Stati italiani prima dell'Unità
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Prima guerra d'indipendenza (1848-1849)

Erano appena finite le insurrezioni patriottiche di Venezia e di Milano (le Cinque Giornate), che sùbito, il 23 marzo 1848 il re Savoia Carlo Alberto - a dispetto dell'appellativo di "re tentenna" che gli avevano appiccicato - prende il coraggio a quattro mani e dichiara guerra all'Austria: cinque giorni dopo varca il Ticino, che era allora il confine fra regno di Sardegna e Lombardo-Veneto, e marcia su Milano. Piuttosto che niente, almeno la Lombardia. E gli stava andando anche bene: appoggiati da gruppi di volontari e da corpi di spedizione inviati da alcuni degli altri Stati italiani, nonché con le vittorie di Goito e Pastrengo, i piemontesi riuscirono a far ritirare le truppe austriache, comandate dal vecchio ma sempre in gamba maresciallo Radetzky, che dovettero abbandonare parte della Lombardia e ripiegare verso Est, rifugiandosi nelle fortezze del famoso "Quadrilatero", costituito dalle città di Mantova, Peschiera, Legnago e Verona. Ma è proprio qui che... "arrivano i nostri": da Gorizia, infatti, si precipitano i rinforzi per gli Austriaci , che sul Piave sbaragliano il corpo di spedizione pontificio e si ricongiungono con le truppe di Radetzky, col risultato di venire così ad avere una schiacciante superiorità numerica rispetto ai Piemontesi.

Curtatone e Montanara sono ricordate perché vi si svolsero eroici combattimenti fra i volontari toscani e napoletani e i soldati austriaci, che però li sbaragliarono; a fine Maggio i Piemontesi riportarono un'importante vittoria a Goito, che tuttavia, per errori di strategia, non fu sfruttata. Ne approfittarono gli Austriaci che ebbero così modo di riorganizzarsi o scatenare una violenta controffensiva: ne seguì la disfatta dei Piemontesi a Custoza verso la fine di Luglio. L'esercito di Carlo Alberto indietreggiò precipitosamente e tentò un'ultima resistenza alle porte di Milano; ma alla fine il re sabaudo si vide costretto a offrire a Radetzky la capitolazione. Il 9 Agosto il generale Salasco firmò l'armistizio per conto del re sconfitto, al cui esercito si consentiva di ritirarsi al di là del Ticino, entro i confini del regno di Sardegna.

L'anno dopo, nel Marzo del '49, le pressioni del parlamento di Torino e le manifestazioni popolari, convinsero ancora una volta il "re tentenna" a riprendere le ostilità contro l'Austria; ma ebbe l'infelice idea di affidare il comando delle operazioni a un generale polacco le cui doti di stratega non erano brillantissime. In soli tre giorni Radetzky, forte di una soverchiante superiorità numerica di truppe e dell'efficienza della sua artiglieria, penetrò in Piemonte. La sua vittoria fu netta e immediata: travolto dalla sconfitta, Carlo Alberto si ritirò in buon ordine e abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele. Ne seguì la pace di Milano, che nelle sue clausole prevedeva che il Piemonte subisse una temporanea occupazione austriaca nelle sue province orientali (una specie di "zona cuscinetto"), e che il regno di Sardegna non ci tentasse più con queste avventure.

Seconda guerra d'indipendenza (1859)

Nel 1854 il nuovo re nominò Capo del governo piemontese (lo "Statuto albertino" - vigente in Italia fino all'avvento della attuale Costituzione repubblicana, 1 Gennaio 1948) - prevedeva che il Primo ministro fosse di nomina regia e non parlamentare, o popolare, come avviene adesso), nominò Capo del governo, dicevamo, un politico scaltro e accorto: Camillo Benso di Cavour.

La politica di quest'uomo di rara lungimiranza fu orientata soprattutto a reinserire il regno di Sardegna, privo ormai di credibilità dopo le sconfitte subite, nell'àmbito delle relazioni internazionali, al fine di un rilancio del sempiterno progetto di unificare l'Italia ad opera del regno di Sardegna. E Cavour convinse il re Vittorio Emanuele II a prendere parte alla Guerra di Crimea del 1854-56, in coalizione con Francia, Inghilterra e Turchia contro l'impero Russo. Con questa guerra, vinta dai coalizzati, il Piemonte riacquistò credibilità e rispetto nel consesso internazionale.

Qualche anno dopo, Cavour mise in moto la sua diplomazia. Sempre in funzione antiaustriaca, tirò in ballo dalla sua parte l'imperatore dei francesi Napoleone III, e con gli accordi di Plombières del 1858 strinse alleanza con lui: il quale, tuttavia, si impegnò a combattere al fianco dei Piemontesi solo nel caso che questi venissero aggrediti dall'Austria, e in cambio di due belle torte territoriali: Nizza e la Savoia (nessuno dà niente per niente); inoltre gli accordi non prevedevano l'unificazione dell'Italia sotto l'égida del Piemonte, ma (la Francia voleva evitare di avere ai propri confini una nuova grande Potenza) la ripartizione della Penisola in quattro Stati di media importanza: un regno dell'Alta Italia (con Piemonte, Lombardo-Veneto, Emilia e Romagna) sotto i Savoia, il ducato di Parma e Toscana, lo Stato pontificio e il regno delle Due Sicilie.

Che l'Austria dichiarasse guerra al Piemonte o lo aggredisse, favorendo così l'intervento armato della Francia, come concordato a Plombières, era soltanto un pio desiderio di Cavour, che le tentava tutte per realizzare il suo chiodo fisso di unificare l'Italia. Vienna non ci pensava nemmeno; tuttavia, nell'Aprile del 1859, fece un passo falso: lanciò al Piemonte un ultimatum col quale gli si ingiungeva l'immediato disarmo, pena una dichiarazione di guerra. Il dado era tratto: Cavour colse la palla al balzo e intensificò, come se nulla fosse, i preparativi militari.

A Vienna questo atteggiamento provocatorio da parte del Regno di Sardegna non andò proprio a genio, e verso la fine di quello stesso Aprile l'imperatore Francesco Giuseppe gli dichiarò guerra: le truppe asburgiche, al comando del generale Gyulai, non ebbero difficoltà a penetrare in Piemonte dal confinante regno Lombardo-Veneto. Torino schierò 63.000 uomini; mentre Napoleone III, tirato in ballo dagli accordi di Plombières, non poté esimersi dall'inviare, a fianco dell'alleato piemontese, aggredito, un contingente di 120.000 soldati, con tanto di artiglieria e sussistenza. Egli stesso prese il comando delle operazioni per entrambi gli eserciti.

All'avanzata degli Austriaci, che occuparono Biella e Vercelli, l'imperatore dei Francesi rispose con una manovra disposta su tre fronti: le truppe piemontesi furono dislocate al centro dello schieramento, e il 20 Maggio presero possesso di Palestro, dalle parti di Pavia; verso la fine dello stesso mese, Garibaldi e i suoi Cacciatori delle Alpi si spinsero fino a Como e Varese, occupandole; mentre lui, Napoleone III, concentrò il grosso delle sue forze a Novara. Questa manovra costrinse l'austriaco Gyulai a ripiegare verso il sud della zona d'operazioni. Ciò, dopo il fallimento dell'offensiva degli Austriaci che, a fine Maggio, furono sconfitti a Montebello, favorì l'avanzata dei franco-piemontesi verso Milano. Il primo grosso scontro si ebbe ai primi di Giugno a Magenta, dove gli asburgici furono sbaragliati e ripiegarono, ancora una volta, nel Quadrilatero di Verona; mentre, l'8 Giugno, Napoleone III e Vittorio Emanuele II facevano il loro trionfale ingresso a Milano, allora capitale del regno Lombardo-Veneto. Garibaldi, a sua volta, liberava anche Bergamo e Brescia, portando il fronte sempre più a Est.

Queste continue disfatte militari indussero il keiser Francesco Giuseppe a esonerare il generale Gyulai dal comando e ad assumerlo egli stesso, che si approntò a nuovi scontri. Ma verso la fine di Giugno, le forze franco-piemontesi intercettarono il nemico a Solferino e a San Martino, costringendo gli Austriaci a indietreggiare al di là del Mincio; nel contempo Napoleone III metteva sotto assedio Peschiera, una delle quattro fortezze del Quadrilatero.

Sul più bello, però, quando si cominciavano a raccogliere i frutti di questa favorevole campagna militare, Napoleone III decise di ritirarsi dal conflitto: aveva subìto perdite non indifferenti di uomini e mezzi, temeva l'entrata in guerra della Prussia in aiuto all'Austria, ed era pressato dalle sollevazioni liberali e democratiche nel resto dell'Italia. E, senza neppure informarne l'alleato piemontese, diede ordine al suo aiutante di Campo di aprire con Francesco Giuseppe le trattative per un armistizio. Fra l'8 e l'11 Luglio, i due imperatori si incontrarono a Villafranca (nel Veronese), accordandosi per la pace che venne poi firmata a Zurigo nel novembre del '59. In base a questo Trattato di pace, la Lombardia venne sì ceduta, ma non ai Piemontesi, bensì alla Francia, che l'avrebbe poi passata di mano al regno di Sardegna. In fondo, la guerra l'aveva vinta Napoleone.

Questo armistizio, però, non aveva previsto che le popolazioni emiliane e toscane (destinate a prìncipi della Casa d'Asburgo) chiedessero l'annessione al Piemonte: sia pure controvoglia Napoleone III finì con l'accettare la volontà popolare e aderì. In cambio, si prese Nizza e la Savoia.

Il progetto sabaudo, e soprattutto cavouriano, di unificare l'Italia sotto i Savoia, andava avanti; e fu portato a compimento con la spedizione dei Mille di Garibaldi. I fatti sono noti con essa ebbe fine il regno delle Due Sicilie e fu occupata (dalle truppe regolari piemontesi) una parte dello Stato pontificio: il 17 marzo 1861 il parlamento unitario proclamò la nascita del Regno d'Italia.

Terza guerra d'indipendenza (1866)

In quest'ultimo conflitto dovette intervenire in aiuto dell'Italia (non più regno di Sardegna) la Prussia, sempre in un'alleanza contro l'Austria, nei confronti della quale esisteva da decenni antica ruggine da ambo le parti per la supremazia nel mondo germanico. L'alleanza fu offerta all'Italia dallo stesso Bismarck (cancelliere prussiano), in modo che l'Austria venisse impegnata su due fronti, dislocandovi quindi contingenti militari: a sud contro l'Italia, a nord contro la Prussia. Il vantaggio di questa guerra per noi italiani sarebbe stata l'acquisizione del Veneto e di altre frange di territorio italiano ancora sotto la dominazione asburgica.

Le ostilità cominciarono il 20 Giugno del '66, e furono condotte molto male, senza un coordinamento fra le due punte dell'esercito, l'una sotto il comando del generale La Marmora, l'altra agli ordini del generale Cialdini. L'eterna maledizione della strategia militare italiana: ognuno per conto suo; invidie e rivalità personali fra comandanti, voglia sfrenata di apparire per poter dire "il merito è tutto mio". Se ne è visto qualcosa nelle due guerre mondiali. Questo portò le truppe italiane a non poter approfittare di un'occasione più che favorevole: organizzare una controffensiva contro l'Austria proprio quando quest'ultima ritirava molte delle sue divisioni dal fronte italiano per spostarle su quello prussiano, e Garibaldi, dopo aver vinto a Bezzecca, si dirigeva con i suoi volontari verso Trento.

Ho detto all'inizio che noi italiani, se vinciamo una guerra, lo dobbiamo all'aiuto di qualche altra grande Potenza. E' forse un po' umiliante dirlo, ma anche in questa Terza guerra d'indipendenza lo "stellone" italiano portò fortuna, grazie alle armi prussiane che sconfissero gli Austriaci nella battaglia di Sadowa. E così vincemmo anche noi: Vienna, già provata e battuta sul fronte nord, chiese l'armistizio anche all'Italia, alla quale dovette cedere il Veneto.

Quando anche il Veneto fu acquisito dall'Italia, a una contadina delle parti di Padova fu chiesto se e in che cosa per lei le cose fossero cambiate. La risposta fu lapidaria: "Per me non è cambiato niente: prima pagavo le tasse a Francesco Giuseppe, e adesso le pago a Vittorio Emanuele. Ma sempre tase le xé, sempre tasse sono".