Il 1925 segnò un momento estremamente positivo per
l’economia del vecchio continente: la Gran Bretagna aveva ritrovato la
convertibilità in oro della sterlina, la Germania, grazie al piano Dawes, che le
forniva enormi prestiti, teneva fede alle scadenze delle rate del proprio debito
di guerra e sviluppava strepitosamente la propria rinascita economica ed
industriale; proprio in quell’anno la produzione complessiva dell’Europa ritornò
ai livelli di prima della Grande Guerra: sembrava, insomma, che il mondo si
avviasse ad un periodo di benessere, sviluppo e prosperità.
Tutto sembrava contribuire a creare nella gente un
ottimismo ed un’aspettativa verso un’età dell’oro che la società industriale e
capitalista pareva garantire.
Anche in Europa cominciarono ad affermarsi
l’organizzazione su vasta scala del lavoro e la derivante economia di scala, che
presero il nome di “fordismo” o “taylorismo”, d’importazione americana; e fu
soprattutto la Germania a far tesoro di questa dottrina, tornando ad essere,
alla fine degli anni Venti, la maggiore potenza industriale europea; il che,
come vedremo, la rese più vulnerabile di paesi ancora ad ampia vocazione
agricola, come, ad esempio, l’Italia, alla crisi del ’29.
In realtà, quell’America cui tutti guardavano con
ammirazione e che tutti cercavano di imitare era un colosso dai piedi d’argilla,
poiché la regola per mantenere il benessere economico era che questo non poteva
che aumentare: per continuare ad esistere doveva espandersi in continuazione,
secondo lo schema tipico della società consumistica, basata sul circolo vizioso
produrre-consumare-produrre di più-consumare di più; con la continua necessità
di creare nuovi bisogni ed aspettative nel mercato.
In Italia, nel frattempo, il Regime puntava sulla
riduzione delle importazioni, seguendo tre vie principali: difesa ad oltranza
del cambio lira-sterlina alla cosiddetta “quota novanta”, che, però, non
corrispondendo al valore reale della lira, in realtà la penalizzava;
autosufficienza cerealicola (la cosiddetta “battaglia del grano” lanciata da
Mussolini nel ’25), e aumento dei dazi protezionistici a difesa dei prodotti
nazionali, altrimenti scarsamente economici e competitivi rispetto a quelli dei
paesi tecnologicamente più avanzati.
Proprio nel contesto della “battaglia del grano”, il
Fascismo incentivò l’attività contadina, esaltando la figura del
cittadino-agricoltore di matrice romana, ed operò importantissimi lavori di
bonifica, che interessarono più di 100.000 ettari di territorio prima incolto,
come avvenne per le paludi dell’Agro Pontino, distribuendole a famiglie di
contadini, in modo che esse non lasciassero l’agricoltura per inurbarsi.
Il punto massimo di questa (un po’ abborracciata)
politica economica sarebbe stato rappresentato dal perseguimento dell’Autarchia,
ossia dell’autosufficienza italiana, che le “inique sanzioni” contro l’Italia
avrebbero incentivato.
Giovedì 24 ottobre 1929, il mondo si svegliò dalla favola
bella che lo aveva illuso: l’idea che la ricchezza potesse crescere all’infinito
evaporò all’apertura della borsa di Wall Street, quel giovedì d’autunno, che
sarebbe passato alla storia come il “giovedì nero”.
Anche perché non si trattava di ricchezza vera, ma
virtuale.
Nei cinque anni che precedettero il disastro il valore
dei titoli di borsa americani si era quadruplicato, infondendo negli speculatori
un’incrollabile certezza nella solidità del sistema: questo innescò, coll’andare
del tempo, una sconsiderata corsa al rialzo, dovuta alle speculazioni sfrenate,
portando i titoli ad una sopravvalutazione critica; quando in qualcuno la
fiducia venne meno, il mercato si sgonfiò come un palloncino.
Mi spiego: la differenza tra il valore reale di
un’azienda (immobili, capitali, macchinari, fatturato eccetera) ed il suo valore
azionario non può superare una certa forchetta; perché se la disparità è troppo
forte, prima o poi si scapicolla giù.
Oggi esistono dei meccanismi di ammortizzamento degli
eccessivi rialzi e ribassi: nel 1929 no; perciò, la prima crepa che incrinò il
monumento di fiducia cieca nel mercato che era Wall Street, fece crollare tutta
l’impalcatura.
Naturalmente, nel panico delle svendite forsennate, le
azioni scesero di molto sotto quel valore reale delle imprese che, come abbiamo
visto, è l’unico dato non virtuale in tutta la faccenda, mettendo in crisi
l’intero sistema capitalistico.
Già martedì 29 ottobre (il “martedì nero”), la borsa
nuovayorkese aveva perso tutti i guadagni dell’intero anno.
Ma la crisi non doveva interessare solo la borsa: la
domanda di beni di consumo scemò rapidamente, le vendite calarono, la produzione
risultò esorbitante rispetto ai consumi, e l’industria si inceppò; il
capitalismo prima maniera mostrava tutti i suoi limiti: iniziava la Grande
Depressione.
Poco dopo, entrò in crisi l’intero mercato agricolo,
crisi che, con l’impossibilità da parte degli agricoltori, grandi clienti delle
banche di prestito, di pagare i debiti, causò il crollo del sistema creditizio,
col fallimento di molte banche.
Nel 1933 le industrie Usa producevano la metà di quanto
non facessero nel 1928, con, per conseguenza, il 25% della forza lavoro a
spasso: 13 milioni di disoccupati.
Naturalmente, questa ondata di sfiducia, se non di vero
terrore, si trasmise all’Europa, da dove gli investitori statunitensi si
affrettarono a ritirare i propri capitali.
Chi ebbe la peggio, come abbiamo detto, fu la Germania,
che si trovò con la produzione industriale dimezzata e 6 milioni di senza
lavoro; il presidente americano Hoover (cui , in patria, venivano attribuite
pesanti responsabilità per la crisi, tanto da battezzare le baraccopoli dei
disoccupati “Hoovervilles”) propose, nella conferenza di Losanna (1932) di
sopprimere i debiti di guerra tedeschi, ma non servì a nulla.
Francia ed Inghilterra subirono la crisi, ma in termini
meno drammatici, così come (per le ragioni già dette) l’Italia.
In conclusione di questo paragrafo sulla crisi del’29,
possiamo dire che, di fatto, fu proprio la drammatica situazione economica
tedesca all’indomani del crollo di Wall Street ad abbattere la traballante
Repubblica di Weimar, a determinare l’ascesa al cancellierato di Hitler e,
soprattutto, a soffiare sulle braci dell’antisemitismo germanico, che, di lì a
qualche anno, sarebbe tragicamente esploso.
IL NEW DEAL
In un certo senso, possiamo dire che il padre di tutte le
versioni più o meno caserecce di Welfare State, ossia di stato sociale, sia
stato F.D. Roosevelt, presidente degli Usa dal 1932 al 1945.
In effetti, il suo New Deal, il nuovo corso che impose
all’economia, fu il primo tentativo di conciliare il capitalismo con
l’attenzione alle classi più deboli economicamente, riformando profondamente
l’economia americana, che, fino ad allora, era improntata al puro e semplice
liberismo d’iniziativa privata.
In pratica, Roosevelt si lanciò in una politica economica
basata su grossi investimenti pubblici e su di una partecipazione (e, quindi, un
controllo) da parte dello Stato nell’attività economica.
Questa idea avrebbe trovato forma compiuta nell’opera
“Teoria generale dell’impiego, dell’interesse e della moneta”, che, nel 1936, fu
pubblicata dall’economista inglese J.M. Keynes, che indicò proprio
nell’intervento dello Stato a sostegno della domanda (anche a costo di
peggiorare il bilancio)la soluzione del problema.
Per gli economisti del secondo dopoguerra ( e per i
politici semianalfabeti dei giorni nostri), Keynes sarebbe stato quello che fu
Marx per i socialisti ottocenteschi: un mito.
Tornando al New Deal, dall’istituzione della CWA (Civil
Works Administation), derivò l’iniziativa di grandi opere pubbliche, che, oltre
a dotare di infrastrutture il territorio, dessero lavoro a grandi masse di
disoccupati, come la bonifica dell’intera valle del fiume Tennessee.
Roosevelt diede origine ad una serie di agenzie
governative, che garantissero il controllo dello Stato nelle attività, ma anche
il rispetto delle regole che tutelavano i lavoratori (Social Security)
attraverso un sistema pensionistico e di sussidi.
Certo, il nuovo corso aiutò l’America ad uscire dalla
crisi, tuttavia, senza guerre, gli Usa, allora come oggi, non galleggiano:
diciamo che Roosevelt diede ai lavoratori americani riforme importanti e a tutto
il popolo americano un’iniezione di fiducia; tuttavia, sarà solo la seconda
guerra mondiale che raddrizzerà l’economia statunitense, visto che i disoccupati
americani, ancora nel 1939, erano più di dieci milioni!
Quindi, se certamente il New Deal è stato un momento
importante nell’evoluzione della società capitalistica americana, non è stato
certamente quella panacea che economisti improvvisati o storici altrettanto
d’accatto vanno sbandierando.
E’ vero che la volontà conta parecchio, ma non basta
voler risolvere una crisi economica perché la crisi si risolva davvero!
Oggi, e forse qualcuno se ne sarà accorto, navighiamo più
o meno nella stessa direzione cui tendeva l’America nel 1929: la New Economy ha
molti caratteri comuni con la Old Economy fordista, come i soldi facili e la
mitologia che ne consegue.
Stiamo attenti, perché di giovedì e di martedì nei nostri
calendari ce n’è ancora parecchi; e non è detto che saranno tutti rosa!
LA VIA AUTARCHICA
Se le democrazie occidentali reagirono alla crisi del ’29
in chiave Keynesiana, da parte delle dittature socialnazionali l’intervento
statale nel reggere il timone dell’economia fu ancora più drastico.
La campagna elettorale che portò, nel 1932, la NSDP ad
essere il primo partito tedesco, vide tra i punti principali del programma di
governo di Hitler proprio la lotta alla disoccupazione; il che portò ai nazisti
i voti del Lumpenproletariat e, in generale, delle classi lavoratrici.
Insomma, quando Hindenburg, il 30 gennaio 1933, si decise
ad affidare ad Hitler il cancellierato, a spingerlo a questa azione così
terribilmente rivoluzionaria furono, da una parte le pressioni della classe
operaia, ma, in assai maggior misura, quelle di Papen e dei poteri forti
dell’industria tedesca, come i Krupp, i Thyssen e i Siemens; questo prova che
l’idea nazionalsocialista di partecipazione statale all’impresa aveva attecchito
anche nei salotti buoni dell’imprenditoria.
Comunque sia, se dobbiamo indicare un comun denominatore
nell’atteggiamento dell’economia nazista e di quella fascista, dobbiamo dire che
entrambe miravano ad una generale autosufficienza dall’esterno: all’autarchia.
L’autarchia appariva non solo il frutto di un poderoso
sforzo nazionale, ma, soprattutto, avrebbe permesso ai due regimi, ampiamente
boicottati dalla Società delle Nazioni, di affrancarsi dal ricatto degli
embarghi e di perseguire una politica interna ed estera del tutto spregiudicate;
senza contare che l’idea autarchica soffiava sul fuoco dell’orgoglio nazionale.
In particolare, a partire da una certa data, che potremmo
collocare intorno alla metà degli anni ’30, le due economie (naturalmente,
quella tedesca in maniera più sensibile) si dedicarono ad un imponente riarmo;
il che significava grandi commesse statali e, quindi, una dilatazione della
spesa pubblica, esattamente come nel caso del New Deal americano.
Solo che, anziché trattori, si producevano panzer!
Un po’ sulla falsariga di quanto stava avvenendo in
U.R.S.S., con i piani quinquennali, in Germania fu varato un piano economico
quadriennale, che, tra il 1936 ed il 1939, cancellò dal vocabolario tedesco la
parola “disoccupati”, facendo aumentare la produzione del 110%.
Per gli operai, la presenza dello Stato nell’impresa
significò, da un lato, la perdita di ogni diritto rivendicativo e sindacale e,
dall’altra, la certezza del posto di lavoro e di un salario costante.
In Italia, la partecipazione dello Stato all’attività
imprenditoriale durante la crisi dei primi anni Trenta si concretizzò,
soprattutto, nella creazione di due grandi enti: l’IMI (Istituto Mobiliare
Italiano, 1931) che era, in pratica, una banca d’investimento a favore
dell’industria, e l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale, 1933), che,
dal ruolo iniziale di ente per salvare banche ed industrie in crisi, divenne,
nel 1937, un ente permanente di gestione; in pratica, cioè, divenne proprietario
dei propri assistiti.
Il risultato politico di questi diversi atteggiamenti
economici e, più in generale, degli effetti della crisi del ’29, fu, in pratica,
la cessazione di ogni collaborazione internazionale di ampio respiro, con le
varie economie chiuse in se stesse e protette da dazi e gabelle, in un regime di
isolazionismo e di sciovinismo.
DITTATURE E DEMOCRAZIE
A metà degli anni ’30, la carta d’Europa si era andata
delineando, con un blocco compatto di regimi autoritari di stampo nazionalista e
nazionalsociale e un blocco assai più incerto e sfilacciato di democrazie di
stampo liberale.
Come noteremo, ad una politica estera aggressiva e
velleitaria delle prime corrispose un atteggiamento incerto e tentennante delle
seconde, che avrebbe portato al trattato di Monaco e alla corsa verso la guerra.
D’altra parte, mentre all’interno delle democrazie era in
corso un’aspra lotta politica, negli stati totalitari il consenso raggiungeva
l’apice.
Mussolini, ad esempio, che si era ingraziato i cattolici,
con la stipula dei Patti Lateranensi (11/2/1929), si atteggiava a risanatore
dell’economia e aveva conquistato, con la guerra d’Etiopia (1935-36), l’Impero:
godeva, perciò, negli anni immediatamente antecedenti lo scoppio della seconda
guerra mondiale, di un indiscusso e vastissimo consenso popolare, che non era
solo il prodotto della paura, ma, per buona parte, rispecchiava i reali
sentimenti degli Italiani.
Furono le dissennate prese di posizione a favore del
nazismo e dell’entrata in guerra che alienarono al Duce le simpatie della gente;
ma possiamo tranquillamente dire che, nel 1936, Mussolini era ancora il
beniamino del popolo italiano.
Normalmente, poi, si tende a considerare l’Europa degli
anni ’30 divisa in tre grandi blocchi: Italia, Germania e, in seguito, Spagna,
contrapposte a Francia ed Inghilterra, con una terza, vasta, zona grigia di
paesi che non erano né con Cesare né contro Cesare: naturalmente, non era
proprio così.
In Europa, proprio negli anni’30, si diffuse tutta una
serie di regimi dittatoriali, che, se non d’ispirazione direttamente fascista,
erano certamente di impronta conservatrice, spesso ultracattolica e,
naturalmente, ad economia corporativa, come quello austriaco di Dollfuss (1934)
o quello portoghese di Salazar (1934).
A questi modelli, si devono aggiungere le dittature
d’impianto più tradizionale, che si svilupparono come funghi nei paesi
economicamente più arretrati, come in Ungheria, Polonia, paesi baltici,
Yugoslavia, Albania, Grecia, Romania e Bulgaria: questi regimi si basavano
spesso su di una triade composta da potere politico, potere militare e
proprietari terrieri, ed erano concordemente animati da un feroce anticomunismo;
la qual cosa ha una qualche giustificazione, se consideriamo chi avevano per
vicino di casa i paesi che ho citato!
Oltre a questo, dobbiamo sottolineare che in quasi tutti
i paesi europei, compreso il Regno Unito, erano sorti partiti di ispirazione
fascista, come i Rexisti belgi, il PNS olandese, il BUF inglese o il PPF
francese, sebbene si trattasse di formazioni poco numerose ed ininfluenti
politicamente.
Non così, invece, il movimento croato degli Ustascia di
Ante Pavelic , la Guardia di Ferro di Codreanu, in Romania o le Croci Frecciate
ungheresi, che ebbero un ruolo primario nella vita politica di quei paesi.
La reazione a questo diffondersi della dottrina fascista
non tardò a farsi vedere: nel 1935, l’U.R.S.S., per mezzo della Terza
Internazionale, lanciò la politica dei Fronti popolari, che imponeva ai
comunisti d’Europa di allearsi, in chiave antifascista, con socialisti e
liberali.
Nel 1936, il FP vinse le elezioni in Francia, e divenne
primo ministro il socialista Blum, che, però, boicottato dai poteri forti, un
anno dopo dovette dimettersi: nel 1938 si era tornati ad un governo radicale,
con le sinistre all’opposizione.
Anche in Spagna il FP si impose, nel 1936, ma la guerra
civile lo travolse.
Il tentativo di dividere le due principali dittature di
destra, creando un’alleanza Francia-Gran Bretagna-Italia, in chiave antitedesca
(il cosiddetto “fronte di Stresa” del 1935) sarebbe stato sconfessato, di lì a
poco, dall’intervento italiano in Etiopia.
Restava la Società delle Nazioni, ma, come vedremo,
contava quanto il due di coppe; come avrebbe dimostrato proprio la guerra
italo-etiopica.
GLI ANNI DEL TERRORE COMUNISTA
In U.R.S.S. , il 21 gennaio 1924, era morto Lenin: certo,
era responsabile di diversi milioni di morti, ma, in confronto al suo
successore, era stato solo un dilettante.
Egli aveva governato un paese lacerato da una guerra
civile e che ne era uscito stremato; perciò, Lenin aveva puntato su di una
rinascita economica che partisse dalle campagne, per ridare fiato all’Unione
Sovietica.
Inaugurò, così la sua NEP, la nuova politica economica
russa, macellando giudiziosamente chi vi si opponesse, o anche solo chi fosse
stato un proprietario terriero di un certo tipo.
Ma era, economicamente e politicamente, come ho detto, un
dilettante.
Il suo successore, il compagno Dzugasvili, georgiano
rozzo ed astuto, più noto col soprannome di Stalin, avrebbe mostrato al mondo
come si faceva a mettere in atto il comunismo reale!
Tanto per cominciare, con Stalin si ebbe la completa
identificazione tra Stato Sovietico e PCUS: il bene comune era noto solo agli
apparati della Nomenklatura, perciò, chiunque andasse contro il partito era
semplicemente un pazzo, perché non voleva il proprio bene: era un potenziale
suicida.
Stalin, infatti, aiutò qualche milione di questi pazzi a
suicidarsi, in una sagra del cupio dissolvi che rappresenta, a tutt’oggi, il più
sfrenato massacro di cui la storia tramandi (si fa per dire) memoria.
I primi a fare i conti con la sete di sangue di Stalin
furono i kulaki, i contadini ricchi, che, a partire dal 1929, vennero sterminati
come sabotatori della rivoluzione.
Nella sua ascesa al potere assoluto ed incontrastato,
Stalin allontanò uno ad uno dal partito tutti i possibili oppositori, o anche
solo chi poteva dargli ombra: Trotckij, Bucharin (il continuatore della NEP),
Zino’ev e Kamenev, innanzi tutto.
Puntualmente, alla morte civile, fece seguito quella
fisica, e uno ad uno, i “vecchi bolscevichi” sparirono nelle grandi repressioni
degli anni Trenta, note al mondo come “Purghe”.
Quando fu ben sicuro della sua posizione, Stalin cominciò
a creare la nuova Unione Sovietica: un sistema totalitario basato su di una
onnipotente burocrazia, teso a ferrei obiettivi di crescita industriale ( i
cosiddetti “piani quinquennali”) e retto col terrore da una casta di poliziotti
politici coperti di privilegi e al di sopra della legge, la NKVD, che fu
protagonista dei terribili massacri e dei processi farsa del 1934-38, che
colpirono, dapprima, le personalità politiche, poi i militari, i tecnici, e,
infine, a casaccio, un po’ tutti quanti.
La causa occasionale che determinò l’inizio del terrore
staliniano, fu l’omicidio (1934) di uno dei capi sovietici, Kirov: le modalità
con cui gli spararono, nel suo ufficio, lasciano, però, chiaramente intendere
che, in realtà, c’era lo zampino della NKVD.
Da quel momento, nessuno sfuggì al terrore staliniano:
bastava una parola, un cenno, e i figli denunciavano i padri, le mogli i mariti.
Molti furono fucilati senz’ altro che un processo
sommario, altri subirono processi pubblici grotteschi, in cui, anche se
innocenti, veniva ordinato loro di confessare colpe del tutto
inverosimili, dicendo che dovevano farlo per il Partito.
E quelli, disciplinatamente, confessavano!
La maggioranza, milioni e milioni, sparì nei gulag
del grande Est, e se ne perse memoria.
Quando, nel 1953, Stalin morì, ci fu chi, in Italia,
scrisse che era morto il padre della libertà e della democrazia.
Qualcuno di quelli che lo scrissero, siede oggi nel
nostro Parlamento, e si permette di giudicare la coscienza democratica degli
altri!
VERSO LA SECONDA GUERRA MONDIALE
Alla vigilia del trattato di Monaco, dell’ottobre 1938,
l’atmosfera politica internazionale era tesa e preoccupata; un po’ tutti, però,
pensavano che, dopo soli vent’anni dalla fine di un conflitto spaventoso, il
mondo non sarebbe stato così pazzo da gettarsi in un’altra guerra mondiale.
Eppure, gli anni tra il 1935 ed il 1938 avevano mostrato
una evidentissima escalation dei conflitti locali, un riarmo massiccio ed una
progressiva aggressività nei rapporti internazionali: tutti segnali che dovevano
mettere le democrazie occidentali sull’avviso.
Hitler voleva la guerra, ed era determinato a chiedere
sempre di più alla comunità internazionale, finchè non avrebbero dovuto dirgli
di no.
Le prove generali del conflitto furono fatte in Etiopia e
in Spagna.
Già all’inizio degli anni ’30, in Italia si era diffusa
la teoria secondo cui la soluzione ai problemi di sovrappopolazione e di
scarsità di materie prime del Paese si doveva trovare in una ulteriore spinta
coloniale (veniva ripresa un’idea nata ai tempi della guerra di Libia, in
realtà).
L’incidente di frontiera di Ual-Ual (12/1934), tra
italiani ed etiopici, fu il pretesto che Mussolini cercava.
A nulla valse il tentativo britannico di mediazione: il
Duce, ormai, aveva deciso di “vendicare Adua”.
Si confezionò, dunque, per l’opinione pubblica, una
ridicola versione dei fatti, secondo cui gli Italiani sarebbero andati in
Etiopia a liberare gli Etiopi da se stessi, o, meglio dalla schiavitù in
cui li teneva il Negus Hailè Selassiè.
La guerra fu iniziata, senza regolare dichiarazione,
nell’ottobre del ’35, e si concluse nel maggio del ’36, dopo una lotta dura e
con un grande dispendio di mezzi: nasceva l’Africa Orientale Italiana e Vittorio
Emanuele diventava imperatore.
La Società delle Nazioni lanciò delle sanzioni contro
l’Italia, ma il loro risultato fu tanto meschino che, già nel luglio del 1936,
esse furono ritirate: la SdN aveva mostrato tutta la sua impotenza ed inutilità.
Tuttavia, nonostante che Francia ed Inghilterra, per non
alienarsi le simpatie di Mussolini, avessero addolcito di molto le sanzioni, il
Duce si allontanò da loro, per avvicinarsi una prima volta alla Germania
nazista: si stava delineando l’idea dell’Asse Roma-Berlino, che sarebbe nato nel
novembre del 1936, nonché quella del nuovo ordine mondiale, in cui le nazioni
povere e anticomuniste (il patto anticomintern è del 1937) si contrapponevano a
quelle “demoplutocratiche”.
Nel frattempo, Hitler non era rimasto con le mani in
mano: nel 1935 aveva denunciato il trattato di Versailles e, un anno dopo, aveva
occupato militarmente la Renania, senza che la Francia osasse reagire.
Ma il vero terreno di scontro tra fascismo ed
antifascismo, sarebbe stata la guerra civile spagnola.
In Spagna, la vittoria del FP del 1936 aveva portato una
serie di tentativi di riforma della società che erano odiosi agli occhi dei
cattolici e dei proprietari, e aveva visto una scontro sempre più duro tra gli
uomini del FP e quelli della Falange (formazione filofascista, creata da Josè
Antonio Primo de Rivera).
Le violenze da una parte e dall’altra si moltiplicarono,
fino all’assassinio del capo monarchico Calvo Sotelo, cui seguì l’alzamiento
dell’esercito contro la repubblica, con la guida del comandante delle truppe in
Marocco, Francisco Franco (17/7/1936).
Lo sbarco sulla penisola iberica delle truppe di Franco
diede il via alla guerra civile, che costò alla Spagna quasi mezzo milione di
morti, e vide episodi di mostruosa ferocia da entrambe le parti.
La guerra si concluse il 28 marzo del 1939, con
l’ingresso vittorioso a Madrid di Franco: il Caudillo diventava dittatore e lo
sarebbe rimasto per molti anni ancora.
Di fatto, se non ufficialmente, parteciparono alla guerra
civile, dalla parte di Franco, Italia e Germania e, da quella dei Repubblicani,
l’Unione Sovietica, e le Brigate Internazionali, formate da antifascisti
(perloppiù comunisti, tout court) di tutto il mondo; la guerra di Spagna
divenne, perciò, la metafora della lotta tra fascismo ed antifascismo, con i
suoi miti ed i suoi eroismi, ma anche con molte pagine oscure.
Intanto la Germania perseguiva la sua politica di
annessioni, seguendo il dettato di quanto Hitler aveva enunciato nel suo
libro-guida “mein Kampf”, pubblicato nel 1924, all’indomani del fallito Putsch
di Monaco.
Hitler sosteneva che tutti i popoli tedeschi
dovessero riunirsi in un’unica comunità (Grossdeutschland), identificata da
comuni caratteri razziali (Volksgenossen), in barba alle frontiere di
Versailles.
La Germania, inoltre, necessitava di maggior spazio
vitale (Lebensraum) che doveva acquisire a spese del nemico tradizionale, ossia
gli Slavi.
Per questo, dal 1938 in poi, Hitler perseguì una politica
di annessioni (Anschluss) che cominciarono con l’Austria (12 marzo 1938).
La tecnica da parte della Germania era sempre la stessa:
sostenere la crescita di partiti nazisti filo annessionisti nei paesi da
occupare, simulare disordini contro i nazisti ed intervenire in loro difesa: in
Austria fu il neo cancelliere nazista Seyss-Inquart ad invitare Hitler
all’Anschluss, dopo aver preso il potere con la violenza e l’intimidazione.
Tuttavia, l’Austria non era troppo scontenta di questa
annessione: il 99% degli Austriaci votò sì al plebiscito che la sanciva.
Francia ed Inghilterra tendevano ad accontentare il
Fuhrer, in nome dell’appeasement, cioè del tentativo di mantenere la pace ad
ogni costo, lanciato dall’inglese Chamberlain; questa tecnica, però, avrebbe
dato pessimi frutti: Hitler era incontentabile.
Infatti, di lì a poco, rivendicò la tedeschità dei Sudeti
cecoslovacchi, che erano una minoranza (20%della popolazione) di lingua
tedesca.
Per scongiurare l’intervento militare di Hitler, a
Monaco, il 29 e 30 settembre del ’38, si tenne una conferenza a quattro
(Mussolini, Chamberlain, il francese Daladier ed Hitler) in cui si decise
l’annessione alla Germania del territorio sudeto.
Il ministro cecoslovacco Benes, che era stato lasciato
fuori dalla sala del congresso, fu messo di fronte al fatto compiuto e commentò
amaramente, dicendo che, se con questo sacrificio del suo paese si salvava la
pace, lo avrebbe accettato, ma, in caso contrario, che Dio avesse pietà di loro.
Il 15 marzo del 1939 le truppe tedesche avrebbero
occupato Praga e sarebbe sparita la Cecoslovacchia, divenuta un protettorato
tedesco.
Nemmeno sei mesi dopo, Hitler avrebbe attaccato la
Polonia.