Il delitto Matteotti

Il deputato socialista venne rapito il 10 giugno 1924 nelle vicinanze di casa mentre, percorrendo il Lungotevere, stava andando verso il Parlamento. Dopo averlo picchiato mortalmente gli uomini del commando della Ceka lo caricarono in macchina e partirono a tutta velocità verso la periferia di Roma. Circa due mesi dopo il cadavere venne trovato, malamente sepolto, in un'area seminascosta da una fitta boscaglia. Nessuna traccia, accanto ai resti, della borsa piena di documenti che Matteotti aveva con sé al momento del sequestro. In quella borsa c'era la batteria di prove che avrebbe dovuto disgregare il sistema fascista, un sistema ancora gracile che si reggeva sui fragili pilastri degli imbonimenti mussoliniani. C'erano le prove che il regime fascista stava in piedi anche e soprattutto con l'aiuto della corruzione, che i suoi uomini si arricchivano truffando lo Stato, incassando jugulatorie tangenti. Il Pnf, il partito nazionale fascista, esigeva parte dei proventi ("succhiati" ai big della finanza e dell'industria che in cambio ricevevano favori e appalti), per finanziare le federazioni che stavano sorgendo in tutta Italia, i quotidiani fiancheggiatori, e, ultime ma vicinissime al cuore del duce, le clientele di fedelissimi che avevano ben meritato prima, durante e dopo la marcia su Roma e tuttora meritavano per ragioni che erano ai limiti o fuori della legalità. Tipico esempio la Ceka, un manipolo di criminali superpagati. Gli scandali ad alto potenziale distruttivo che minacciavano il regime erano soprattutto due: la sistematica truffa ai danni dello Stato rappresentata dal traffico dei residuati bellici e l'operazione Sinclair Oil con la quale Mussolini tentò di dare in concessione esclusiva i diritti per la ricerca petrolifera in Italia al gigante Usa Standard Oil. Il che, come appare ovvio, rappresentava un danno incalcolabile per il nostro Paese. Brevemente vediamo i particolari di queste due vicende, una delle tante, dell'affarismo e della corruzione fascista. Quello dei residuati bellici era un business enorme: dopo la fine della guerra nei magazzini militari si erano accumulati ingenti quantità di armamenti, vestiario, scorte alimentari che lo Stato vendeva in stock ai privati a prezzi di "saldo". Sistema incriticabile se non fosse che molti dei blocchi più importanti venivano assegnati a prezzi irrisori, ulteriormente e benevolmente tagliati, a fascisti di provata fede che agivano o come teste di turco del regime o per sé. Un esempio per tutti, l'affare Amerigo Dumini, braccio destro di Cesare Rossi, capo ufficio stampa della Presidenza del consiglio e fidatissimo complice e collaboratore di Mussolini. Dumini, che poi diventerà il capo della Ceka e parteciperà all'assassinio di Matteotti, aveva messo in piedi un inghippo che gli aveva permesso di acquistare, per rivenderla alla Jugoslavia, una partita di alcune centinaia di migliaia di fucili, proiettili ed altre armi, avuti in assegnazione dalla Direzione d'artiglieria. Come aveva potuto un piccolo squadrista con quattro soldi in tasca comprare uno stock di armi che stava a malapena nella stiva di una nave da trasporto? Semplice. Era stato finanziato da Alessandro Rossini, amministratore delegato della Banca adriatica di Trieste. "Dal contratto veniamo a conoscere - scrive Mauro Canali - che si trattava del solito sistema a trucco. Dumini si accaparrava il contratto che poi cedeva a Rossini e costui si impegnava a versare a Dumini la cospicua somma di un milione e mezzo (per quei tempi cifra astronomica, ). L'affare appariva abbastanza grosso per credere che Dumini stesse lavorando in proprio. Stabilire tuttavia per chi Dumini stesse agendo non è impresa facile anche se tutti gli indizi conducono agli alti livelli del regime fascista".