettere a profitto, per colpa di quello stesso fratello che l'aveva incoraggiato a viaggiare, ma che in seguito se ne guardò bene dall'affidargli qualche incarico di governo. Inoltre i rapporti fra i due si guastarono per questioni di eredità e il duca fini' per convenire che fosse meglio lasciare Antonio ai suoi passatempi di scapolo ozioso, tra cavalieri allegri e buontemponi.

Nella comitiva del principe si distingueva l'abate Carlo Innocenzo Frugoni, che inneggiava con facile verso alla bellezza delle dame, alla generosità del mecenate e della sua favorita, rispecchiava cioe la vacuità e la frivolezza dell'ultimo periodo farnesiano. Il principe se lo tenne vicino anche quando sedette sul trono del ducato, forse per distrarsi dall'avanzata dei debiti che minacciava il suo desiderio di tranquillità.
All'arte di governo diede uno scarso contributo, se non parliamo dell'arte della seta, che volle rilanciare ordinando di piantare un certo numero di gelsi ogni tante biolche e incrementando la produzione della cera e del miele: <>, scrive il Drei.

Elisabetta era stata una Cassandra a tutti gli effetti? In realtà il duca Antonio aveva preso moglie, la modenese Enrichetta d'Este, e morendo, illuso che ella fosse incinta, avea nominato suo erede universale <>: fino all'età maggiore dell'atteso figliolo aveva indicato una reggenza di govemo composta dalla vedova e da cinque nobiluomini. Se poi il nascituro non si fosse presentato alla luce del mondo il trono sarebbe toccato alla prole maschile di Elisabetta. Costei era assai allarrnata: da un lato temeva che Enrichetta partorisse, dall'altro era persuasa che la corte di Vienna volesse impedire l'accesso in Italia ai Borbone di Spagna. In tutti e due i casi occorrevano dei ripari. Irritata dalla palese antipatia dell'imperatore Carlo Vl d'Asburgo nei suoi confronti, stipulò con l'odiata Inghilterra e la Francia il trattato di Siviglia del novembre 1729. Gli articoli IX-XlII regolavano le questioni di Toscana e di Parma, assicurandone di nuovo la successione a don Carlos, con il diritto di introdurre subito dei presidi spagnoli in quegli Stati, e garantendo l'aiuto franco-inglese contro un'eventuale minaccia austriaca in Italia.

Carlo Vl, sorpreso e indignato perchè non si teneva conto che Toscana e Parma restavano pur sempre feudi dell'Impero, fece riunire un forte esercito fra Mantova e Milano. Intanto qualcuno avrebbe dato un'acceleratina alla morte del duca Antonio, troppo fidente nell'<>, secondo il racconto di un cronista. Lasciando tutto nell'incerto, come la storia vuole, la mattina del 2 gennaio, due giorni dopo la morte del duca, comparve in citta il conte Carlo Stampa di Soncino, generale dell'artiglieria dello Stato di Milano e commissario sostituto del conte Carlo Borromeo, di lui zio e plenipotenziario imperiale in Italia. Questi spiegò alla reggenza parmense il significato della sua missione: nel rispetto dei trattati vigenti: l'occupazione militare del ducato, onde assicurare a don Carlos il convenuto passaggio dei poteri... Il sovrano appena spirato, il figlio legittimo ancora di la' da venire: quanta austriaca sollecitudine, anzi quanta premura, mormorarono i timidi reggenti, mentre il papa Clemente XII scateno fulmini in concistoro, ma finirono subito in cenere.

Seriosa l'Europa intera seguiva giorno dopo giorno il vero nocciolo della questione, la gravidanza di Enrichetta. Molti, i più, giuravano che Antonio era impotente e che Enrichetta fingeva. Alla corte di Parma, Dorotea Sofia, la madre di Elisabetta, faceva gli scongiuri perche il bebè non nascesse e sobillava spioni di ogni genere perchè mettessero a nudo la verità. Lettere partivano e arrivavano, gente da ogni parte con deleghe ufficiali per saperne di più e consigliare una soluzione. Mai in una sala parto si trepidò e si intrigò piu di allora - si fa per dire.
Tutti in sostanza chiedevano: ma e la madre, come si sente, Enrichetta? Pare che anche lei avesse dei dubbi e ansiosa ricorresse per qualche buon consiglio a suo padre Rinaldo, ex cardinale che l'aveva allevata in isolamento come una pianta rara. A un certo punto però non ne poterono piu di lei, e fu quattro mesi dopo la morte di Antonio, in maggio. Quattro levatrici entrarono nell'appartamento della gestante, la visitarono secondo la loro esperienza, ne trassero la convinzione che era di ben sette mesi e sottoscrissero in fede un atto pubblico, diramato a tutte le corti.

In luglio dunque la grande attesa. Alla guarnigione venne dato ordine di tenere unti i cannoni per l'eventuale scarica in omaggio al maschietto, ammessa anche questa eventualità. Ma non ce ne fu bisogno. A meta' settembre si seppe in via ufficiale che la gravidanza era stata un'ipotesi, un errore di diagnosi. E la beffa non era finita. Benchè la notizia venisse diffusa subito alle corti estere. a Parma continuava ufficialmente la finzione. anche da parte del Consiglio di reggenza, mentre Enrichetta, tra la sorpresa del popolo curioso, continuava a farsi vedere in condizioni fisiche fin troppo normali alla solita paseggiata in citta e alle funzioni religiose.

Naturalmente chi bevve per buona l'ipotesi di una gravidanza difficile da stabilire, non doveva essere in sè; la maggioranza fece le spallucce e capì che era stato un trucco, una messinscena finanziata da uno sponsor d'eccezione, come la casa d'Austria. E infatti le levatrici e i medici di corte furono pagati allo scopo di raccontare il falso. Se non fosse stato per la decisione di Elisabetta, che tempestava 1'imperatore con la sua furia minacciosa, forse gli austriaci vrebbero ottenuto qualche maggiore vantaggio dalla situazione di stallo in una città che, pur avendo servito vari padroni, era anche loro.

Il popolo rimase costernato; la vedova, e madre putativa a oltranza, respinta dalla corte di Modena, si ritirava in un primo tempo nella villa di Colorno. Il duca Antonio alla vigilia della morte le aveva sottoscritto un atto di donazione, sessantamila doppie in tanto oro e argento, con l'espressa condizione che doveva ricevere il tutto, insieme alla propria dote, dalle mani dell'erede. La clausola lasciava la vedova alla mercè di Elisabetta. La regina per prima cosa impose a Enrichetta di consegnare alla reggente Dorotea le gioie farnesiane da lei fino allora custodite dopo di che, emarginata dalla vita di corte, condusse vita ritirata fra Piacenza e la rocca di Borgo San Donnino. Si risposo con Leopoldo, langravio d'Assia Darmstadt, e mori nel 1777.

Preparativi

Senza di lei le pratiche di successione progredivano secondo la volontà di Elisabetta. Con la mediazione inglese, fu concluso un accordo definitivo austro-spagnolo nel luglio 1731, per cui Carlo VI si impegnava a ritirare da Parma le sue truppe e a riconoscere i diritti del figlio di Elisabetta sui due ducati, quando però don Carlos fosse stato maggiorenne. La regina, dichiarando emancipato l'infante sedicenne, esercitò altre pressioni sull'imperatore anche con I'appoggio di un contingente spagnolo, sbarcato in Toscana nell'ottobre '31 da navi britanniche. Carlo VI si rese conto soprattutto che una flotta inglese ancorata a Livorno costituiva una minaccia per il napoletano e passo allo scioglimento delle ultime riserve.

Il 9 dicembre 1731 ebbe luogo nel gran salone di corte, a Parma, la solenne consegna dei ducati nelle mani di Dorotea Sofia, reggente e tutrice dell'infante, assistita dal plenipotenziario di Toscana come contutore. Prestarono giuramento di fedeltà al nuovo sovrano i feudatari ei rappresentanti di tutte le diciassette comunità dello Stato. Quindi consegna delle chiavi della città alla duchessa, distribuzione di medaglie d'argento con l'effigie di don Carlos e alla sera gran ballo e banchetto di gala a palazzo.

L'infante nell'ottobre dell'anno dopo era a prendere possesso di Parma e Piacenza. Il giovane, descritto dai contemporanei di bell'aspetto, forte, vivace e di pronta intelligenza, piacque alla popolazione. Si dice che mamma Elisabetta versasse lacrime di gioia a ogni sua lettera, sentendolo così ben sistemato nella vecchia provincia natia. Considerate dal nostro punto di vista erano lacrime di coccodrillo: la signora e il suo rampollo non ci risparmiarono una delle maggiori spogliazioni che la città abbia subito. Col pretesto di proteggere da rapine eventuali un patrimonio artistico e archivistico di grossa importanza, ne ordinarono l'espatrio. Don Carlos lo imballò in gran fretta dirigendolo via Napoli, dove è rimasto fino ai giorni nostri. Quattrocento fra quadri e statue, e inoltre gioie, medaglie, tappezzerie, mobili, il museo di storia naturale, la biblioteca (almeno 13.000 volumi e piu di mille manoscritti), l'intero e importantissimo archivio. Scriveva Charles de Brosses da Napoli in una lettera del novembre 1739: [...] i mirabili quadri della famiglia Farnese, che sono stati trasportati qui! ma questi barbari di spagnoli, che per me sono come i goti moderni, non paghi di averli strappati mentre li rubavano dal palazzo di Parma, li hanno lasciati per tre anni su una scala cieca, dove tutti andavano a pisciare, Sissignore, pisciare su Guido [da Siena] e sul Correggio.

In seguito ebbero piu degna sistemazione, ma il trasloco fu uno scempio. Le cause risalivano alla guerra di successione polacca: Francia e Spagna contro Austria e Russia. Elisabetta si metteva avanti per dare una posizione agli altri suoi figli: uno sarebbe andato sul trono di Polonia, oggetto della contesa, mentre per il dodicenne Filippo pensava alle due Sicilie e per don Luigi, di sei anni, ai Paesi Bassi. Carriere precoci e pianificate. Don Carlos, diciassettenne, sospinto dalle ideazioni materne, era partito da Parma i primi di febbraio del 1734, alla testa di un esercito che entra a a Napoli nel maggio. Pochi mesi dopo, davanti a Parma, truppe francesi e di Sardegna (passata ai Savoia si scontrarono con gli imperiali per nove ore, una battaglia che fece migliaia di morti e un'infinità di feriti. Il fatto ebbe un celebre testimone Carlo Goldoni ventisettenne, che sostava in viaggio per Modena, dove abitava la madre.

Giunto a Parma il 28 giugno, vigilia di San Pietro nel 1734, giorno memorabile per quella città, andai ad alloggiare all'osteria del Gallo. La mattina un fracasso spaventoso mi sveglia. Esco dal letto, apro la finestra della camera, vedo la piazza piena di gente che corre da tutte le parti: si urtano, piangono, gridano, si disperano: donne portano in collo bambini; altre li trascinano sul lastrico. Si vedono uomini carichi di gerle, di panieri, di bauli, di involti; vecchi che cadono, malati in camicia, carrette che si rovesciano, cavalli che scappano: <>, mi domando: <>. Infilo la casacca sulla camicia, scendo di corsa, entro in cucina. domando, chiedo, nessuno mi risponde. L'oste raduna l'argenteria; sua moglie, tutta scarmigliata, tiene in mano uno scrigno, e panni nel grembiule; faccio per parlarle, mi sbatte l'uscio ed esce correndo.

Il terrore di un'invasione della città era tale che la popolazione stava per darsela a gambe. Quando però fu chiaro che l'esito del combattimento si giocava fuori, molta folla si radunò sulle mura come a teatro:

Ci corsi anch'io: non è possibile vedere una battaglia più da vicino: il fumo impediva spesso di distinguere bene le cose, ma era pur sempre uno spettacolo rarissimo. di cui assai pochi possono vantarsi d'aver goduto.

Purtroppo questo fu soltanto il primo e meno spaventoso atto del dramma:

Uno spettacolo ben più orrendo e disgustoso mi si offrì alla vista l'indomani nel pomeriggio. Erano i morti che nella notte erano stati spoliati, e che si diceva ammontassero a venticinquemila [la storia dice diecimila, anche meno]; erano nudi e ammucchiati; si vedevano gambe. braccia, crani e sangue dappertutto. Che carneficina! I parmigiani temevano che l'aria si infettasse, data la difficoltà di sotterrare tutti quei cadaveri massacrati; ma la Repubblica di Venezia che è quasi Iimitrofa al parmigiano, e che era interessata a mantenere la salubrita' dell'aria, spedì calce in abbondanza per fare scomparire tutti quei cadaveri dalla faccia della terra.

Dieci anni più tardi Goldoni tornò a Parma. Incaricato di scrivere delle commedie, una ne compose, La guerra, ricordando l'assedio del quale era stato spettatore, ma voltando ogni orrendo ricordo in burletta, inventando un'azione che, a giudizio dello stesso autore, <<è più comica che interessante>>. I cosiddetti interessi superiori lasciavano ricordi troppo tristi. A ogni buon conto, la vittoria dei gallo-sardi non impedi' che in seguito tornassero anche se per breve tempo gli austriaci, e quindi la palla passasse ai perdenti che diventavano vincitori. Alla fine il ducato, con l'aggiunta di Guastalla, già possedimento di Ferrante Gonzaga, che si rendeva libera per l'estinzione della famiglia, tocco a don Filippo, essendo Carlos ormai divenuto un Carlo di Napoli. La regina loro madre aveva continuato imperterrita a cercare nuove strade in favore della prole. Ottenuto il cappello cardinalizio per il figlio don Luigi, un fanciullo di appena otto anni, scoppiata la guerra di successione austriaca, ne approfittò per conquistare anche al figlio Filippo un trono nella sua patria italiana. Era riuscita a1tresì a dargli in moglie la primogenita del re di Francia, Louise Elisabeth (Luisa Elisabetta quando fu parmigiana), che aveva appena dodici anni. Il matrimonio avenne il 26 agosto del '39, per procura, e Parigi conobbe una serie di festeggiamenti goderecci, anche popolari. Dopo di che la sposa bambina partiva per Madrid con un folto seguito di servitori e soldati, sulle duemila persone. Il primo di numerosi viaggi su carrozze traballanti, ai quali sottopose le sue forme chiamiamole imbottite.

Don Filippo, a ventun anni, nella primavera del 1741 era a capo dell'armata nella lotta condotta dalle due monarchie borboniche contro gli austrosardi, stavolta alleali. Sette anni il giovane visse sul campo, dove pare non si coprisse troppo di gloria, lontano dalla patria e dalla sposa che continuava a ingrassare (e la suocera Elisabetta pare gongolasse di quell'isolamento e della floridezza), finchè il trattato di Aix La Chapelle (Aquisgrana), nel 1748, non gli assicurò il ducato parmense. La madre Elisabetta, rimasta vedova due anni prima, e perduta la sua influenza politica, malvista assieme ai figli dal nuovo re Ferdinando, non incontro piu Filippo, al quale era molto legata. La sua corrispondenza con lui, mentre era ancora nell'esercito, conta pagine di finezza intima. Sono lettere piene di sincerità, di tenerezza, mentre ormai la prima vecchiaia avanza e le turba i sonni. Teme per il suo Filippo, che era tutto sommato un buon ragazzone; ogni pericolo vero o immaginario la mette in ansia, inquietudini inspiegabili l'assalgono, insieme ai malanni della salute che attribuiva all'eccessivo lavoro. Comunque la mente rimaneva pronta, il carattere vivo, dai teneri affetti alla collera. anche quando in vecchiaia la perdita della vista ne ridusse alquanto le facoltà.