Claretta Petacci
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Clara Petacci detta Claretta (Roma, 28 febbraio 1912 - Giulino di Mezzegra Como, 28 aprile 1945) - è nota per essere stata legata sentimentalmente dal 1932, fino alla morte, a Benito Mussolini, duce del fascismo italiano, del quale pare fosse innamorata fin da giovanissima. Quando iniziò la loro relazione, nel 1932, lei era sposata con il tenente dell'aeronautica Riccardo Federici (dal quale si sarebbe separata ufficialmente nel 1936); aveva al tempo vent'anni, mentre Mussolini ne aveva trenta più di lei.

Il duce era sposato con Rachele Guidi (Donna Rachele) ed aveva da poco concluso una lunga ed importante relazione con Margherita Sarfatti (donna della borghesia veneziana di origine ebrea); fu conquistato dalle sincere insistenze della Petacci, che avrebbe poi vissuto tutte le fasi finali della vita accanto a lui, nel trionfo e nella disfatta. Nel suo destino era infatti seguire fino all'ultimo, con fedeltà e dedizione, l'amato "Ben" (locuzione derivata dal nomignolo con cui chiamava il duce e che suscitò al tempo una cospicua produzione di facezie ed amenità).

Donna avvenente e di indubbio fascino, appassionata di pittura e con qualche aspirazione a divenire attrice cinematografica (la sorella Miriam riuscì in qualche modo a diventarlo), Claretta fu la fida compagna del capo del fascismo anche nei momenti più bui, e - si sostiene - non gli chiese mai di lasciare la moglie per lei. Travolta dagli eventi della seconda guerra mondiale, fu arrestata il 25 luglio 1943, alla caduta del regime, per essere poi liberata l'8 settembre, quando venne annunciata la firma dell'armistizio di Cassibile.

Il 27 aprile '45, durante l'estremo tentativo del capo del fascismo di espatriare in Svizzera per sfuggire alla cattura, fu anch'essa bloccata a Dongo da una formazione della 51° Brigata partigiana che intercettò la colonna di automezzi tedeschi con i quali il duce viaggiava. Da taluni si afferma che le sia stata offerta una via di scampo da lei ricusata decisamente. Tutto risultò vano poiché il giorno dopo, 28 aprile, dopo il trasferimento a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, i due furono giustiziati, si disse, dal capo partigiano Colonnello Valerio (al secolo Walter Audisio - in tempi recenti si è però più credibilmente attribuita l'esecuzione ad Aldo Lampredi, detto "il partigiano Guido"). Si è anche detto che la Petacci abbia provato a proteggere Mussolini con il proprio corpo: su quest'ultimo punto però non vi sono certezze, anche se un'eventuale siffatto estremo slancio sarebbe stato tutt'affatto coerente con il carattere della donna ed il tono della relazione, e occorre notare che l'evento in sé ben si presta ad una certa romanzatura.

Il giorno successivo, il 29 aprile, a Piazzale Loreto (Milano), i corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci furono esposti, assieme a quelli di altri quattro gerarchi fascisti, appesi a testa in giù al tetto di un chiosco di benzina della Esso, tra la folla inferocita che li fotografava ed esprimeva tutto il proprio rancore.

La figura e la vita di Clara Petacci, forse per la nobile scelta di restare insieme al suo uomo anche nella tragedia più cupa e di morire insieme a lui (potendolo evitare), sono riuscite a restare sempre al di sopra delle pur asperrime polemiche politiche che hanno colpito tutte le figure in qualche modo legate al passato regime.

Il Duce e Claretta la loro esecuzione

Era ormai piena mattina - circa le 7,30 (del 27 Aprile 1945) - e la radio aveva dato notizia della insurrezione milanese contro i fascisti (o contro il nulla). Non indugeremo sui laboriosi e diffidenti conciliaboli che gli ufficiali tedeschi intrapresero con Pedro - comandante insieme a Pier Bellini delle Stelle, della 52'" brigata garibaldina -, mentre tra i gerarchi maggiori e minori dilagava il timore, poi il panico, tanto che alcuni cercarono rifugio presso gente del posto, offrendo in ricompensa denaro e gioielli. Per i fedelissimi non v'era scampo, già erano stati catturati Buffarmi Guidi e Tarchi che s'erano incaponiti a voler raggiungere la frontiera svizzera, Pavolini con la sua autoblindo si dibattè come un animale in gabbia e insieme a lui la medaglia d'oro Barracu e altri;si ritrovarono poi tutti sul lungolago di Dongo, per morirvi. L'unico che i tedeschi si preoccupassero ormai di proteggere era Mussolini, che fu indotto da Birzer a indossare un pastrano da caporale e un elmetto della Wehrmacht: mascherata che doveva consentirgli di superare indenne l'ispezione cui la colonna sarebbe stata sottoposta come s'era concordato a Dongo. Così camuffato il Duce si issò pesantemente sull'autocarro e Claretta - ancora lì nonostante le proteste - restò a terra."A Dongo uno dei partigiani che esaminavano l'interno del camion, Giuseppe Negri, incuriosito dell'atteggiamento di un massiccio tedesco che se ne stava accasciato in un angolo ("ubriaco, vino" dicevano gli altri tedeschi), volle vederlo meglio e riconobbe 'el testùn', il testone. Ne avvertì il vicecommissario politico della brigata, Urbano Lazzaro (Bill), che si fece consegnare da un Mussolini rassegnato il mitra che teneva tra le gambe e la pistola, una Glisenti. Nel municipio di Dongo fu steso un inventario di quanto il Duce aveva con sé: parecchi documenti - tra gli altri un dossier intestato a Umberto di Savoia - e poi sterline, assegni, un paio di guanti, un fazzoletto, una matita. Sopravvenne, mentre i tedeschi ripartivano liberati dall'ingombrante compagnia, Michele Moretti (Pietro), fervente comunista, che della 52° brigata era commissario politico: e fu stabilito di trasferire il prigioniero per maggior sicurezza a Germasino, nella caserma della Guardia di Finanza. A tarda sera lo si prelevò di là per riportarlo a Como, e fu concesso a Claretta di riunirsi a lui. Ma durante il tragitto la scorta partigiana cambiò idea: correva voce, nei vari posti di blocco in cui via via il gruppo incappava - a Mussolini era stata fasciata la testa per evitare che venisse riconosciuto che gli Alleati fossero già a Como: i loro messaggi chiedevano insistentemente "l'esatta situazione di Mussolini" come premessa alla sua 'consegna'.  "Fu pertanto deliberato dai catturatori e carcerieri di Mussolini - Bellini delle Stelle, Luigi Canali (Neri), Moretti, Giuseppina Tuissi (Gianna) - di far marcia indietro, e ricoverare il prigioniero insieme alla Petacci, nella cascina dei contadini De Maria, che ai partigiani avevano dato rifugio in passato: un fabbricato rustico a mezza costa, in località Giulino di Mezzegra. In quel modesto casolare, nello stesso letto, l'ex dittatore e l'ex favorita, trascorsero prigionieri l'ultima notte della loro vita. 

"Mentre Mussolini peregrinava sotto sorveglianza da un paese all'altro, da una prigione provvisoria all'altra, la notizia della sua cattura - era il tardo pomeriggio del 27 Aprile - giunse a Milano, nel comando del Corpo Volontari della Libertà. Vi era approdata indirettamente, attraverso il capo della Finanza, Malgeri, che stava facendo visita al nuovo prefetto Riccardo Lombardi. "Questa procedura tortuosa, insieme alla sosta del prigioniero in una caserma di finanzieri, spiega perché Leo Valiani, rievocando quei momenti, abbia detto che "a sera arrivò la notizia che Mussolini era stato catturato dalla Guardia di Finanza". I capi della Resistenza, in particolare comunisti, socialisti e azionisti, avevano un assillo: impedire che il Duce cadesse nelle mani degli Alleati. Ha detto Valiani al suo intervistatore Massimo Pini (Sessant'anni di avventure e battaglie):

"Noi quattro del comitato insurrezionale ci consultammo, senza neppure riunirci, per telefono. Pertini, Sereni, Longo e io prendemmo nella notte la decisione di fucilare Mussolini senza processo, data l'urgenza della cosa". "Gli americani infatti chiedevano, per radio, che Mussolini fosse consegnato a loro. Longo chiese a Cadorna di dare il lasciapassare a due suoi ufficiali, Lampredi e Audisio, perché si recassero a prelevarlo. Cadorna racconta lealmente nelle sue memorie di avere subito capito che andavano per fucilarlo, ma di aver ugualmente firmato il foglio. Cadorna non era un cospiratore antifascista..., ma pensava che era più giusto che Mussolini morisse per mano di italiani che per mano di stranieri: perciò firmò il lasciapassare. Enrico Mattei (democristiano, N.d.A.) e Fermo Solari (azionista N.d. A.) l'approvarono. Alcuni giornalisti sostengono che Cadorna poi si pentì, arrivò da lui un ufficiale americano, Daddario (al quale già si era consegnato Graziani, N.d.A.) [...] Quella notte Daddario chiese invano la consegna di Mussolini. Per scongiurare l'intromissione di angloamericani il C.V.L. mentì, nella notte sul 28, con un messaggio che annunciava: "Spiacenti non potervi consegnare Mussolini che processato tribunale popolare è stato fucilato stesso posto dove precedentemente fucilati da nazifascisti quindici patrioti" (piazzale Loreto, N.d.A.) ". In realtà la sentenza era stata pronunciata, ma l'esecuzione soltanto ordinata.  "Con un pugno di tipi risoluti, Walter Audisio (Valerio) e Aldo Lampredi (Guido) viaggiavano all'alba del 28, verso Como. La scelta di Lampredi era stata ragionata, era il braccio destro di Longo, un uomo dell'apparato. Walter Audisio, alias colonnello Valerio, un ragioniere trentaseienne di Alessandria, era anche lui un compagno di provatissima fede, ma di assai minore equilibrio.

"Un tipo, ha osservato Valiani, "un po' prepotente", "un po' matto"; il che, secondo Secchia, non guastava. "Forse, se non fosse stato un po' matto, non avrebbe portato a termine la missione, malgrado gli ostacoli che incontrò". Il 'compito storico' di uccidere il Duce gli toccò per caso; lo si deduce almeno da quanto ha affermato Fermo Solari, stretto collaboratore di Longo. "Quando telefonarono da Musso che il Duce era prigioniero, Longo uscì per fare alcune telefonate e dare degli ordini e poi mi disse: "Ho trovato solo Audisio, ho mandato su lui perché ce lo porti a Milano". Quanto ci fosse di sincero e quanto di reticente in quel "ce lo porti a Milano" è diffìcile dire.

Probabilmente Longo non precisò subito se lo voleva, Mussolini, vivo o morto, ma lasciò intuire cosa preferisse. Divenne comunque esplicito durante una telefonata con Audisio che, fatta sosta a Como nel tragitto verso Dongo, si era imbattuto in esponenti della Resistenza dalla mentalità 'formalistica' e 'legalitaria', i quali gli 'mettevano i bastoni tra le ruote'. Chiamò allora Milano per avere istruzioni da Longo, che seccamente rispose: "O fate fuori lui, o sarete fatti fuori voi".

"Il comportamento del colonnello Valerio fu contrassegnato - una volta raggiunto Dongo - da una volontà fanatica, isterica e feroce di far presto, anticipare i possibili salvatori. Condannare, fucilare, vendicare. Con Bellini delle Stelle, che tentava di muovere obiezioni e di opporsi a quelle sommarie e sanguinarie procedure, Walter Audisio si comportò, più che da superiore, da bravaccio intimidatore. "Volle l'elenco dei gerarchi catturati, e con furia appose accanto a ciascun nome la crocetta che significava morte. Accertò con rapidità - grazie alla sua conoscenza dello spagnolo - che Marcello Petacci, il quale s'era spacciato per diplomatico di Franco, era un bugiardo e lo scambiò per il figlio del Duce, Vittorio. A ogni buon conto, morte anche per lui. Morte naturalmente per Mussolini, morte per Claretta Petacci, e quando Bellini delle Stelle protestò: "Non ha nessuna colpa", Valerio ribattè spitatamente: "E stata consigliera di Mussolini e ha ispirato la sua politica per tutti questi anni. E responsabile quanto lui". E poi aggiunse: "Non la condanno io. E già stata condannata". Era una menzogna. Valiani l'ha ripetuto, riecheggiando le analoghe dichiarazioni di Pertini, trentott'anni dopo i fatti. "Quanto alla Petacci, ha ragione Pertini. Il C.L.N.A.I. non la condannò mai e non c'era un motivo valido per fucilarla. Non so perché sia stata uccisa". "Della fine di Mussolini e della Petacci, WalterAudisio diede almeno quattro versioni, concordanti nell'essenza, discordanti in alcuni particolari non trascurabili. "

"L'ultima volta, in un memoriale pubblicato postumo - era morto l'11 Ottobre '73 - nel 1975, ha raccontato che, accompagnato da Lampredi e Moretti (quest'ultimo essendo del posto sapeva come raggiungere Giulino di Mezzegra) arrivò alla cascina, e indusse Mussolini e la Petacci ad accompagnarlo dicendo d'essere venuto per liberarli. All'andata, aveva già adocchiato il luogo adatto per l'esecuzione: "Una curva, un cancello chiuso su un frutteto, la casa sul fondo palesemente deserta (si chiamava Villa Belmonte, N.d.A.) ". Così si avviarono, Mussolini in un soprabito color nocciola, la Petacci impacciata dai tacchi alti delle scarpe nere scamosciate. "Percorsero il breve tratto fino alla 1.100 nera con cui i messaggeri di morte avevano fatto il viaggio, e furono portati a destinazione.

Non mette conto di citare gli scambi di frasi tra i protagonisti di questo epilogo, ne la descrizione sprezzante che Valerio diede di Mussolini, delle sue ultime baldanze (credette davvero per un momento d'essere avviato verso la libertà?), poi del suo terrore. Fatti scendere Mussolini e la Petacci dall'auto, Audisio prese a leggere un foglio. "Per ordine del comando generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano". Trascriviamo, a questo punto, l'ultima e, per quanto riguarda il P.C.I., definitiva versione del colonnello Valerio: "Con il mitra in mano scaricai cinque colpi su quel corpo tremante. Il criminale di guerra si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa reclinata sul petto.

La Petacci, fuori di sé, stordita, si era mossa confusamente, fu colpita anche lei e cadde di quarto per terra. Erano le 16,10 del 28 Aprile 1945". "Inutilmente autodifensiva e grottesca la descrizione della fine di Claretta Petacci. WalterAudisio - se fu lui il 'giustiziere' - l'aveva condannata; voleva che morisse, ed ebbe soddisfazione. Quanto alla parte riguardante il Duce, è possibile che in sostanza sia autentica, benché molte perplessità siano emerse. "Gianfranco Bianchi e Fernando Mezzetti, che all'epilogo fascista hanno dedicato un libro molto documentato, portano testimonianze secondo le quali esecutore materiale sarebbe stato il Moretti. Altri hanno indicato in Longo il giustiziere, altri ancora hanno accennato alla intromissione di un inglese, incaricato di recuperare i documenti che Mussolini aveva con sé e che infastidivano Chur-chill. A un Longo che avrebbe provveduto personalmente alla uccisione, Valiani non era molto disposto a credere: "Non ho motivo di escluderlo, però mi pare improbabile. Se la mia memoria non mi inganna, Longo, il giorno che si sarebbe dovuto trovare a Dongo, era a colazione a casa mia in via Benedetto Marcello". 

"E poi: "Ho l'impressione che fosse quel giorno, 28 Aprile, però potrei sbagliare: potrei confondere le date [...] e può darsi che Longo sia andato a Dongo. Non ci credo molto però, anche perché non vedo quali attitudini di tiratore Longo avesse. Aveva guidato le brigate internazionali in Spagna, si era battuto con sagace coraggio, era spesso in prima linea, ma come ispettore generale, non come tiratore scelto: però può darsi che abbia voluto prendersi questo gusto". Quanto ad Audisio: "Che Mussolini l'abbia ucciso lui, questo è dubbio: la versione che noi apprendemmo subito dopo, da Longo, fu che era stato Lampredi ad eseguire la bisogna. Questa era la versione interna. Ma forse fu il comasco Michele Moretti". Il mistero resta dunque tale: è un mistero importante per la ricostruzione cronicistica degli avvenimenti, non per il profilo storico e politico. Il C.L.N.A.I., e il C.V.L., e nel C.V.L. i comunisti in primo luogo, poi i socialisti e gli azionisti, vollero, fortissimamente vollero che Mussolini fosse sottratto agli Alleati e consegnato al mitra. Il resto è dettaglio". Pur condividendo le conclusioni cui perviene l'analisi di Montanelli e Cervi, in merito alle modalità di esecuzione del Capo del Fascismo, giova render conto di un'ulteriore versione fornita intorno a questi fatti.

Secondo Pisano, giunta la notizia dell'arresto di Mussolini, i responsabili del C.L.N. temettero che i partigiani comaschi avrebbero consegnato il prigioniero agli Alleati. Così, la sera del 27 Aprile, Sereni, Valiani, Longo e Pertini, ne decretarono la morte immediata.

Gli emissari del C.L.N. partirono la notte stessa da Milano per raggiungere Giulino di Mezzegra e, mentre Audisio discuteva con i capi locali, un gruppetto, guidato da Longo, raggiunse, all'alba, casa De Maria, dove erano rinchiusi Mussolini e la Petacci. Quando i partigiani entrarono in stanza, prosegue il racconto di Pisano, vi fu una colluttazione durante la quale Mussolini rimase ferito. Trascinato fuori, fu legato al portone di una stalla ed ucciso con una raffica di mitra. Claretta Petacci subì, invece, ore di sevizie e di violenze prima di essere uccisa. Solo nel pomeriggio avvenne la messa in scena dell'esecuzione, durante la quale furono "fucilali" i due cadaveri.

Fin qui il resoconto dello storico ferrarese, riportato per ragioni di completezza, al fine di rendere omaggio alle più diverse opinioni espresse in merito.

D'altro canto, resta incontrovertibile il fatto che ai fini della nostra indagine, le diverse verità, che sono state raccontate nel corso di questi cinquant'anni, non intaccano il nocciolo della questione, oggetto della nostra ricerca, inerente la legittimità giuridica di quegli accadimenti.

Comunque, prima di darne svolgimento, proseguiamo nel racconto, culminante nella "esposizione" di piazzale Loreto.

"Fosse stato o no l'uccisore di Mussolini e della Petacci, il colonnello Valerio tornò a Dongo, subito dopo l'incursione a Giulino di Mezzegra, con l'aria di chi alla giustizia sommaria avesse preso gusto, e volesse insistere. Nella sala d'oro del municipio i gerarchi bloccati con Mussolini erano sempre guardati a vista dagli uomini di 'Pedro': un gruppo eterogeneo che comprendeva l'indomabile Pavolini, ministri, federali, lo strano compagno di strada Bombacci, la medaglia d'oro Barracu, quindici in tutto i fucilandi, per pareggiare simbolicamente le vittime di piazzale Loreto. Furono ammassati sulla piazza, tre minuti e un prete per l'assoluzione a chi la voleva, poi la scarica. Walter Audisio s'era accorto poco prima che mancava quel falso spagnolo che aveva creduto fosse Vittorio Mussolini, e che, identificato per Marcello Petacci, era stato separato dagli altri. In fin dei conti era al più un profittatore, non uno dei capi del fascismo, e infatti i morituri non lo avevano nemmeno voluto insieme a loro; Restò isolato e morì isolato. Ma Audisio non rinunciò a lui. Il Petacci, robusto giovane, si divincolò e tentò la fuga, riuscì a tuffarsi nel lago e fu finito in acqua. In quella operazione di rastrellamento, prima della strage, e dopo di essa, vi fu certamente passaggio, e poi dispersione e trafugamento di denaro, bagagli con valori, gioielli, sterline d'oro e marenghi a migliaia. Del 'tesoro di Dongo', che prese le più disparate destinazioni, di partito o personali, si cercò successivamente di ricostruire la fine con un classico 'processo fiume' all'italiana, poi insabbiato e finito in nulla.

"Chiuso questo conto di sangue, Audisio non era ancora appagato. Voleva un supplemento spettacolare (proprio sua fu l'iniziativa della esposizione in piazzale Loreto). Buttò i cadaveri di Dongo su un camion, a Giulino di Mezzegra prelevò gli altri di Mussolini e della Petacci che erano stati sorvegliati da due partigiani, con quel mucchio nel cassone si diresse verso Milano dove entrò in piena notte, e depositò il carico sotto la tettoia del distributore di piazzale Loreto. Altri quattro corpi furono poi aggiunti, e la messinscena completata più tardi issando alcuni morti a testa in giù come nel negozio del beccaio.

"Turpe scena da 'revoluciòn' centroamericana o da colpo di Stato irakeno, che ha disonorato chi la volle, chi la consentì, e la folla eccitata che indecentemente si accanì contro i poveri resti, li insultò, li sputacchiò, li insudiciò in modo ancora peggiore. Infieriva esultante, il 'popolo', su colui che aveva acclamato fino a non molti mesi prima. Cadorna parlò di "sconcio", Farri di "macelleria messicana".

"Secondo Valiani il colonnello americano Charles Poletti, neonominato governatore della Lombardia, approvò invece, dopo avervi assistito, la disgustosa esibizione, da Bocca sorprendentemente definita "atto rivoluzionario su cui si farà dell'inutile moralismo".

"Prima che quella parata dell'orrore, purtroppo resa nota al mondo da una serie agghiacciante di fotografie e filmati, avesse finalmente termine, una vittima di spicco allungò l'elenco dei giustiziati: Achille Starace

"È impossibile seguire i molti altri destini, tragici e non, che l'ondata della liberazione travolse.

"Questo periodo ebbe l'ambizione d'essere rivoluzionario; ma della rivoluzione spartì solo in piccola parte i connotati nobili ed epici, l'ardore del nuovo, la genuinità delle convinzioni e delle passioni, la speranza del futuro, e in larga parte i connotati deteriori: la ferocia e la vendetta. Ma chi se ne fece interprete, in entrambi i casi, era intercambiabile, salvo poche onorevoli eccezioni: v'è una professionalità dell'estremismo, e del sangue, che ha per costante l'ansia di uccidere, e per accessorio causale l'ideologia cui applicarla".

In parte tratto da Il Duce.net