LA CRESCITA ECONOMICA

LA CRESCITA ECONOMICA

Fra il 1950 ed il 1975, il PIL dei principali paesi industrializzati si triplicò; per contro, i paesi poveri divennero, se possibile, ancor più poveri: questo fu il costo del “boom” economico.

Tuttavia, non si può andare contro la storia, né contro le leggi di mercato: la prima ci insegna che la decolonizzazione ha gettato molte ex colonie nell’abisso di feroci guerre civili o, nel migliore dei casi, nelle braccia di dittature del tutto disinteressate ai destini del proprio popolo, mentre la seconda, confucianamente, ci ricorda che non basta regalare un pesce ad un affamato, se si vuole risolvere in modo definitivo il problema della sua sopravvivenza: bisogna insegnargli a pescare!

Solo che, in questo caso, insegnare ai paesi del terzo mondo a pescare avrebbe significato crearsi la concorrenza da sé: e nessuno che abbia dimestichezza con l’intrapresa farà mai questo errore; figuriamoci gli americani!

CosÏ, la crescita economica, che durò ininterrottamente per venticinque anni, riguardò solo i paesi occidentali, cui dobbiamo aggiungere il Giappone, benché la via giapponese al capitalismo contenga elementi peculiari, ideologici prima che economici, assai difficili da comprendere da parte nostra.

Questi paesi, nel 1961, diedero vita ad un organismo votato a proseguire l’opera dell’OECE in termini di sviluppo del commercio mondiale, l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), che vide la partecipazione dei paesi dell’Europa occidentale, degli USA, dell’Australia, della Nuova Zelanda, del Canada e del Giappone.

Le ragioni di questo vero e proprio "boom" sono molte: certamente l’aumento della popolazione (baby boom) fu uno dei motivi di questo fenomeno; le nascite, sull’onda dell’ottimismo, aumentarono, mentre le morti, grazie a nuovi farmaci, come gli antibiotici, diminuirono; e i nuovi cittadini avevano voglia di benessere, il che si traduceva in bisogni e, quindi, in consumi.

Gli scambi internazionali si perfezionarono e cominciarono a nascere agglomerati economici internazionali, in cui il libero scambio diventava assoluto, come il Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo) o la CEE (Comunità Economica Europea).

Un altro motivo di crescita consistette nel basso costo di materie prime e, soprattutto, del petrolio, che era la maggior fonte di energia al mondo; questo, almeno fino al rialzo dei prezzi del greggio, negli anni Settanta, determinò larghi margini di guadagno per l’industria occidentale.

Inoltre, si affermò definitivamente il concetto di deficit spending keynesiano, ossia la dilatazione del debito pubblico in ragione di continui e massicci investimenti statali in opere pubbliche ed infrastrutturali, che ebbe in Europa una forte valenza sociale, in termini sia di lotta alla disoccupazione che di attenzione per le esigenze dei cittadini: quello che ancor oggi si chiama (talvolta un po’a sproposito) Welfare State.

A lungo andare, questa dottrina avrebbe mostrato tutti i suoi limiti, giacché, un po’ alla volta, il debito pubblico avrebbe consumato il valore della moneta, per mezzo dell’inflazione.

Grazie al continuo investimento e reinvestimento in nuove tecnologie, la produzione industriale aumentò in efficienza, creando un legame sempre più stretto tra ricerca scientifica ed applicazioni tecnologiche; e se, dapprincipio, la maggiore produttività si dovette soprattutto ad un affinamento di dottrine di produzione a catena già note, a partire dagli anni Settanta vi fu una svolta tecnologica ed imprenditoriale (robotizzazione, strutture di marketing, informatizzazione) tale da giustificare la definizione usata da alcuni storici di terza rivoluzione industriale.

IL MIRACOLO ITALIANO

Come si sa, l’Italia, alla fine della guerra era un paese alla frutta: già prima della guerra eravamo un popolo prevalentemente di agricoltori e la nostra industria era arretrata, rispetto a quella delle grandi potenze economiche; nel 1945, quel poco che avevamo era a pezzi: le industrie erano gravemente danneggiate, l’inflazione galoppava e la gente non trovava lavoro.

Tuttavia, c’era in tutti una grande voglia di risollevarsi.

Il ministro Einaudi riuscì entro il 1947 a governare l’inflazione, con provvedimenti drastici, come l’aumento della pressione fiscale, la svalutazione, e la restrizione del credito, creando un paio di milioni di disoccupati; poi, la vittoria elettorale del centro moderato e liberista diede agli industriali il la per iniziare la propria espansione.

Tra il 1948 ed il 1951, il Piano Marshall portò in Italia aiuti per 1.300 mln di dollari, che, se per la maggior parte finirono in derrate alimentari, pure valsero ad iniziare a rappezzare le nostre industrie.

Una volta iniziata la crescita economica, l’Italia stupì il mondo, mantenendo per più di vent’anni un incremento medio annuo del PIL intorno al 5,7%; in questi vent’anni la fisionomia del Paese mutò radicalmente: innanzi tutto, la maggioranza degli italiani passò dall’occupazione nell’agricoltura a quella nell’industria; inoltre, questa industrializzazione frenetica portò ad una crescente richiesta di manodopera, con un flusso di milioni di contadini meridionali al Nord, allo scopo di trovare impiego nelle grandi fabbriche del triangolo industriale, con un totale stravolgimento della geografia umana dell’Italia.

Le ragioni di questo miracolo economico non sono poi tanto complesse e, sono le stesse della maggior parte dei miracoli economici degli ultimi trent’anni: il basso costo della manodopera e, perciò, la competitività delle esportazioni.

L’Italia produceva beni durevoli (le Fiat, per esempio) a basso costo, che venivano esportati in paesi più ricchi, in cui il costo della manodopera era considerevolmente maggiore e dove, perciò, i prodotti italiani risultavano assai convenienti.

Naturalmente, chi pagava il prezzo di questo miracolo economico erano gli operai, che, grazie ad un stipendio sensibilmente inferiore a quello dei loro equivalenti tedeschi o francesi, permettevano di mantenere i prezzi dei prodotti a livelli molto più bassi di quelli della concorrenza internazionale: il miracolo cominciò a perdere colpi quando, alla fine degli anni Sessanta, gli operai iniziarono a scendere in piazza.

LA FINE DEL LIBERISMO ITALIANO

Lo Stato italiano non poteva, obiettivamente, mantenere un atteggiamento liberista in un Paese come il nostro: troppi interessi sotterranei, troppi dissesti, insomma, troppo disordine.

Così, poco a poco, lo Stato divenne interventista, prendendo ad occuparsi sempre più attivamente dell’impresa nazionale.

Nel 1950 fu creata la Cassa per il Mezzogiorno: un carrozzone mangiamiliardi con l’obiettivo teorico di favorire lo sviluppo del nostro Meridione, e di cui non vale la pena di parlare, se non per dire che fu un baratro che ingoiò milioni di miliardi dei quali solo una piccolissima parte giunse ai beneficiari, ossia alla gente del Sud: il resto rimase nelle tasche dei soliti, noti ed ignoti, fino allo scioglimento di questo ente di "intervento straordinario", che sopravvisse fino al 1983!

Fu rilanciata la mussoliniana IRI, che nel 1952, col piano Sinigaglia (presidente di FINSIDER), prese le redini della siderurgia italiana, grazie ai tre megaimpianti di Bagnoli, Piombino e Cornigliano: un po’ alla volta, l’IRI allungò i suoi tentacoli su tutti i settori dell’economia nazionale, grazie alla guida illuminata di uomini del calibro di Romano Prodi e diventando anch’essa un carrozzone pieno di grands commis di stato: i cosiddetti "boiardi", che ancora oggi infestano lo scenario economico nazionale.

Risale, invece al 1953 la fondazione dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), nato per garantire all’Italia l’approvvigionamento energetico.

Il presidente dell’Eni, Enrico Mattei, fece, in realtà molto di più: con una politica spregiudicata e, spesso, strizzando l’occhio a regimi ufficialmente nostri nemici, egli riuscì ad ottenere vantaggiosi contratti di sfruttamento petrolifero, a tutto danno delle famigerate Seven Sisters, ossia il cartello dei massimi produttori di benzine del pianeta.

Questo gli costò la pelle, giacché il suo aereo personale esplose nel cielo di BescapË, dando inizio ad un caso che ancora oggi appassiona e che non Ë stato mai risolto (forse perché bisognerebbe andare a scavare tra i rapporti mafia-politica-Stati Uniti, e non sarebbe carino!).

Nel 1956, allo scopo di gestire le moltissime industrie in cui, ormai, lo Stato aveva una sua forte rappresentanza, nacque il ministero delle Partecipazioni Statali, mentre le società con capitale pubblico furono raggruppate in enti autonomi di gestione, che, oltre alle già citate IRI ed ENI, furono, tra il 1958 ed il 1971, l’EAGAT, l’EGAM, l’EFIM e la GEPI.

Se si può pensare che, almeno all’inizio, il fine di questa massiccia presenza dello Stato nell’impresa fosse quello di garantire uno sviluppo compatibile con lo stato sociale, davvero possiamo dire che, in breve, questo controllo divenne ingerenza, il cui fine ultimo sarebbe stato quello di consolidare un potere politico e clientelare, oltre che, come ben sappiamo, quello di finanziare illecitamente i partiti.

Nel 1962, infine, fu nazionalizzata l’industria elettrica e nacque l’ENEL.

In tutto questo scenario, si andò ad inserire il problema dello sviluppo del Mezzogiorno: oltre alla già citata Cassa, lo Stato azzardò alcuni tentativi di intervento, che fallirono miseramente.

Uno di questi fu, certamente, la riforma agraria messa in atto, nel 1950, da De Gasperi: si trattava, in pratica, di una parcellizzazione di terre espropriate, che, divise in fondi assai piccoli, venivano assegnate a contadini bisognosi.

Di fatto, questi fondi erano troppo piccoli per sopravvivere con le proprie forze, ed essi si trasformarono, ben presto, in sacche di assistenzialismo statale.

Quando il boom economico stava galoppando, si cominciò, inoltre, a parlare di Poli di sviluppo: in pratica, l’idea era quella di cominciare l’industrializzazione del Sud costruendo colossali poli industriali in zone ben delimitate; questi poli avrebbero determinato poi, per via dell’indotto, lo svilupparsi di una rete capillare di imprese minori.

Nacquero così i grandi complessi petrolchimici meridionali, come quelli di Gela o di Crotone, per esempio: tra il 1950 ed il 1970 lo Stato gettò nel progetto dei Poli di sviluppo la bella cifra di 21.000 mld (di allora).

L’idea, non sarebbe parsa barbina, se non ci fosse stato l’insignificante problema dell’assenza totale di quelle infrastrutture che permettono ad una regione di svilupparsi industrialmente; questo i privati lo sapevano benissimo, infatti, a fronte di enormi investimenti statali, essi si guardarono bene dall’imbarcarsi in un’impresa votata al fallimento: i Poli di sviluppo vennero ribattezzati "cattedrali nel deserto" ed il divario tra l’economia del Nord e quella del Sud, anziché diminuire aumentò.

Quando, nel 1971, il presidente americano Nixon ordinò la sospensione della convertibilità del dollaro, cancellando, di fatto, gli accordi di Bretton Woods, l’Italia era un paese completamente diverso da quello uscito malconcio e disperato dalla seconda guerra mondiale.

Avevamo avuto il boom economico, è vero; ma avevamo scoperto nuovi aspetti inquietanti della nostra civiltà: il consumismo, l’esterofilia, la speculazione edilizia

e, dietro l’angolo, ci sarebbe stata la dura resa dei conti, con l’esplosione di tutti i malesseri sociali rimasti a covare negli anni della grande illusione: iniziava la stagione caldissima degli anni di piombo!