La Triplice Alleanza

Il 20 maggio del 1882 Germania, Austria - Ungheria e Italia siglavano un trattato di alleanza difensiva passato agli onori della storia con il nome di "Triplice Alleanza" e destinato a durare sino al 1914, cioè per ben 32 anni. E' l'alleanza più lunga alla quale l'Italia, dalla sua nascita, abbia mai aderito, nonostante tra i firmatari vi fosse la nazione
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Il cancelliere Otto von Bismarck
contro cui gli italiani lottarono per ottenere la stessa unità nazionale. Lo stato verso il quale si erano infrante le frange rivoluzionarie della prima ora risorgimentale, l'entità politica nemica per antonomasia da affrontare in tempo di guerra e da osteggiare in tempo di pace: l'Austria - Ungheria.
Ma procediamo per ordine. Il 1882, lo stesso della firma, fu un anno pieno di eventi basilari per la politica italiana. Pochi mesi dopo la firma della Triplice Alleanza, precisamente in ottobre, la nuova riforma elettorale elevò la percentuale degli italiani aventi diritto di voto dal 2,2 per cento al 6,9. Nel frattempo, procedevano speditamente le riforme volute da Agostino Depretis che dal 1876 era diventato Primo Ministro, consentendo che il potere giungesse finalmente nelle mani di quel gruppo definito poi "sinistra storica". La destra, anch'essa "storica" ovviamente, non aveva digerito il cambio della guardia alla guida dello Stato. Ma mugolava, inerte a qualsiasi iniziativa, mentre una buona parte dei vecchi deputati si trasferiva in blocco nello schieramento avversario, grazie al trasformismo.
L'Italia assisteva alle novità nella scuola volute da Coppino (1877), dirette a fronteggiare la piaga dell'analfabetismo che coinvolgeva quasi il 70 per cento della popolazione, mentre veniva abolita la famigerata tassa sul macinato (1879). Le novità non mancavano di certo, ma nessuno avrebbe pensato che gli antichi nemici, gli austriaci, sarebbero diventati i nostri più fedeli alleati. Così la diplomazia italiana si preparava a dimenticare la tradizionale austrofobia, alleandosi militarmente al nemico di sempre: il tedesco.

Infatti, proprio nello stesso anno della riforma elettorale, venne inaugurata una nuova politica estera, le cui premesse potevano essere rintracciate nell'alleanza con la Prussia del 1866, che aveva avviato la Terza guerra d'Indipendenza culminata nella conquista del Veneto e del Friuli.
Lo sguardo del governo italiano si era soffermato a lungo verso la nascente potenza prussiana e i legami si erano rinsaldati proprio grazie all'atmosfera antifrancese che si respirava in Italia negli anni Sessanta dell'Ottocento. Un'antipatia riaccesa dalla mai sopita Questione romana, che si risolse proprio in seguito alla sconfitta francese del 1870.
In seguito, a complicare le relazioni con la Francia era intervenuta anche il problema della Tunisia, che da alcuni anni assorbiva il flusso di buona parte degli emigranti italiani e verso cui il governo italiano aveva indirizzato le proprie ambizioni coloniali.
Così, mentre Roma diveniva finalmente la capitale del nuovo regno, le simpatie diplomatiche si indirizzavano verso l'antico nemico germanico. Se la memoria umana è spesso la più labile delle facoltà intellettuali, certamente lo è ancora di più quella della politica, visto che nel giro di neanche un decennio l'opportunismo portò l'Italia a dimenticare l'antico fervore antiaustriaco. In questo modo si arrivò il 20 maggio 1882 - e ne vedremo meglio, in seguito, cause , motivi e sviluppo - alla firma del trattato della Triplice Alleanza in evidente funzione antifrancese.
Il fatto avvenne dopo alcuni mesi di intense trattative condotte dal ministro degli esteri Pasquale Stanislao Mancini, dal segretario generale agli esteri Blanc e dall'ambasciatore a Vienna conte di Robilant. Si trattava di una svolta nella politica del giovane regno: fino al 20 settembre 1870 la politica estera della destra storica aveva coinciso con il raggiungimento dell'unità nazionale, ma dopo la presa di Roma, la politica estera italiana era stata condotta all'insegna della prudenza, seguendo un' impostazione volta alla tutela dell'indipendenza nazionale.

La linea seguita era principalmente quella dettata da Emilio Visconti Venosta, che riteneva che il paese avesse bisogno della "sicurezza della pace" e di "far parlare poco di sé", dopo le lunghe agitazioni per ricostituire le sue forze economiche, sociali e politiche. Sotto questo aspetto, dopo la caduta del secondo impero francese, la sola via che poteva dare una certa sicurezza al governo italiano era quella dell'avvicinamento agli imperi centrali: manifestazioni significative erano state le visite di Vittorio Emanuele II a Vienna e Berlino nel 1873, ricambiate - non senza alcune polemiche da Francesco Giuseppe a Venezia e da Guglielmo II a Milano nel 1875.
L'avvento al potere della sinistra non aveva inizialmente modificato la linea di cautela e di contenimento dei moderati in politica estera dopo il 1870, sia perché il mantenimento delle prerogative regie in politica estera e la permanenza dello stesso personale diplomatico favorirono tale continuità, sia perché Cairoli e Depretis erano convinti che una politica libera da impegni e legami internazionali avrebbe favorito l'attività riformista interna.
Sin dai primi tempi del suo governo, Depretis aveva mostrato di volersi attenere alla precedente politica di prudenza e di equilibrio. Tuttavia questa sua linea si scontrava non solo in Europa con l'emergere dell'imperialismo e dei nazionalismi, ma anche sul piano interno con l'opposta tradizione di origine mazziniana, austrofobica e irredentista (solo nel 1877 era nata per iniziativa di Matteo Renato Imbriani l'associazione per l'Italia irredenta). Fra questi due partiti prevalse un terzo, quello appunto di schierare il paese con i due imperi centrali, posizione peraltro caldeggiata dagli ambienti di corte, dove Umberto I aveva provveduto a togliere ogni esitazione, innamorato dei metodi repressivi di Bismarck e del metodo tedesco utilizzato per eliminare socialisti e cattolici. D'altra parte la simpatia non era generata solo dai successi militari contro Napoleone III, ma arrivava a comprendere anche le spiccate tendenze reazionarie della Germania e dell'Austria, che avevano sempre avuto largo seguito in vasti settori della classe dirigente italiana.

Un esempio basti per tutti: Francesco Crispi (1818-1901) non perse mai occasione per palesare la sua fervente ammirazione per Bismark, di cui certamente imitava l'ardente nazionalismo, il desiderio di affermare il volto militare della nazione e l'accentuato conservatorismo contro ogni forza giudicata sovversiva agli interessi dello Stato.
Inoltre, a rinsaldare il sentimento di simpatia verso i tedeschi erano intervenuti numerosi eventi nel campo della politica estera. Precedentemente, lo scoppio della crisi balcanica nel 1875-76 e il conseguente riconoscimento da parte della Russia della facoltà dell'Austria di occupare la Bosnia e l'Erzegovina nel 1877 (per assicurarsi la sua neutralità in caso di guerra contro l'impero Ottomano) avevano riacceso le speranze italiane circa il Trentino. Si trattava del vecchio progetto di Cesare Balbo, cioè di favorire l'espansione austriaca nei Balcani in cambio della rinuncia di Vienna ai territori italiani. Pertanto con l'evolversi della crisi dei Balcani, Depretis aveva reso noto che la politica italiana, pacifica e prudente, doveva essere anche "attiva".
Questa idea della politica dei compensi nei confronti dell'Austria, come ha osservato Enrico Decleva (L'Italia e la politica internazionale dal 1870 al 1914. L'ultima fra le grandi potenze), era destinata ad essere per qualche tempo la linea maestra della politica estera italiana ed era tuttavia destinata al più completo fallimento. Le speranze si scontrarono infatti con l'intransigenza austriaca; a nulla portarono le manifestazioni degli irredentisti così come a nulla portò la missione diplomatica di Crispi nelle capitali europee. La speranza di stringere con la Germania un'alleanza antiaustriaca fu naturalmente esclusa da Bismarck, il quale tuttavia aveva ventilato all'Italia l'occupazione dell'Albania in compenso di quella Austriaca della Bosnia.
Il congresso di Berlino, nel 1878, aveva acceso le speranze italiane per eventuali compensi territoriali in termini di colonie, salvo poi definitivamente stroncarle. L'Italia uscì dal consesso internazionale delusa, mentre la politica del Ministro degli Esteri Cairoli venne ironicamente definita delle "mani nette". Senza considerare che, a questo punto, il paese restava drammaticamente isolato a livello internazionale.

L'incapacità dimostrata nel difendere gli interessi nazionali scatenò all'interno del paese un putiferio: si parlò di condotta meschina e miserabile, di inerzia, di scacco morale dovuto all'isolamento internazionale e al decadimento della tradizione diplomatica, mentre poco dopo l'Italia conobbe un nuovo pesantissimo smacco.
Il risentimento venne alimentato dalla questione tunisina e dall'umiliazione diplomatica subita dall'Italia ad opera della Francia. Un trattato concluso con il bey nel settembre 1868 garantiva ai numerosi italiani residenti in Tunisia di usufruire della giurisdizione consolare; una clausola del trattato stabiliva, inoltre, che l'Italia avrebbe beneficiato dello status di nazione maggiormente favorita sul piano economico; stesso trattamento peraltro riservato alla Francia dalle autorità tunisine. Tutto sembrava far credere che anche Parigi si sarebbe adattata alla nuova situazione. Ma nella vicenda intervenne Bismarck che col chiaro proposito di distogliere i francesi da ogni proposito di "revanche", li convinse a concentrarsi verso altri obiettivi. La Tunisia divenne così un protettorato francese con grande disappunto dell'Italia, peraltro preoccupata sia per i coloni italiani superiori numericamente a quelli francesi sia per la minaccia di invasione, visto che il paese africano distava pochi chilometri dalla costa siciliana. Nulla valse ad impedire che ciò accadesse; né i passi compiuti dalla diplomazia né il diretto intervento di Cairoli, allora Presidente del Consiglio. Con il Trattato del Bardo del 12 maggio 1881, il protettorato francese sulla Tunisia diventava un fatto compiuto.
Questo fatto finì col fare il gioco dell' Austria e della Germania . Il clima venne arroventato da una campagna stampa antifrancese senza precedenti. Francesco Crispi dalla pagine della Riforma tuonava: "Il giorno che la Francia, sia dalla parte del Reno, che dalla parete delle Alpi - e questa è oggi la supposizione più attendibile - tentasse di ridurre a potenze di secondo o terz'ordine le potenze confinanti, quel giorno gli interessi dell'Italia e della Germania sarebbero identici, e l'alleanza italo-germanica avrebbe una ragione d'essere più forte ancora dell'alleanza italo-prussiana" (La Riforma, 12 luglio 1881).

La conquista di Tunisi sembrava preludere all'asservimento italiano alla Francia, il cui unico rimedio era rappresentato da un'alleanza con gli Imperi centrali. Naturalmente ogni rosa ha la sua spina: allearsi con la Germania significava doversi alleare anche con l'Austria e finanche Umberto I ricordava le casacche bianche dei soldati di Francesco Giuseppe a Custoza nel '66. Inoltre, il nuovo sodalizio richiedeva immediati sacrifici. In primo luogo era necessario mettere in secondo piano l'irredentismo, determinato dalle aspirazioni delle popolazioni italiane ancora soggette all'Austria (Trento, Trieste e l'Istria), da sempre desiderose di entrare a far parte del regno d'Italia. Da questo punto di vista largo imbarazzo gettò proprio in quel fatidico 1882 l'episodio di Guglielmo Oberdan. Le firme dell'alleanza non erano ancora asciugate, mentre saliva sul patibolo il giovane irredentista triestino Guglielmo Oberdan, reo di aver organizzato un attentato contro l'imperatore Francesco Giuseppe. Quindi si doveva innanzitutto convincere l'opinione pubblica che il nemico di ieri, il "Franz patatoffen" austriaco, dopo anni e anni di odio, antipatia e sarcasmo era l'amico di oggi.
Si assiste, in definitiva, al concretizzarsi delle ragioni di quella che Alfredo Capone ha definito l'offensiva delle forze conservatrici (Destra e sinistra da Cavour a Crispi). Il rapporto con il paese, e lo scarso margine di consenso della sinistra governativa restavano insomma in primo piano. La sinistra era eterogenea, incapace di trovare un'identità ormai compromessa dal trasformismo e trovava la sua unità "in negativo" contro la destra di Sella; si riacutizzava l'anticlericalismo (nel luglio 1881 il corteo che trasportava la salma di Pio IX era stato assalito dagli anticlericali) e i radicali e i repubblicani davano vita ad una campagna contro la legge delle guarentigie: politica estera e interna si saldavano, dal momento che una alleanza a tre con la Germania e con l'Austria presupponeva una politica interna molto prudente. Contrari all'alleanza non a caso erano i repubblicani e i radicali, ma anche i cattolici, che giustamente vedevano nell'alleanza la definitiva sanzione - e proprio da parte delle potenze conservatrici - del possesso italiano a Roma.

Gli estremi ancora una volta si toccavano e proprio da questa improbabile confluenza dei nemici delle istituzioni veniva alla classe dirigente liberale lo stimolo a raccogliere l'invito di legarsi a Vienna e a Berlino. Il distacco tra governanti e governati, proprio mentre si allargavano le basi del suffragio elettorale, denunciava la crisi delle istituzioni
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Francesco Crispi (1818-1901)
rappresentative. A detta di molti, il paese aveva bisogno di maggiore autorità, per cui l'influenza degli imperi centrali era naturalmente la più indicata, poiché la monarchia ne sarebbe uscita sicuramente rafforzata. La Triplice Alleanza, nonostante le perplessità del governo, rappresentò quindi, secondo Capone, la vittoria del fronte conservatore che si servì per imporre la sua linea anche della corona.
Interessante appare anche l'opinione di Carlo Morandi che sostiene che fu infatti proprio la considerazione della debolezza della monarchia a spingere il governo a stipulare l'alleanza con gli imperi centrali. Non a caso gli artefici della Triplice furono in gran parte i fedelissimi alla dinastia dei Savoia: il Blanc, il De Launay, il Robilant.
Per Bismarck, che si era mostrato inizialmente perplesso, l'alleanza aveva lo scopo di allontanare l'Italia dai pericoli che potevano derivare dai legami tra i radicali francesi e quelli italiani; l'Austria vedeva nell'alleanza la rinuncia senza condizioni all'irredentismo (ed infatti nel dicembre 1882 fece impiccare Guglielmo Oberdan): il senso della Triplice si profilava con evidente chiarezza. La sua natura era essenzialmente conservatrice e difensiva: sin dal preambolo si precisava che i sovrani si erano mossi per aumentare le garanzie di una pace generale, per assicurare l'ordine sociale e rafforzare il principio monarchico, e quindi l'ordine sociale e politico dei loro stati. I contraenti si promettevano pace e amicizia e si assicuravano reciprocamente che non sarebbero entrati in nessuna alleanza diretta contro uno di loro. In particolare il patto prevedeva che, in caso di attacco francese all'Italia, Germania e Austria si sarebbero schierate dalla parte di quest'ultima. Lo stesso comportamento avrebbe adottato l'Italia in caso di attacco francese alla Germania.

Inoltre, su richiesta italiana, fu specificato che la Triplice non era in nessun caso diretta contro l'Inghilterra. Il patto, che avrebbe retto fino al 1914, fu da quel momento il principale asse portante della politica estera italiana, anche se, alla fine, scarsi furono i risultati per l'Italia. Germania e Austria avevano infatti ottenuto la neutralizzazione dell'Italia senza contropartite, mentre, allo stesso tempo, l'Italia non aveva acquisito alcuna garanzia rispetto al Mediterraneo e nemmeno riguardo alla questione balcanica. L'unico vero vantaggio per il paese fu quello di non vedere sollevata dagli imperi la questione romana, in quanto venne eliminata dalla politica internazionale, oltre alla garanzia contro un improbabile attacco francese. Più consistenti gli svantaggi: l'assenza di ogni appoggio ai nostri interessi nel Mediterraneo e nei Balcani in relazione all'espansione austriaca e, ancora, la rinuncia ad ogni svolta politica in senso irredentista. La vera funzione era quella di inaugurare una nuova politica interna, più vigorosa e conservatrice, il "puntellamento"dai pericoli della politica radicale. O addirittura, come ha sottolineato Fulvio Cammarano (Storia politica dell'Italia liberale), la Triplice, unitamente alla scelta, dopo il 1885, di una politica di espansione coloniale, si inseriva coerentemente nella logica trasformista del contenimento dei movimenti di opposizione nel paese, anche a rappresentare un nuovo intreccio tra la politica estera e gli interessi speculativi e industriali legati allo Stato.
Emergono dunque con chiarezza la tre spinte di carattere etico politico verso la Triplice delineate da Federico Chabod: antifrancese, antivaticana e antirivoluzionaria, per quanto appaia anche assai stimolante l'ipotesi di Carlo Morandi, che ha collegato le origini della Triplice al trasformismo di Depretis, ed all'opportunità per il Presidente del Consiglio di guadagnarsi l'appoggio del centro di Sonnino, convinto sostenitore della convenienza dell'Italia ad entrare nel sistema bismarckiano. Tuttavia, se si considerano anche la forze economico-sociali e non solo i rapporti di forza parlamentari, si potrebbe anche sostenere che il prevalere nella politica estera italiana degli orientamenti filotedeschi coincida con le grandi scelte politiche e con i nuovi indirizzi economici e sociali che stavano maturando all'interno del Paese: le correnti "stataliste" sconfitte nel 1876 andavano acquisendo nuova autorevolezza, e nuovi autorevoli personaggi come Sonnino, di fronte agli avvenimenti europei e alla crisi agraria; si deve anche tener conto che la svolta trasformista di Depretis coincise con il suo parziale abbandono di quelle forze "agriculturiste" e liberiste con le quali tra il 1870 e il 1881 si era maggiormente identificato.

Un discorso diverso si può invece impostare ragionando
sul rinnovo della Triplice. Il Ministero degli Esteri era passato a Di Robilant; l'Italia era ancora alla ricerca di un ruolo internazionale proporzionato alla sue ambizioni e soprattutto si doveva trasformare la originaria richiesta di protezione in una vera e propria alleanza. La situazione
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Francesco Giuseppe, imperatore
d'Austria e di Ungheria
internazionale era in fermento e favorevole per una nuova negoziazione del trattato: l'annessione della Rumelia alla Bulgaria aveva provocato una contesa tra Austria e Russia e il fallimento della Lega dei tre imperatori, facendo saltare l'intesa austro-russa; in Francia avanzava la meteora di Boulanger, campione della rivincita contro la Germania e non si poteva escludere che la Francia si legasse alla Russia.
Insomma Bismarck non dominava più la politica internazionale come qualche anno prima. Per la Germania trattenere l'Italia era un fattore sicuramente più importante. Così, nel febbraio 1887 la triplice fu rinnovata e l'Italia ottenne importanti garanzie sia nel settore balcanico sia in quello mediterraneo. Al rinnovo furono infatti aggiunti due trattati, poi fusi in un testo unico, attraverso i quali l'Italia vedeva garantito lo status quo lungo le coste e nelle isole turche dell'Adriatico e dell'Egeo e, nell'eventualità di modificazioni, la previsione di compensi reciproci. Inoltre essa prevedeva l'obbligo per la Germania e per l'Austria di intervenire al fianco dell'Italia in caso la Francia occupasse il Marocco o Tripoli. Sempre nel febbraio 1887 l'Italia stipulò con l'Inghilterra un accordo con il quale l'Inghilterra si impegnava ad appoggiare l'Italia contro la Francia nel nord Africa.
Il rinnovo fu certamente ad opera di Robilant segnò certamente uno dei punti più alti della diplomazia italiana, assicurando quindi al nostro Paese un efficace sistema difensivo, senza nuovi oneri rispetto a quelli assunti nel 1882. L'Italia si era ora posta al riparo contro nuovi smacchi come l'occupazione della Bosnia o di Tunisi. Tuttavia, i successi dell'Italia furono oscurati dai fallimenti nel settore del Mediterraneo: il 30 gennaio giunse in Italia la notizia che la colonna di 500 italiani guidata dal tenente colonnello De Cristoforis era stata massacrata a Dogali dalle truppe di ras Alula. Robilant si dimise, e poco dopo si licenziò l'intero gabinetto. Tuttavia, come ha scritto Chabod, la più larga apertura della politica italiana dopo il '900 non annullò il fatto che la Triplice continuasse ad essere il pilastro fondamentale di quella politica, nonostante "i giri di valzer" e le ambiguità successive.

Già Visconti Venosta, tra il 1899 e il 1902, condusse trattative con la Francia per ottenere il riconoscimento dell'influenza italiana nella regione libica in cambio del consenso per la penetrazione in Marocco da parte della Francia (sanzionati nel 1902 da Prinetti e Barrere) e nello stesso marzo 1902 fu raggiunto un accordo anche con la Gran Bretagna che privilegiava una futura azione italiana in nord Africa: il che portava inevitabilmente ad un avvicinamento dell'Italia all'Intesa.
La stessa espressione "giri di valzer" risale a quel periodo e si deve al cancelliere tedesco Von Bulow, che l'8 gennaio del 1902, in un discorso al Reichstag, placò le preoccupazioni tedesche sull'ambiguo comportamento italiano, dichiarando che la Triplice Alleanza era in ottime condizioni, che le intese franco-italiane intorno alle questioni mediterranee non erano in conflitto con gli interessi della Triplice e che l'Italia non aveva ingannato gli alleati, ma aveva compiuto un semplice "giro di valzer" con un'altra nazione.
Tale trama fu completata dal nuovo ministro degli esteri Tittoni nel 1909 con un accordo con la Russia: questa appoggiava le mire italiane in nord Africa, mentre l'Italia appoggiava le mire russe sugli Stretti. E poi ancora l'accordo con l'Austria pochi giorni prima (ottobre 1909) per cui si prevedevano compensi all'Italia in caso di espansione austriache nei Balcani e le due potenze si impegnavano a non stringere accordi con altre in merito ai Balcani e tali accordi non potevano certo compensare la questione delle terre irredente.
In definitiva dal 1905 (crisi di Algesiras) alla Prima guerra mondiale gli avvenimenti politici non fecero che ribadire ed aumentare il distacco degli obiettivi italiani rispetto quelli degli alleati.
Se da un lato si reiterò l'insofferenza tra Roma e Vienna, a causa del mancato rispetto degli accordi del 1909 e della rinunzia di Berlino a porre freni all'espansionismo balcanico austriaco, a sua volta Roma rinunciò a trattenere le mire tedesche che inevitabilmente finivano coll'acuire il contrasto con l'Inghilterra.
Quindi alla fine all'Italia di fronte allo scoppio del primo conflitto mondiale rimanevano due scelte. La strada della neutralità (come venne saggiamente auspicato da Giovanni Giolitti) o l'intervento affianco delle potenze occidentali. La politica dei "giri di valzer" si era trasformata in aperta e sincera inimicizia.
La conclusione dell' alleanza fu certamente strabiliante: dopo 32 anni di intesa difensiva, sempre puntualmente rinnovata, proprio quando l'eventualità della guerra, da tempo minacciata, esplodeva in tutta la sua drammaticità, l'Italia, inizialmente neutrale, transitava sulla sponda opposta . Il Governo italiano capitanato da Salandra impegnava il Paese contro gli amici di una trentennale alleanza in una lotta lunga, logorante e pericolosa.
Il valzer lasciava il posto al tuono del cannone.