Francesco, Elisabetta e l'Alberoni

Francesco

Francesco

Intorno le truppe imperiali continuavano a brucare, le maledette, spolpando le fortune dei sudditi ducali, ormai disseccate. Anche la corte scuoteva inutilmente il salvadanaio e, oltre ai debiti con banche genovesi. gli argenti del casato (e in parte della nobilta') erano impegnati alla zecca di Milano. i gioielli al Monte di Bologna (una delle tante cime che questi nostri antenati frequentavano per poco salutari ascensioni, fitte di chiodi). Come spesso in tempi di vacche magre, occorreva mungere fino all'ultima goccia. Pur di liberarsi dalle truppe d'occupazione, il nuovo duca Francesco, diciassettenne secondogenito del defunto, accettò di sborsare denari a più non posso, chiamando all'appello tutte le classi sociali, compresi stavolta gli ecclesiastici. Tra le tasse, quella assai forte sulle parrucche e su un nuovo ornamento da testa alla francese, per le donne, alto mezzo braccio, in uso da diversi anni, composto di nastri, veli e pizzi, fiori, gioie e capelli finti, chiamato <<bonetto>> o <<zuffo>> e da altri spiritosi <<mitra episcopale>>.

Franceschino succedeva al fratello Odoardo, scomparso nel '93. Ranuccio due si era sposato ben tre volte e aveva avuto dodici figli. La prima moglie, Margherita Violante, figlia di Vittorio Amedeo I di Savoia, era morta senza prole nel '63. L'anno successivo il duca era passato a seconde nozze con la cugina Isabella d'Este, che lo lasciò vedovo ben presto, tanto che nel '68 egli era già ammogliato con la sorella della defunta, Maria d'Este, la madre di Francesco. Ogni cerimonia nuziale era stata, come è immaginabile, accompagnata da festeggiamenti tanto pomposi quanto dispendiosi.

Stangate di tasse e provvedimenti contro il lusso accompagnarono invece nel 1695 gli sponsali di Franceschino con la cognata Dorotea Sofia di Neuburg, la vedova di Odoardo. Benchè più anziana del secondo marito di otto anni, la sposa, che Francesco aveva impalmato secondo la volonta espressa dal duca padre in punto di morte, manteneva comunque in equilibrio il bilancio e insieme un legame non indifferente con l'Austria. Un matrimonio ben diverso dal primo del 90, senza feste grandiose, celebrato in casa, fra parenti, per evitare la restituzione della ricca dote in caso Dorotea passasse ad altre nozze. Sempre per incrementare il regime di austerità, il duca soppresse molte inutili cariche di corte, licenzio musici, nani, buffoni e per sovvenire ai piu' indigenti importò alcune partite di grano vendendolo sottocosto.

Ma i fastidi continuavano. A nulla erano valse le laute mance elargite alle truppe imperiali perchè si levassero di torno: ormai la politica internazionale la faceva da padrone e i soldati di prima tornarono, sempre al comando del principe Eugenio di Savoia. Era accaduto che, morto nel 1700 Carlo II, re di Spagna, Filippo d'Angiò nipote di Luigi XIV di Francia, fu proclamato re a Madrid col nome di Filippo V e, al principio del 1702, era di nuovo guerra, una lite fra Spagna e Francia contro Impero e alleati, a causa di quella benedetta successione spagnola. Un Borbone saliva a un vertice dove si congiungevano due corone, e questo suonava come un'ingiustizia per gli altri accaparratori d'Europa. Il duca nostrale, dopo aver protestato invano la sua neutralità, si ridusse a far presidiare le case del contado da soldati a cavallo, invocando, quale feudatario della Chiesa, aiuti e difesa dal papa Clemente XI.

Truppe papaline occuparono Parma e Piacenzae innalzarono le insegne pontificie tra il giubilo popolare. Assai meno giubilante era il Farnese. Nel 1706 si impegnava a pagare ottantacinquemila doble di Spagna per il mantenimento delle truppe tedesche. Il papa disapprovò, ventilando la scomunica per gli invasori del ducato. Rispose con un manifesto l'imperatore Giuseppe I d'Absburgo, rivendicando i diritti dell'Impero e del ducato di Milano sopra gli Stati di Parma e Piacenza, lagnandosi che la curia romana mescolasse le spirituali armonie alle disarmonie puramente mondane: vecchie, vecchissime storie.

La sostanza del discorso era che le quotazioni del ducato continuavano a scendere. Se non interveniva un colpo d'ala. un aiuto fortunato, la storia andava troppo oltre le sorti di un piccolo Stato. Lo stesso presidio militare papalino non faceva che indisporre gli imperiali contro il duca, al quale il principe Eugenio scriveva da Luzzara il 12 marzo 1702: <<non conosco, come ho detto altre volte, che il signor duca di Parma padrone di cotesti Stati e non altri>>. Francesco per parte sua cercava di destreggiarsi fra i belligeranti, tenendo propri commissari segreti presso i comandi generali, affinchè facessero sentire in ogni circostanza la voce, o meglio il bisbiglio, del loro padrone. Trasse anche vantaggio da un paio di coincidenze. Quando nel febbraio del 1702 subentrò in Lombardia, al comando dei galloispani, il duca Louis Joseph de Vendome, Francesco inviò a complimentarlo in suo nome il vescovo di Borgo San Donnino conte Alessandro Roncovieri, letterato distinto, autore di un lavro sul regno di Luigi XIII. Per intercessione del vescovo, Vendome acconsentì a tener lontana la guerra dal territorio parnense. Incoraggiato da questa accoglienza, Francesco, saputo dell'arrivo a Cremona del nuovo re di Spagna Filippo V, s'affrettò a recarsi con gran seguito a ossequiarlo. Narra un cronista anonimo che il duca partì ai tre di luglio da Piacenza, imbarcandosi con i principali cavalieri del suo seguito nel Po, su di un bucintoro <<tutto al di fuori dorato e coperto di velluto cremisi, al di dentro trinato d'oro>>, seguito da seicento e più persone della sua corte su vari bucintori. Colmato di onori e di cortesie da Sua Maesta cattolicissima, ritorno a Piacenza il 9 luglio con la brillantissima sua corte, tutti quanti compiaciuti delI'accoglienza.

Ma ecco l'uomo del destino. a sua volta talent-scout di singolare fiuto. Durante questi contatti, si fece notare un giovane prete piacentino, al seguito del vescovo di Borgo, tale Giulio Alberoni nato a Piacenza nel 1664, da umili natali. Mal squadrato nella persona, ma di temperamento gioviale, dal viso simpatico ed espressivo, si guadagno l'amicizia degli alti uff1ciali e soprattutto la protezione di Vendome. Mentre era capace di trascorrere lunghe giornate a cavallo, per studiare le operazioni di guerra insieme al comandante, altrettanta efficienza dimostrava nel rifornire di formaggi, salumi e vini le mense dei comandi e sapeva stare lui stesso ai fornelli. Scrive in merito a queste promozioni cameratesche e culinarie il Bernini: <Sotto la scorza popolaresca e servile, quest'uomo, il quale pure non celava il disprezzo per quanti doveano la fortuna alla nascita aveva forte ingegno e grandi disegni. Egli teneva fedelmente informato il suo duca sul corso della guerra e sui maneggi della politica>>.

Il duca Francesco gli dette il titolo di conte e lo nominò suo residente alla corte di Spagna dove, morto il Vendome, entrò nelle grazie d una anziana dama, Anna Maria Orsini, vedova de] principe romano Flavio, camarera mayor della regina Luisa Maria di Savoia, moglie di Filippo V, e per questo assai influente sugli urnori del vedovo, sensuale e nevrotico. Morta la regina in giovanissima età, I'Alberoni e la Orsini manovrarono perche il sovrano chiedesse in sposa Elisabetta Farnese, figlia unica di Odoardo e di Sofia di Neuburg.


Elisabetta

Elisabetta

La ragazza veniva descritta come una buona pasta, di aspetto e carattere pacifici, allevata alla casalinga e avvezza a non sentirsi parlare che di merletti, ricami e telai nella piccola, sopita corte dello zio e padrigno Francesco. L'Alberoni sapeva di più, ma lo nascose, non disse che Elisabetta era colta e studiava forte, che parlava varie lingue, che non mancava affatto di acutezza e ingegno, e che forse aspettava il suo momento con molta determinazione. Era bene che queste qualità venissero fuori dopo il matrimonio, non prima: il volpone Alberoni infatti aveva fatto credere alla Orsini che la promessa era una pacioccona e sarebbe stata totalmente ai consigli, per non dire alle dipendenze di lei, sola vera sostituta della defunta regina, almeno per le faccende amministrative e politiche.

Gli sponsali furono celebrati a Parma il 1 settembre 1714 per procura e con un fasto altisonante. Come dar torto a Francesco, che vedeva riapparire il sereno dopo tanta tempesta? La nipotina e figlioccia Elisabetta, coi suoi ventidue anni freschi, ben messi e coltivati, stava per portare al tavolo delle grandi nazioni il formaggio parmigiano. E lo fece desiderare, diciamo. Il suo viaggio verso la Spagna durò tre mesi, un pò per gli impedimenti della navigazione - che Elisabetta dovette abbandonare, causa il mare grosso, scegliendo il tragitto via terra - e un pò per calcolo. Quando arrivò tra le braccia dell'impaziente Filippo, ottenne il successo previsto, lo sommerse, lo ubriaco' con le sue carezze, la sua invadente sensualità, non prima di aver licenziato e allontanato con la forza la principessa Orsini, che non voleva rinunciare al proprio ruolo dominante.

In tempi brevissimi la sposa divenne la guida del debole, ormai quasi folle consorte e cominciò a cantar vittoria. Lo stesso Alberoni si meravigliava della sua intraprendenza: <<Ella è scaltra come una zingara, e non so dove abbia appreso tutto quello che va dicendo e facendo, quando considero avere solo ventidue anni, allevata fra quattro muraglie, senza praticar persone>>.

Secondo la descrizione del principe di Monaco, la sposina, cuor di lombarda, animo di fiorentina (sua bisnonna era stata pur sempre una Medici), sapeva quel che voleva, e <<fortemente>>, anche perche la natura le aveva donato un fisico e un carattere appropriati a comandare e a dissimulare (qualcosa le avrà pur dato anche la germanica mamma Sofia). La complessione era delle migliori e le permise infatti di superare un'epidemia di vaiolo che devastò il piacentino nell'invemo del 1710:

Essa è di media statura, molto bene fatta della persona. Il suo volto lungo anzichè ovale e sul quale il vaiol ha lasciato le sue tracce senza deturparlo, ha una nobile espressione. I suoi occhi sono celesti non grandi, ma belli e lanciano vivacissimi sguardi: la bocca un pò troppo larga e abbellita da denti stupendi, che mostra sovente nel grazioso suo sorriso. La sua voce è dolce, sa dire a tutti cose gentili, che le vengono spontanee alle labbra e che sembrano dettate dal cuore. Ha passion per la musica, dipinge con maestria, monta bene a cavallo.

Una scaltrezza e soprattutto un'esperienza impreviste e inspiegabili, che del resto facevano il paio con quelle, altrettanto a sorpresa, dell'Alberoni. I due si misero di buona lena a riformare lo Stato spagnolo e favorirono molti italiani. Anche l'Alberoni ebbe il suo meritato avanzamento nel '17 quando, per ovvia pressione di Elisabetta, il papa gli concesse la porpora cardinalizia. Da un anno era diventato primo ministro del regno, imitazione dei Richelieu-Mazzarino. Naturalmente a Parma esultavano. Francesco Farnese addirittura sognava nuove glorie, degne del suo stemma. D'accordo segretamente con la nipote figlioccia, inviava dispacci all'Alberoni per indurre gli spagnoli a prendere le arni contro l'Austria, che allungava le mani sulla Toscana e con ciò <>. Il duca consigliava un attacco via mare sulle coste toscane o del napoletano. L'intento era chiaro: i Farnese miravano ad assicurare ai figli di Elisabetta Il trono di Parma e della Toscana. Alberoni, assai allarmato per le conseguenze degli ambiziosi programmi, arenò finchè gli fu possibile la spedizione. Quando a corte prevalse il partito guerrafondaio, capeggiato dalla regina, si adopero' per deviare lo sbarco dall'Italia e invadere piuttosto la Sardegna, gia' colonia spagnola, da poco territorio austriaco, più facile da conquistare. Il duca Francesco cercò di far dirottare la flotta contro Napoli, non solo per colpire ai cuore i possedimenti austriaci nella penisola, ma per aver più vicini alla Toscana i fedeli reggimenti spagnoli; Alberoni tuttavia non toccò il timone. In gran segretezza le navi di Filippo levarono le ancore da Barcellona con ottomila marnes in pieno assetto di guerra e il 22 agosto del '17 erano davanti a Cagliari, conquistando l'isola in breve tempo.

Fu un sasso in piccionaia. A Vienna si gridò al tradimento, e l'eco arrivo' in tutte le capitali, tra la maggiore indignazione. Non meno costernato papa Clemente Xl che, ingannato dai Farnese, aveva stanziato fondi per 1'armamento della flotta spagnola, convinto che sarebbe stata impiegata contro i turchi, sui quali l'esercito austriaco, al comando del <> Eugenio di Savoia, otteneva in quei giorni grandi successi. Di conseguenza il pontefice aveva assicurato l'imperatore che durante la guerra non si sarebbero compiute ostilità contro i possessi austriaci in Italia. Dopo il pasticcio sardo, anche il successore di Pietro veniva giudicato, quantomeno a Vienna, un mentitore legato mani e piedi al carro spagnolo. D'altronde a Roma le accuse colpivano invece l'ingratitudine e la malafede dell'Alberoni, sotto il manto del quale si rifugiava impaurito più che mai il consigliere dell'intera operazione, Francesco. Il cardinale ormai era in ballo. Per salvare l'onore del re e per accontentare i Farnese, diede il via al secondo atto delle operazioni militari, persuaso anche di adempiere a una missione: <>, scriveva con tono ispirato. Il 16 giugno 1718 la flotta spagnola, forte di cinquecento navigli, salpò da Barcellona diretta in Sicilia, anch'essa vecchio dominio di Spagna, che ora apparteneva ai Savoia e poteva essere conquistata e tenuta con facilità. Ma la riuscita della spedizione non consisteva soltanto neIl'uso delle armi. L'occupazione di Palermo irritò non poco le corti europee. L'Inghilterra, che guardava con astio il ritorno dell'armada, l'aggredì e la distrusse quasi completamente un paio di mesi dopo.

Alberoni, poichè i Farnese non volevano la pace, tentò di scuotere le piccole potenze italiane, chiedendo almeno di compiere reclutamenti nei loro Stati, ma ovunque gli voltarono le spalle. Fu allora, nel gennaio del '19, che scrisse indignato al ministro di Parma:
Già vedo che il Re mio signore non può fare il minimo fondamento su gl'italiani avviliti fra l'ozio e la poltroneria; nè ora vi è più chi pensi che altre volte si sono fatti i Vesperi Siciliani, di maniera che hanno ragione i barbari [gli austro-tedeschi] di dire che uno dei loro reggimenti basta per assoggettare una provincia .

E finiva sul registro acuto: Cotesta è una miserabile ed infingarda nazione degna d'essere trattata come schiava e ricolmata d'obbrobri e di sciagura. Così succederà .

L'invettiva era degna di stare in bocca al Melitone della spagnolesca Forza del destino, un pò in anticipo nell'epoca, ma non nello spirito e nella cornice. Faceva meglio a dire che tutto ciò in Italia era gia' successo, e non per colpa soltanto dei tedeschi. Intanto la temperatura saliva. Le potenze straniere, riunite nella Quadruplice Alleanza, si coalizzarono non tanto contro il sovrano spagnolo, quanto contro il ministro cardinale. I sovrani raccolsero la sfida. La regina, mentre il re, attaccato da improvvisa depressione, fuggiva in solitudine, si sforzava di sostituirlo agli occhi dell'esercito. A cavallo con le sue brave pistole all'arcione, passava in rivista le truppe. Ma la bella amazzone non poteva più di tanto. La Quadruplice avanzava, il duca di Parma, piuttosto preccupato, inviava a Madrid come consigliere di pace il marchese Annibale Scotti, ben visto dalla regina. Costui non ci mise troppo a raccogliere elementi utili e ne informò il proprio ducale governo: le potenze alleate erano disposte a concludere una pace equa, se l'Alberoni fosse collocato a riposo. Iontano dalla Spagna

. La risposta ducale non tardò ad arrivargli. A lui il ministro delle finanze conte lgnazio Rocca scriveva: <>.

Amahile riconoscenza e soprattutto amore per la verità. Scotti portò a termine la sua opera di persuasione e il 5 dicembre dello stesso 1719 Filippo V ed Elisabetta lasciarono la capitale per una battuta di caccia al lupo. Nel partire, mentre indossavano le pellicce necessarie ad affrontare il viaggio, fecero recapitare al loro ministro un biglietto di congedo: lasciare immediatamente il ministero, partire da Madrid entro otto giomi, uscire dalla Spagna entro tre settimane.

Il cardinale provò a farsi ricevere dallo Scotti, che lo ignorò; provò col re, al suo ritorno di prode cacciatore; ma Filippo gli negò l'udienza. Cosi pensò bene di lasciare il paese assai prima della scadenza concessa, forse per evitare brutti incontri. Elisabetta ne dava annunzio allo zio patrigno: <>.

Anche lei un fior di gratitudine, la fanciulla, verso chi era stato l'artefice primo della sua fortuna. Ma bisognava sbarazzarsi di lui, non tanto perche fosse un cervello diabolico, anzi perchè non aveva avvertito in tempo la dinastia che avrebbe dovuto mettersi quieta, spegnere le ambizioni e non mettersi contro gli imperi di mezzo mondo. Ma Alberoni tenne duro proprio per compiacere la razza Farnese, e così ci rimise il cotto e il crudo, travolto dalle arie ripicche dei potenti europei.

Ebbe in seguito una riabilitazione, ma non resse più le redini di un regno. Morto il papa scottato dalle vicende spagnole, Clemente XI, il successore Innocenzo Xlll riportò a galla il reprobo, che si attirò la simpatia anche di Benedetto XIV, il nuovo successore. E infine scrive Bernini:
Ricordando gli stenti della propria misera giovinezza volle offrire, come ultima opera (la più degna), ur Istituto di studi ai giovani piacentini, di onesta e povera famiglia, che manifestassero vocazione ecclesiastica. Giovandosi delle poche rendite dell'antico Ospedale dei lebbrosi di S. Lazzaro. innalzò presso Piacenza il grande Collegio. che porta il suo nome, e continua tuttora l'opera da lui volula..

Un benefattore dunque, tirate le somme. E se fossero stati sinceri, anche i suoi beneficati precedenti avrebbero dovuto riconoscergli un tal merito. Per prima Elisabetta, la tenace Elisabetta: nel congresso di Londra del 1718, confermato nella pace dell' Aia (1720), vennero accordati al suo primogenito don Carlos il granducato di Toscana e il ducato di Piacenza, in quanto essa era nipote del duca Francesco Farnese (privo di prole), e discendeva da Margherita dè Medici, la figlia di Cosimo II, che aveva sposato il primo Odoardo Farnese. Protestò il duca Francesco, protestò il papa Clemente XI, signore feudale di Parma, i quali non furono neppure interpellati.