PATRIARCATO DI VENEZIA

PASTORALE SPOSI E FAMIGLIA

 

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SCHEDE DI RIFLESSIONE 

IN PREPARAZIONE ALLA 

XVII ASSEMBLEA DEGLI SPOSI

  Santa MarIa Concetta di Eraclea

 20 ottobre 2002

CON CRISTO DENTRO LA STORIA

 

SOMMARIO

 

DALLA CONTEMPLAZIONE DI GESÚ CRISTO ALL’AMORE PER SEMPRE E SENZA  CONFINI DEGLI SPOSI CRISTIANI  DENTRO LA STORIA.

d. Silvio Zardon per la Commissione diocesana Sposi e Famiglia

Premessa

La contemplazione di Gesù è un prolungato affettuoso sguardo fissato su di lui

Gesù nel Matrimonio sceglie l'umanità degli sposi per "narrare" l'amore di Dio agli uomini 

Gli sposi cristiani "soggetto sociale-politico" per la costruzione della città degli uomini

Conclusione  

APPENDICE

L'AMORE SPONSALE NELL'ANTROPOLOGIA DI GIOVANNI PAOLO II pag

F. Cuzzocrea

 

MATERNITÀ E PATERNITÀ DI DIO NELLA BIBBIA pag

GF. Ravasi

 

GLI SPOSI E LA FAMIGLIA: TESTIMONI DELLA SPERANZA ALL’INIZIO DEL TERZO MILLENNIO pag     

G. Weigel

 

L’Assemblea si pone nella prospettiva del progetto pastorale diocesano 2002-2003: “Lieti nella speranza”, ispirato al Concilio: ”La Chiesa sa perfettamente che il suo messaggio è in armonia con le aspirazioni più segrete del cuore umano quando essa difende la dignità della vocazione umana e così dona la speranza a quanti ormai non osano più credere alla grandezza del loro destino”, GS 21.

. 
DALLA CONTEMPLAZIONE DI GESU’ CRISTO ALL’AMORE PER SEMPRE  E SENZA  CONFINI DEGLI SPOSI CRISTIANI  DENTRO LA STORIA.  

  PREMESSA

È fondamentale il fatto che, da oltre cinque anni, stiamo sostando assieme in contemplazione del “mistero” Gesù Cristo. Guardiamo a Lui e ci si spalancano orizzonti infiniti, che ci superano e ci aprono a Dio. Una realtà che non riusciamo a comprendere, a misurare con il nostro metro umano.

In questi anni stiamo contemplando il mistero di Gesù, non soltanto per un piacere intellettuale, per lasciarci prendere dal suo fascino e poi seguirlo, perché Lui è l’unico nostro salvatore, al di fuori del quale non c’è salvezza.

Ma il fatto che ci sta a cuore è proprio capire sempre di più Gesù, perché ci è stata data la grazia di intuire che niente è più bello, niente ci spalanca gli spazi della felicità, più che conoscere ed amare Gesù Cristo, per poi seguirlo e realizzare così un autentico incontro personale con Lui. Egli, infatti, è il “tu” della nostra vita, l’unico nostro salvatore.

In questi anni abbiamo riflettuto su alcuni attributi di Gesù, secondo una catalogazione convenzionale, però ricca: Cristo sacerdote, Cristo re, Cristo profeta. Potremmo aggiungere altre peculiarità del Cristo, ma in queste riusciamo a cogliere bene e con sufficiente completezza la persona del Signore Gesù.

  AL SOMMARIO

1. LA CONTEMPLAZIONE DI GESÙ È UN PROLUNGATO AFFETTUOSO SGUARDO FISSATO SU DI LUI

“Giovanni, stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’Agnello di Dio”, Gv 1, 28- 29.  Lo guarda, lo contempla e si sforza di capirlo.

“ E i due discepoli (Giovanni e Andrea) sentendolo parlare così, seguirono Gesù (anch’essi affascinati dalla sua presenza). Gesù allora si voltò (egli non lascia mai senza risposta quelli che lo guardano, che fissano la loro attenzione su di Lui) e, vedendo che lo seguivano, disse: <Che cercate?>. Gli risposero: <Rabbì, (che significa maestro), dove abiti?>. Disse loro: <Venite e vedrete>. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio”, Gv 1, 35-39.  

Contemplare Gesù, dunque, è fissare lo sguardo su Gesù e Gesù ci dona la sua amicizia, la sua grazia di comunione con noi.

Sta a noi poi tradurre questi doni nella concretezza della nostra vita e vedere come essa ne risulta impregnata; vedere che senso la nostra vita prende se si apre a questo dono, che il Signore fa ai coniugi oltre che a tutti i cristiani. 

Le due strade della contemplazione, per capire Gesù: 

-    Capire Gesù, la sua umanità.

Dal Vangelo non sappiamo molte cose. Probabilmente era una persona sana, vivace, molto bella, con degli occhi che ti penetrano, che sconvolgono le persone, entrano nel cuore a leggere le reazioni della gente di fronte a Lui. Mentre egli parlava, “una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse:“Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!”,  Lc 11, 27.

Ma fondamentalmente era un uomo come tutti.  Era un uomo molto buono, lo dicono molto bene gli evangelisti, con una grandissima  sensibilità verso i sofferenti. Si fermava sempre con loro, come catturato dai loro dolori e i sofferenti andavano da Lui quasi per istinto.

Ma questo giovane uomo, Gesù, si proclama Figlio di Dio: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, Gv 10, 30: un’affermazione assolutamente improbabile, incredibile in bocca a qualunque uomo di questo mondo, ma Gesù la fa. Diceva a questo proposito il Patriarca: “Leggete il Vangelo, non riuscite a dire che Gesù era un impostore. C’è tanto candore in quello che dice, un’infinita sincerità, c’è un riscontro totale fra quello che dice e fa, per cui è difficile catalogare negativamente Gesù” (Atti XII Assemblea).

       Ma la gente si domanda: quale è la strada per verificare se questo uomo è veramente il Figlio di Dio e guarda cosa    egli fa. Gesù rivela una forza straordinaria, fa i miracoli. Ma Gesù, anche se ammette che guardando ai miracoli si  possa arrivare a capire qualcosa, preferisce che la gente segua un’altra strada per dire se è Figlio di Dio. E quale?    Semplicemente: “Ve l’ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore. Le mie pecore  ascoltano la mia voce e io le conosco ed    esse mi seguono (…) Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti (…) Io e il Padre siamo una cosa sola”, Gv 10, 25-30. E aggiunge Gesù: “La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie“, Gv 3, 19.

  Perché gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce? perché non hanno colto la luce che brilla sul volto di Gesù?

Noi, oggi, riusciamo a guadare a Gesù con occhi buoni? a guardarlo con gli occhi limpidi del Centurione pagano, che “vistolo spirare in quel modo disse: Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio”, Mc  15, 39?

-  Quest’ uomo è risorto”. Vuol dire che è “vivo”!

È un fatto storico: Gesù è vivo, come noi che abbiamo un cuore che batte.

“Perché siete turbati e perché sorgono dei dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io.. Toccatemi e guardate; un fantasma, non ha carne e ossa come vedete che io ho. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: Avete qui qualche cosa da mangiare?”, Lc 24, 38-43. Gesù è vivo. Certo il suo corpo è glorificato. Nel suo corpo, quella divinità che era in lui dal concepimento e che era nascosta nella sua umanità,  per disegno del Padre,  con la risurrezione esplode nella sua umilissima umanità. È vivo nell’integrità della sua persona umana e divina. Agisce nella storia dell’uomo. Posso parlare, entrare in contatto con Lui.  Agisce direttamente sulle persone, normalmente attraverso noi è Lui che agisce, attraverso le mani della Chiesa. Questa è la cosa straordinaria. Noi ci siamo abituati: l’abitudine ci impedisce di stupire, di gioire per le cose anche più grandi. Gesù è presente nella storia dell’uomo nell’Eucaristia, è presente la divina persona di Gesù con.la sua anima e il suo corpo. Gesù è vivo.  

“O eterna verità e vera carità e cara eternità (…) Cercavo il modo di procurarmi la forza sufficiente per godere di te, e non la trovavo, finché non ebbi abbracciato il <Mediatore fra Dio e gli uomini, l’Uomo Cristo Gesù>, 1 Tm 2, 5, <che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli>, Rm 9, 5. Egli mi chiamò e mi disse: <Io sono la via, la verità e la vita>, Gv 14, 6; e unì quel cibo, che io non ero capace di prendere, al mio essere, poiché <il Verbo si fece carne>, Gv 1, 14. Così la tua Sapienza, per mezzo della quale hai creato ogni cosa, si rendeva alimento della nostra debolezza da bambini.”, dalle Confessioni di S.Agostino , Lib. 7, 18.

  AL SOMMARIO 

2. GESÙ NEL MATRIMONIO SCEGLIE L’ UMANITA’ DEGLI SPOSI PER “NARRARE” L’AMORE DI DIO AGLI UOMINI

Gesù è un “rivelatore”, è più semplice dire: è un “narratore” del Padre. Proprio questo ha fatto nella sua vita. Come figlio conosce bene il Padre, sa cosa pensa. Ha narrato il Padre nelle cose che ha fatto e detto. Nella sua vita di misericordia e di bontà ci ha narrato il Padre. Però non narra tutto del Padre da solo. Per narrare in pienezza la paternità e la maternità – che in Dio si identificano – si serve della nostra umanità, dell’umanità degli sposi. 

Attraverso il sacramento del matrimonio abilita l’uomo e la donna a narrare in un modo incomparabile la paternità e l’umanità di Dio. Senza il sacramento del matrimonio, senza gli sposi, gli uomini non riuscirebbero a capire tutta la ricchezza che c’è in Dio Sposo, Padre e Madre. La ricchezza contenuta in questa realtà che è l’Amore di Dio, l’amore che ci spinge al dono pieno di sé, un amore che dà la vita.  

In forza del sacramento del matrimonio, gli sposi danno pienezza alla narrazione di Dio che Gesù ha fatto: egli ha voluto portarla a compimento con loro. Non devono fare certo qualcosa di straordinario, ma nelle cose semplici, più quotidiane, più vere di sposi, di padri e madri: fare da mangiare, accudire la casa, lavorare per portare lo stipendio per mantenere figli e famiglia.

Questi gesti narrano il mistero nascosto che è l’immagine di Dio con cui Egli crea l’uomo e il mondo. L’opera di Cristo senza gli sposi cristiani è incompleta. Il capo non basta, Cristo fallirebbe. Gli sposi narrano con la loro vita, non inventando qualche cosa, ma amando la loro vita e quella dei figli, e di tutti.

. Ma questa scelta di Gesù di servirsi dell’umanità degli sposi per narrare con Lui a tutti gli uomini l’Amore di Dio, ha origine nella vocazione dell’uomo all’amore: “Dio è amore e vive in se stesso un mistero di comunione personale d’amore. Creandola a sua immagine e continuamente conservandola nell’essere, Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione”, FC 1.

  Secondo l’antropologia cristiana questa destinazione creaturale abbraccia tutto l’uomo fino alla sua dimensione corporea. Perciò nel rapporto tra marito e moglie nel matrimonio non vi può essere alcun ambito che rimanga estraneo a tale determinazione. Il rapporto di partecipazione tra marito e moglie nel matrimonio si fonda, già a partire dal suo significato creaturale, in un vincolo che acconsente incondizionatamente all’altro per suo amore e nella sua libertà.  

Da qui viene la riflessione teologica, ben nota ormai nella Chiesa: al principio non sta tanto l’amore di questo uomo e di questa donna, che intendono sposarsi e quindi realizzare una comunione d’amore nella loro esistenza. Alla radice non sta il cuore umano dell’uomo e della donna, ma sta il cuore stesso di Dio.  

Il matrimonio, allora, non è un’invenzione dell’uomo, ma una creazione di Dio stesso. E Dio ha voluto il matrimonio perché nella nostra storia umana ci fosse una immagine viva del mistero di Dio, del mistero di un Dio che è Uno e Trino, di un Dio che vive la sua vita di comunione d’amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Questo mistero è presente e operante nella storia proprio grazie a questa esperienza di vita, un’esperienza di comunione d’amore presente nella vita della coppia e della famiglia.

  L’ unità del Dio trinitario non appartiene dunque solo all’eternità, appartiene anche alla nostra storia, non è più solo un mistero invisibile ma, grazie a questo disegno di Dio, che ha pensato, ha desiderato, ha voluto, ha amato e ha realizzato il matrimonio, è un mistero visibile, parte integrante della storia umana. Questa verità fondamentale della fede cristiana, Dio è Uno e Trino, prima di impararla dal catechismo e prima di ascoltarla in una predica dei sacerdoti, noi la incontriamo là dove l’esperienza coniugale e familiare corrisponde al disegno di Dio

  La prima strada che Dio ha scelto per rivelare al mondo se stesso, è questa esperienza di vita della coppia e della famiglia . Cose note per un credente, cose bisognose di essere riconosciute e approfondite dagli sposi cristiani, cose che sono la chiave di lettura e di interpretazione della loro realtà umana. Queste verità rischiano di essere dimenticate.

Allora, la storia degli uomini,  secondo la Parola di Dio, è una storia che ha il suo elemento tipico e qualificante in questa comunione di Dio trinitario con l’uomo. Ma questa comunione di Dio con l’uomo ha trovato una volta per sempre la sua realizzazione nella persona di Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo. Tutta la storia si fa sintesi in questa persona: la persona del Figlio di Dio fatto uomo. Non si può capire Gesù Cristo o semplicemente non si può capire la storia umana. compendiata in Gesù Cristo, se non ci si dà appuntamento ai piedi della croce.

Proprio sulla croce Gesù Cristo ha rivelato, nella forma più luminosa, più intensa e più ricca, l’Amore di Dio per l’uomo: Cristo crocifisso è il Sacramento dell’amore di Dio per il mondo. S.Paolo, in un testo fondamentale per capire il matrimonio cristiano, invita gli sposi ad amarsi fra di loro e chiede che abbiano a contemplare Cristo Gesù: “Mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”, Ef 5, 22. L’amore pieno e totale per la Chiesa, il dono totale di sé alla Chiesa Gesù lo ha manifestato con la sua crocifissione.

Per questo motivo Giovanni Paolo secondo definisce gli sposi in modo singolarissimo e stupendo così: “Gli sposi sono il richiamo permanente per la Chiesa di ciò che è accaduto sulla croce”, FC 13.

L’amore di Cristo per la Chiesa, grazie al sacramento del matrimonio, è precisamente quell’amore che è presente nella vicenda degli sposi e della loro famiglia, che per questo à descritta  dal Concilio come Chiesa domestica.

  AL SOMMARIO

 

3. GLI SPOSI CRISTIANI “SOGGETTO SOCIALE-POLITICO” PER LA COSTRUZIONE DELLA CITTA’ DEGLI UOMINI

Dio ha scelto di aver bisogno dell’uomo per realizzare il suo disegno di comunione di vita con l’uomo nella sua storia. Di conseguenza, anche l’uomo di fede, che vuole incontrare Dio, non può prescindere dagli altri uomini e dalla loro storia: è incontrando gli uomini, condividendo la loro storia, che incontriamo Dio, Mt 25, 31-46. Il senso della creazione dell’uomo a immagine di Dio è proprio questo: l’uomo è fatto per essere nel mondo l’icona, il mediatore responsabile del disegno di Dio sul mondo.

  In quest’ottica il matrimonio assume particolare rilevanza: è l’atto con cui una donna ed un uomo offrono a Dio il loro amore, perché Egli ne disponga in Gesù Cristo per la salvezza del mondo, il matrimonio è quindi profezia dell’Amore di Dio per la sua Chiesa e per il mondo. Gli sposi trovano nell’Amore di Cristo per la Chiesa il modello della loro comunione di vita.

  La coppia e la famiglia sono quindi il luogo privilegiato di relazione ed incontro tra gli uomini e quindi con Dio , rappresentano nella Chiesa e nella Società la forma primaria della vita e della fede. Nella misura in cui si sentono amati da Dio gli sposi sono chiamati  ad amare l’uomo, a renderlo libero nella giustizia. In questo nessuno è più esperto degli sposi, perché gli sposi hanno scelto col matrimonio di esperimentare l’amore per l’uomo per sempre, ogni giorno, nelle relazioni più intime con il coniuge, con i figli. Gli sposi devono essere quindi nella storia il germe di un nuovo modo di pensare e di vivere.

Il significato dell’esperienza di coppia si esplica anche attraverso i suoi vincoli vitali e organici con la società, che iniziano dalla sua azione “generativa” ed “educativa” , cf FC 42 e 47; Direttorio di Pastorale familiare 179.

  Gli sposi e la famiglia devono partecipare alla costruzione della città degli uomini , mettendo a disposizione le loro risorse e carismi a favore di tutti gli uomini perché la loro responsabilità culturale, sociale, politica nasce direttamente dalla specificità del sacramento del matrimonio. Non devono fermarsi alla sola “testimonianza” e tanto meno accettare la tentazione “corporativa”. In una parola, è lo stesso sacramento del matrimonio il “luogo” nel quale viene proclamata l’istanza etica dell’impegno sociale e politico della coppia e della famiglia.

  È necessario che gli sposi e le famiglie conoscano e vivano questa grazia del matrimonio cristiano; l’impegno sociale, culturale e politico non deriva agli sposi da un’autorità esterna o da circostanze storiche, ma deriva dal “cuore nuovo” creato dallo Spirito Santo, effuso mediante la celebrazione del sacramento del matrimonio, cf LG 11 e FC 47.

  Occorre definire un progetto di formazione con la cooperazione di altre realtà diocesane, perché, dice il Patriarca, l’impegno, ad esempio, della carità della Chiesa e, in particolare, degli sposi, non deve rispondere solo all’emergenza, ma deve divenire sempre più “sapienza”, per spingere le istituzioni, sollecitare i movimenti di opinione e legislativi a far crescere la società e lo Stato in umanità e solidarietà, Gds 117.

  “Il primo campo di impegno degli sposi “soggetto sociale-politico”.

Il ruolo sociale e politico degli sposi può svolgersi a partire da qualcosa di originale e cioè dalla sua potenzialità “educativa”: dall’ educarsi e dall’educare i componenti della famiglia, i figli in particolare, al senso della vita, a riconoscere e promuovere l’uomo nella sua integrità.

Qualsiasi intervento di carattere sociale e politico, qualsiasi forma sociale in cui la coppia e la famiglia siano coinvolte, non può che avere come obiettivo l’uomo. 

A questo proposito, è necessario impegnarsi secondo le indicazioni della “Centesimus Annus” di Giovanni Paolo II (1991): su come affrontare la “cultura consumistica” che domina il sistema delle economie avanzate come la nostra; occorre proporre un nuovo modello di sviluppo, fondato su una cultura e uno stile di vita solidaristici che abbiano al centro la persona umana, che siano allo stesso tempo aperti al trascendente; la questione “ecologica”, strettamente connessa al problema del consumismo (preoccupanti questi sistemi per la visione distorta dell’uomo che anima queste culture) oggi si presenta secondo tre modalità: distruzione dell’ambiente naturale, distruzione dell’ambiente umano, distruzione dell’uomo stesso.  

Capitolo importante, dunque, sottolinea il Papa, dell’ecologia umana autentica è l’educazione della persona, in particolare l’educazione a una nozione di sviluppo regolata da una visione integrale dell’uomo, CA 39.

  Anche attraverso la discussione in casa dei fatti “politici”, pubblici, recuperando gli eventi del passato per dare un significato all’oggi, si può arrivare a considerare la “cosa” pubblica come “cosa” della persona e della famiglia, quindi considerare la storia degli uomini come la nostra storia.

È possibile in casa imparare ed educare al rispetto per le istituzioni che non vuol dire perdere la capacità di porsi criticamente nei loro confronti, cf GS 30.

  Dunque, nella “Centesimus Annus” il Papa richiama al “primato dell’educazionne” in vista della soluzione della “questione sociale”.

  La politica come scelta della coppia

Gli sposi cristiani, forti della particolare promozione umana che fanno in casa, devono essere consci anche della necessità di interventi legislativi. Non si possono porre solo a livello di testimonianza, ma devono porsi come soggetti attivi all’interno di un’ esperienza politica diretta, in un pluralismo di scelte ormai riconosciute, senza cadere nella tentazione corporativa. L’esperienza degli sposi e delle famiglie può diventare il germe di una politica rinnovata fino ad assumere forme propriamente politiche di partecipazione democratica alla vita della società. È possibile adoperarsi affinché le leggi e le istituzioni dello Stato sostengano e difendano i diritti e i doveri delle persone. 

Le coppie e le famiglie quindi come protagoniste della trasformazione della società e della costruzione della storia.

Diversamente le coppie e le famiglie saranno le prime a risentire di quei mali, che si sono limitate ad osservare con  un atteggiamento di delega e di indifferenza.

  AL SOMMARIO

  CONCLUSIONE.

Dunque, è Gesù che chiama l’amore coniugale, divenuto sacramento, a dilatarsi verso tutti gli uomini incominciando dagli “ultimi”. Sono una moltitudine di uomini e di donne di ogni età: handicappati fisici e psichici, sordomuti, ciechi, poveri, tossicodipendenti, anziani soli, gli affamati, i profughi che vengono da lontano. Essi aspettano questi “segni di speranza”.

Ma Gesù chiama gli sposi cristiani e le famiglie a far sì che questo loro amore divenga anche “impegno culturale, sociale e politico per spingere le istituzioni, sollecitare i movimenti di opinione e legislativi a far crescere la Società e lo Stato in umanità e solidarietà”, Gds 127.

Per questo gli sposi nella loro casa, come tutti i battezzati di questa nostra Chiesa, si mettono in ascolto del libro degli ATTI dove lo Spirito del Risorto si rivela colui che fa la Chiesa missionaria, piena di Speranza, che cammina “dentro la storia”, capace di ascoltare, gioire, soffrire, donare; capace di “novità”, di uscire e incontrare tutti: ebrei e pagani, poveri e potenti, uomini e donne, giovani e anziani.

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APPENDICE

La dimensione cosmica-antropologica della coppia umana .

 

La prima coppia, Adamo ed Eva, già dalla sua creazione, è annuncio e profezia del Verbo fatto carne al fine di divenire una caro, Gen 2, 25, con l’umanità.

La prima coppia è già annuncio – secondo i profeti hanno – delle nozze del Cristo col popolo di Israele, ma anche con ogni carne, con ogni umana persona.

 

La rivelazione del mistero creazionale e nuziale, è avvenuta in occasione del primo segno creato da Cristo, in Cana di Galilea, Gv 2, 1-11, operato in corrispondenza al primo atto posto dal Dio creatore. Il segno creato da Cristo e l’oiginario atto creatore di Dio, sono i due fuochi dell’elisse simbolica nuziale del progetto divino verso l’umano.

 

Dunque, la realtà sponsale è realtà posta dal Dio creatore fin dall’inizio dell’umanità. La comparsa dell’umanità coincide con la comparsa della nuzialità: il simbolo nuziale caratterizza l’umanità in quanto tale, quando appare sulla terra, l’umanità è già nuziale.

L’inizio della coppia mette la coppia nelle vicinanze di Dio, il paradiso, ma mette la coppia anche sulla soglia della storia.

Proprio per l’ una caro sponsale, storica e di terra, i coniugi possono fare esperienza di comunione “con” Dio.

 

Questo è il loro destino, questa la loro storia. Perchè è storia anche l’inizio della coppia posta direttamente da Dio; ma è una storia che diviene fin troppo umana, perché si stacca presto con il peccato originario dal Creatore, senza con ciò tuttavia perdere totalmente il ricordo di Dio, senza smarrire totalmente l’ impronta del suo gesto Creatore.

 

Ma, da subito, nella prima coppia ecco e memoria e nostalgia: è come dire che il divino non gli si è mai totalmente smarrito. Dio ha creato l’uomo per l’immortalità facendolo a immagine della sua natura: “Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura”, Sap 2, 23.

Così, nonostante la morte entrata nel mondo per l’invidia del diavolo: “Ma la morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo”, Sap 2, 24, Dio ha lasciato nel cuore dell’uomo la notizia e la nostalgia dell’eterno: “ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine”, Qo 33, 11.   

 

L’ una caro, dunque, attesta e richiama l’inizio da Dio . Ma è anche profezia, notizia e nostalgia del divino; nostalgia di pienezza e di durata; nostalgia del paradiso, della sua presenza. È ricerca di compimento e di esperienza amorosa duratura, per sempre.

Tutte le coppie umane cercheranno di risalire le acque della storia per ritrovare l’origine prima e la pienezza, quell’archè che non è “esterna” al tempo, quell’archè che dia  nel contempo la pienezza realizzata dell’amore agapico e erotico.

 

Un vero amore nuziale non può non bramare il divino e non cercare l’ eterno , che è già qui ora, non dopo né là altrove. Solo il cuore dell’Uomo può distanziare dal cuore di Dio.

 

Questo lo si narra nelle molteplici storie di coppie bibliche. Di queste storie la Bibbia ne conserva tracce, autorevoli, come le figure nuziali di Abramo e Sara, Gen 16; Isacco e Rebecca, Gen 24, 1-67; Giacobbe e Rachele, Gen 29, 15-30.

Ma si rinnova in ogni ambito umano, sotto ogni cielo, su ogni terra.

Resta fermo un dato. Attraverso la propria immagine “impressa” nella coppia, Dio vi ha immesso anche il pungolo del desiderio del divino, dell’infinito, di potere pervenire all’effettiva somiglianza con Dio. Questo, Dio l’ ha messo in ogni coppia, e tale “fatto” ogni coppia, in forme e misure diverse, lo sperimenta anche se non sa dare né nome né volto.

 

A partire dalla coppia originaria, sia pure ferita, si intuiscono gli ambiti e le dimensioni dell’amore sponsale: gioco di parola e sguardo, vissuto nell’una caro quale mondo del gesto poetico e come luogo e momento degli sposi, i quali sono IN e AD l’uno rispetto all’altra, senza smarrirsi ma anche senza smarrire il contatto con Dio e con l’intera creazione cosmica e animale.

Queste dimensioni restano reali, sia pure mai totalmente realizzate e mai in modo pienamente armonico. La ricerca del paradiso è ricerca del divino ma anche della pienezza della relazione nuziale. Della bellezza, che è amore vissuto.

Ogni coppia si mette in cerca dell’accesso in paradiso, in Dio e nell’Amore, come a far rivivere il primo giudizio di Dio che aveva dichiarato l’amore nuziale una cosa molto bella/buona.

In cerca del santo Graal. Come a ritrovare l’originaria benedizione che Dio aveva fatto scendere sulla prima coppia e quindi disponibile per ogni coppia.

 

E questo fino a Cristo ; e fino all’escatologia compiuta della fine dei tempi. Fino allo splendore di gloria della coppia regale escatologica.

 

Quindi, ogni coppia vuole risalire all’origine.

Dio non si oppone. Anzi: sembra che sia lui a volere e a tessere ogni volta a nuovo una storia di amore coniugale per cercare di potere riavviare/rianimare la creazione prima dell’uomo/donna.

 

Se la rivelazione è ispirata, guidata da Dio attraverso i profeti da lui scelti e mandati, egli non fa che svelare e far conoscere il cuore segreto della sua creazione e dell’elezione di Israele, e la prospettiva di fondo e finale che le muove. Il Dio della profezia non fa che prendere l’opera della propria creazione: il dato e la realtà della coppia plasmata/creata è già rivelazione, profezia.

 

A tale luce la nuzialità umana non è mai stata nel pensiero di Dio una mera realtà istituzionale o legale; essa ha sempre avuto ed ha un proprio nucleo divino profetico.

Per questo la nuzialità umana può essere assunta a simbolo del progetto divino, perché il suo nucleo centrale, voluto da Dio, permane nonostante i tradimenti e le infedeltà dei singoli sposi. L’inadeguatezza, più o meno colpevole degli sposi umanai, non soffoca, non offusca né scardina il nucleo divino/simbolico della nuzialità creata.

Anzi, proprio dentro le umane infedeltà, il nucleo della nuzialità umana creata può divenire, quasi per contrasto, più altamente simbolica/profetica delle nozze di Dio che vuole stabilire e vivere con l’umanità. Dio lascia emergere quel nucleo divino da lui stesso immesso nella nuzialità umana. E se l’uomo è infedele, Dio invece è fedele e le sue promesse sono senza pentimento.

 

Tale nuzialità profetica ingloba in sé anche quella cosmica . Tra vita della coppia e della natura, tra natura dei campi, fertilità della terra e fecondità della donna è molto stretto il rapporto. Basti evocare la vicenda di Rut e pensare alla vicenda drammatica di Osea: “E avverrà in quel giorno – oracolo del Signore –io risponderò al cielo ed esso risponderà alla terra; la terra risponderà con ik grano, il vino nuovo e l’olio e questi risponderanno a Izreel”, Os 2, 23-24.

(D. Silvio Zardon per la Commissione diocesana Sposi e Famiglia)

  AL SOMMARIO

 

 


L'AMORE SPONSALE

NELL'ANTROPOLOGIA DI GIOVANNI PAOLO II

Francesco Cuzzocrea

G iovanni Paolo II ha dedicato molto spazio nel suo Magistero al tema del matrimonio, confermandone la dignità sacramentale al pari della consacrazione vergi­nale. Nel suo pensiero, infatti, l'espressione «amore sponsale» vale indifferentemente per la persona sposata e per quella ver­gine consacrata. L'amore sponsale, come volto del Dio-comunione inscritto nella natura dì ogni persona, costituisce il senso profondo dell'universale chiamata alla santità.

 

 

LA BUONA NOVELLA DELL'AMORE SPONSALE

Esiste una nuova antropologia assai povera che a livello planetario qua­si regge tutto il mondo... antropologia mutilata, scarsa, povera..., un'antro­pologia utilitarista, positivista, dove i valori non contano più. Si assiste in tale contesto alla dissoluzione progressiva, e voluta, della famiglia, del ma­trimonio, ma anche della persona, dell'amore libero e responsabile, della piena donazione. È in particolare nella famiglia che troviamo l'emergenza antropologica. In realtà è proprio sulla concezione dell'uomo e del mondo che si giocano le scelte a favore o contro la vita, la libertà, la giustizia, la pace, e si tocca con mano ormai come questi grandi temi, nell'attuale oriz­zonte culturale, abbiano perso di spessore. In definitiva, mi sembra che l'impegno, o, se si vuole, la sfida affidata agli «uomini di buona volontà», si giochi sul terreno della fondamentale scelta biblica tra la luce e le tenebre, la morte e la vita, la verità e la cultura della menzogna.

Testimone infaticabile di questa Verità, venuta nel mondo per illumina­re l'uomo e il suo mistero, è il Santo Padre Giovanni Paolo II. Il suo pen­siero e il suo messaggio, accolti e approfonditi, potrebbero determinare un vero rinnovamento della cultura ed una più autentica «radicalità del bene».

Dopo la sua elezione al soglio pontificio, pensatori e storici, uomini di Chiesa e laici prendevano sempre più coscienza della novità che la figura di un Papa polacco avrebbe portato al mondo intero. Ma furono in pochi a rendersi conto che la novità più importante racchiusa in quella prima defi­nizione di se stesso, data da Giovanni Paolo II la sera della sua elezione nel suo primo e inatteso discorso («Un nuovo Vescovo di Roma (...) chiamato da un Paese lontano»), era la sua radice culturale, profondamente diversa da quella di tutto il mondo occidentale[1] . Questo Papa, con un forte e ricco bagaglio culturale, perfezionato a Roma ed approfondito attraverso l'inse­gnamento di etica presso la Facoltà Teologica di Cracovia e l'Università Cattolica di Lublino, con la sua spiccata sensibilità verso la pastorale fa­miliare, nella quale individuava una delle principali priorità[2] , aveva elabo­rato una filosofia dell'uomo del tutto autonoma, quando tra le materie di fi­losofia cristiana non c'era ancora l'antropologia nel suo significato odier­no[3] . Ma il merito del S. Padre non è solo quello pionieristico. Egli ha elabo­rato una proposta antropologica originalissima, per metodo e possibilità di sviluppo (antropologia adeguata), che coniuga insieme teologia e filosofia, fede e ragione, e che unifica pertanto quel sapere frammentario che carat­terizza particolarmente la cultura contemporanea.

Il S. Padre ha sempre usato indifferentemente l'espressione «amore sponsale» tanto per il matrimonio cristiano quanto per la consacrazione verginale. Se è vero che l'amore sponsale è il volto stesso di quel Dio-comunione inscritto come dono e come progetto nella natura di ogni perso­na umana chiamata all'esistenza e all'amore, l'universale chiamata alla san­tità ne costituisce la meta ed il senso più profondo[4] . L'unico battesimo cri­stiano si specifica nelle diverse vocazioni particolari come tante vie dell'u­nica fedeltà al progetto di Dio. Le due grandi chiamate che incarnano l'a­more sponsale sono, per il Pontefice, il Matrimonio cristiano e la Verginità per il Regno. In entrambi infatti la donazione è personale e totale[5] .

 

 

IL DONO SPONSALE NEL MATRIMONIO

L'amore come sentimento non è il contenuto unico e proprio del matri­monio. L'amore è un dono di Dio che si sperimenta nel cuore umano come un puro accadere nel quale si può essere coinvolti o travolti - addirittura sollecitati all'adesione - ma non è naturalmente una scelta, un progetto. Così, avere una relazione, vivere un legame affettivo senza l'esplicita vo­lontà di volersi amare può essere amore ma non già donazione reciproca della propria persona maschile o femminile. Gli amanti, cioè, possono vi­vere l'amore ma non assumere l'identità propria di sposi, che invece si pro­duce solo attraverso quell'atto della libera volontà, nuovo, originale e irri­petibile, capace di trasformare l'amore in impegno, l'amarsi in volontà di amarsi.

Nel matrimonio cristiano gli sposi rendono presente il dono di amore con cui Cristo si è unito alla Chiesa sua sposa per sempre (cfr. Ef 5, 25). L'amore sponsale, a imitazione di Cristo, servo obbediente (cfr. Is 42, 1), è per ogni battezzato nient'altro che obbedienza al progetto del Padre di da­re la vita per l'altro. Gli sposi cristiani trovano naturalmente la conferma di questa chiamata quando sperimentano, nell'adesione al vero amore, l'au­tentica realizzazione di sé.

L'amore nel suo nascere non si presenta come obbligo al cuore di un uomo e di una donna. Esso, pur tendendo naturalmente all'unità dei due, non deve nulla alla libera e responsabile scelta della coppia di essere una cosa sola, di coappartenersi. E di fatto l'uomo e la donna che semplice­mente si amano non si coappartengono in reciprocità, cioè non sono spo­si nel vero significato del termine. Perché si costituisca la nuova ed ori­ginale identità dei due nel noi matrimoniale è indispensabile un atto del­la volontà del tutto nuovo e fondamentale: il consenso matrimoniale. Quel sì esclusivo e totale, che può pronunciare, come scommessa per un impegno al di sopra di ogni circostanza spazio-temporale, solo chi si pos­siede totalmente, è il volontario termine del gratuito e l'inizio, allo stesso tempo, del libero dono, dovuto come giustizia, di tutta la vita e per sem­pre. Il cristiano impara questa radicalità del dono dal dono di Cristo, che ha amato la sua Chiesa a prezzo della vita e non smette di amarla (cfr. Gv 17, 26).

Se è vero che nell'obbligo non c'è l'amore, è anche vero che l'amore può assumere, in un determinato momento della storia di due persone che si amano, il carattere di impegno e dunque di libera scelta a doversi l'amore. In realtà questo impegno non è contrario all'amore, ma anzi lo realizza nella sua pienezza. E mentre non tutti coloro che dicono di amar­si possono di fatto considerarsi sposi, gli sposi sono peculiarmente colo­ro che si amano a tal punto da compromettere tutto il loro passato, pre­sente e futuro nella libera e responsabile unione delle loro vite. L'impegno matrimoniale, così, realizza pienamente l'amore di una coppia e questo si configura come libero dono di sé all'altro nella reciprocità del coappartenersi. In fondo, è il dono sponsale che fa dell'amore tra le per­sone un amore sponsale. Finché non giunge a tale traguardo l'amore ri­marrà nell'ordine del puro accadere senza incidere sull'essere e dunque sull'identità della coppia. Giungendo all'atto del totale donarsi, invece, la coppia crea una realtà nuova ed originale: la realtà sponsale dei due in uno, il noi delle due vite unite indissolubilmente. Qui l'amore non solo non cessa, ma si rinnova rinnovando l'intera esistenza dei due, diventa forza e sostegno, valore da realizzare e custodia, dono da vivere ogni giorno, da comunicarsi reciprocamente in modo unico ed originale. L'amore sponsale con cui Cristo ha amato la sua Chiesa genera, nel sa­cramento dell'alleanza, gli sposi cristiani e conferisce loro la forma spon­sale, li sostiene nel loro ministero e li invia per la testimonianza nella Chiesa e nel mondo (cfr. Rm 12, 1-2).

 

La trasformazione dell'amore nel matrimonio

Nel matrimonio l'amore viene sottoposto ad una trasformazione. Esso viene, per così dire, «preso in mano», assunto in prima persona e, sotto il dominio della libera volontà, trasformato in esigenza di giustizia. Mentre amare è qualcosa che si dà gratis, che non è dovuto, l'uomo e la donna che donandosi decidono liberamente di coappartenersi non si appartengono più singolarmente (cfr. Gn 2, 23; Ct 2, 16). È accaduto in un istante - l'i­stante del sì - che entrambi hanno giocato tutta la loro libertà lasciando definitivamente la loro personale solitudine. Da quel momento la libertà è solo quella di realizzare questo progetto, la libertà di decidersi per esso si è già esaurita totalmente. E mentre finora l'amore lasciava indifferente l'i­dentità dei due, da quel momento non sono più solo un uomo e una don­na ma sposi: sono coppia in quanto unità. È proprio qui l'atto di nascita dell'amore sponsale, un amore che si presenta come invito e possibilità (dono gratuito) ma che, per una straordinaria vocazione tipica ed esclusi­va della persona umana, viene trasformato dalla coppia in una realtà che coinvolge l'intera esistenza e a sua volta trasforma la stessa coppia di amanti in sposi[6] .

Vivere la vita coniugale significa vivere un amore che, dentro l'alleanza sponsale, realizza l'unità dei due; significa per l'uomo donare la propria ma­scolinità alla donna accogliendo, come propria, la sua femminilità, e per la donna donare la propria femminilità all'uomo accogliendo, come propria, la sua mascolinità. In altre parole, i due si coappartengono nella loro coniugabilità. È avvenuta così quella trasformazione dell'amore e tramite l'a­more di cui la coppia è protagonista e destinataria, ed in cui la coappar­tenenza e comunicazione dei corpi sessuati, come primo bene in comune dei coniugi, diventa principio d'intima compagnia ed aiuto tra loro, ma an­che principio di procreazione umana personalizzata (cfr. Gn 4, 1), dove cioè solamente ha dignità il nascere e il crescere di un'altra persona uma­na: il figlio. La fecondità dello Spirito, che trabocca dai cuori uniti in Cristo e nella Chiesa, è alito di vita che genera attraverso la carne nuovi frutti di amore. Mai come in questo momento gli sposi che si scambiano amore avvertono di scambiarsi quello Spirito che dimora nei loro corpi, inondati dell'acqua battesimale (1 Cor 6, 19). Comprendiamo allora come non solo non possano dare autenticamente la vita al figlio un uomo e una donna che non si sono fatti realmente dono reciproco e totale delle loro rispettive vite, ma ancora più radicalmente tradiscono la verità del loro amore mentre pensano di esprimerlo attraverso il solo scambio dei corpi, cioè proprio scambiandosi il gesto più significativo dell'amore autentica­mente sponsale.

L'amore sponsale di chi sceglie di impegnarsi nell'amore, e non si ac­contenta solamente di amare, ha una sua specificità, dei tratti distintivi. È amore totale, esclusivo, fedele e fecondo, proposto come dono e già vissuto nella risposta incondizionata degli sposi che mettono liberamen­te e generosamente vita-con-vita, che donandosi la vita donano al figlio la vita.

 

 

IL DONO SPONSALE

NELLA VERGINITÀ PER IL REGNO

Non è la storia umana la definitiva parola sull'uomo, il Cristo ne ha pie­namente svelato il mistero. L'uomo, nato nel tempo, è generato dalla sor­gente eterna per entrare in comunione con l'Eterno. Se l'uomo vive per se stesso non ha conosciuto il Signore della storia (cfr. Rm 14, 7-8). Infatti, le cose di questo mondo, per quanto attraenti siano, non sono tutto e non possono costituire il bene supremo e intramontabile degli uomini[7] .

Il mistero della vita verginale è il mistero stesso dell'amore sponsale, mi­stero di predilezione e di dono. Il consacrato sperimenta lo stupore-tremore di prendere parte ad un progetto di amore che guida la storia verso il Regno e di incarnare nell'oggi le gioie e le attese della terra. Ma è uomo, è pur sempre uomo tra gli uomini, ricolmo di gratitudine e di incertezze, di grandezza e di miseria. È solo alla luce di Cristo e del suo amore per gli uo­mini che si può comprendere il senso di una tale scelta di vita. Non può es­sere, infatti, una scelta di convenienza né di opportunità tra diverse pro­spettive. Non ha senso se alla sua origine manca la libera e gratuita elezio­ne da parte di quella Sapienza divina che tutto dispone e che ricolma in mo­do sovrabbondante il dono dei suoi servi fedeli.

La verginità è essenzialmente la chiamata di Dio. La vocazione è il teso­ro prezioso che l'uomo trova gratuitamente nel suo campo (cfr. Mt 13, 44). Chi può vantarsi di qualche qualità personale avverte ugualmente la spro­porzione tra le umane capacità e il peso di quella chiamata. Essa non è la richiesta superficiale di qualcosa, ma il desiderio profondo, da parte di Dio, di coinvolgere tutta l'esistenza personale nella causa del Regno. Ma Dio non è uno sconosciuto per l'uomo che sperimenta la chiamata. Nell'intimità della propria esperienza di fede, nell'abisso delle ferite umane che si trova a lenire, nella crescita progressiva del suo affetto filiale, l'uomo assapora l'attrazione che lo avvicina a Dio e nello stesso tempo sperimenta che la Parola onnipotente lo raggiunge, lo sceglie, lo chiama, lo manda. Non c'è contraddizione tra questa chiamata e la personale libertà dell'uomo, an­che se talvolta può esservi lotta. Giacobbe lottò tutta la notte con Dio (cfr. Gn 32, 25) e Giobbe sperimentò la sofferenza dell'amore che sradica l'uo­mo dalle sue terrene certezze (cfr. Gb 3, 1), ma da questa lotta nasce Israele e da questo amore nasce il credente. Anche l'amato spesso resiste all'amore e deve imparare gradatamente quell'abbandono che restituisce la pace. Finché il chiamato non depone l'estremo progetto umano, l'estre­ma paura, l'estremo peccato, nel cuore stesso di Colui che lo ama, la sua vita sembra disperdersi nel turbinio della disgregazione. Tuttavia, non ap­pena compie questo gesto di fiducia e di obbedienza, sente che dentro di sé tutto acquista un senso, tutto è armonia, tutto cammina verso la stessa direzione. È avvenuta la consapevolezza della piena corrispondenza tra ciò che è richiesto dalla grazia e il sogno dell'umana libertà che rincorre la sua piena realizzazione. La fede è in fondo questo ascolto disponibile (cfr. 1 Sam 3, 10), capace di rischiare tutto senza conoscere tutto (cfr. Le 1, 38), capace di prendere il largo da se stessi per approdare nella sponda dell'altro (cfr. Le 5, 4), del suo amore esigente, del suo desiderio travol­gente e, paradossalmente, ritrovare se stessi. Affidarsi diviene allora lo scopo e lo stile del chiamato. Cristo si rivolge alla sua personale miseria per orientarla verso la vetta della santità, cercata e ricevuta per sé e per i fratelli.

Dio ha fatto breccia nel cuore dell'uomo attraverso il dono unico e tra­volgente del suo Figlio che, attraverso la Pasqua, ha coinvolto l'uomo nel pellegrinaggio verso il cuore stesso di Dio (cfr. Le 15, 27). Gesù apre una breccia nel cuore del Padre attraverso il suo passaggio sponsale e vi intro­duce la Chiesa sua Sposa, unita a Lui per sempre (cfr. Eb 4, 14). È questa scoperta che muove dal di dentro i passi incerti dell'uomo, chiamato a vi­vere la stessa esperienza terrena di Cristo, il suo totale dono al Padre per l'inaugurazione del Regno (cfr. Mc, 15): è il modello della totalità con cui il chiamato è destinato a farsi dono. Il dono, infatti, esige il dono e preten­de di essere reciproco. Non basta allora un amore qualsiasi, occorre un amore autenticamente sponsale, così come si delinea sul volto stesso di Dio lungo tutta la storia della salvezza.

 

 

La verginità come dono sponsale e

il significato del corpo

La verginità è dono sponsale perché è dono a cuore indiviso, amore esclusivo che totalmente investe l'uomo e lo sradica da ogni altro interes­se, da ogni sentiero privato, per condurlo nella via stretta (cfr. Mt 7,14) al­la grande sequela[8] . Dall'anonimato della folla senza volto il Verbo pronun­cia i nomi (cfr. Le 6, 12-16) di coloro che sono chiamati a seguire l'Agnello ovunque vada (cfr. Ap 14, 4). È una chiamata esigente che richiede una ri­sposta definitiva. Se è vero, infatti, che la verginità è essenzialmente voca­zione, è altrettanto vero che essa non si dà senza una risposta libera e ge­nerosa da parte dell'uomo che accoglie il Suo progetto. Il dono di Dio è chiamata a donare gratuitamente ciò che gratuitamente si è ricevuto (cfr. Mt 10, 8b). In questo consiste in definitiva il dono sponsale della vocazio­ne verginale e quando questo avviene, nel momento preciso in cui si in­contrano il sì di Dio con il sì dell'uomo, la personale identità del chiamato subisce una trasformazione radicale. L'uomo è consacrato, reso sacro, cioè messo da parte (cfr. Is 6, 6-7; At 13, 2). La sua nuova realtà personale an­nuncia al mondo che la sua fortuna non consiste nel possedere ma nel far­si possedere, nel riservarsi per il Signore. Un mondo basato sul possesso è un universo di egoismo totalmente estraneo alla logica della gratuità e dun­que del dono sponsale. Il consacrato è un uomo come gli uomini ma con­trassegnato da una particolare proprietà di Dio. Egli diventa con la sua stessa vita la scelta dell'essenziale di fronte al superfluo, la scelta del pa­drone e non del servo.

Dietro alla povertà di Cristo il consacrato impara la rinuncia agli ap­poggi umani; con Cristo obbediente si volge, libero, verso l'unica meta e smette di guardare indietro con paralizzante nostalgia; dalla castità di Cristo, infine, riceve la rivelazione dell'amore che non ammette ritardi, la purezza del dono disinteressato, la comunione più profonda che nasce dal cuore immerso nella profondità delle anime (cfr. Le 9, 67-62). Il Cristo povero, obbediente e casto conduce coloro che da sempre ha scelto come se­gni dell'Assoluto nel tempo verso la pienezza del dono sponsale.

Il significato sponsale del corpo - come abbiamo visto - necessita una vera padronanza di sé per realizzare la suprema libertà del dono. Ora il cor­po verginale, proprio a motivo del dono, non diminuisce il suo significato sponsale né la sua bellezza, non si impoverisce per tale dono, ma anzi di­venta un richiamo perenne ad un amore più grande, segno intimo ed effi­cace della suprema libertà con cui il Cristo ha scelto ciò che nel mondo è scandalo e stoltezza (1 Cor 1, 23). «Chi può capire, capisca» (Mt 19, 12) è l'espressione di questa libertà ma è anche la sorprendente scoperta, riser­vata ai piccoli (cfr. Le 10, 21; 19, 17), del Cristo Crocifisso, sapienza e po­tenza di Dio (cfr. 1 Cor 1, 24). La castità del consacrato non è disprezzo del­la sessualità o sterile rinuncia che intorpidisce il cuore umano[9] . Il cuore umano, fatto per amare, si allarga nell'amore verginale per abbracciare la moltitudine che mendica il dono. In questo dono sponsale non vi è una ri­nuncia dell'umana sessualità ma anzi la sua piena realizzazione. La castità in questo senso è un potente centro unificatore delle diverse dimensioni della persona, un continuo distanziarsi da un amore che strumentalizza, che qualche volta acceca anche le buone intenzioni, verso un amore esclu­sivo, totale, fedele e fecondo.

L'amore vero è sempre fecondo, anche l'amore verginale. Nella comu­nione delle persone che si stabilisce tra Dio e il suo consacrato vi trova sempre posto anche la vita di un altro. Così, l'Amore che si incarna nella vita degli uomini trabocca vita dal cuore di colui che genera nello Spirito. Si sperimenta allora una paternità ed una maternità che il mondo non co­nosce (cfr. Gv 17, 25) e che trova nome solo nella paternità e nella mater­nità di Dio davanti al quale le ginocchia del suo consacrato quotidiana­mente si piegano nella preghiera e nella gratitudine (cfr. Ef 3, 14-15). L'esigenza di fare spazio, di allargare i confini angusti della comodità è pro­pria dell'amore che, come nel parto, conosce il sacrificio e brama la nuova vita. L'amore si tuffa senza riserve e mendica un luogo per amare, un cen­tro attraverso il quale rileggere le fatiche del proprio pellegrinaggio e con­templare, contemplare ed amare. Amare diventa per il consacrato l'espe­rienza gratuita di essere posto tra memoria e profezia. La memoria è la sor­gente stessa del dono, la profezia è lo slancio senza riserve del cuore libe­ro e indiviso verso il dono sponsale per amore.

 

 

L'UNICO AMORE SPONSALE

L'amore sponsale è unico. Esso consiste nel dono reciproco e totale del­le persone, non può che essere unico. Gli sposi nel matrimonio e i consa­crati nella verginità per il Regno realizzano, nell'unico amore sponsale, il dono di Cristo sposo per la Chiesa sua sposa. «Questo mistero è grande» (Ef5, 32) perché è il mistero stesso della creazione, il mistero inscritto «da principio» (Mt 19, 4) nell'uomo-persona creato a imago Dei (cfr. Gn 1, 27) e rivelato, lungo la storia della salvezza, nella communio personarum.

 

 

La libertà e la reciprocità del dono

II matrimonio e la verginità nascono entrambi dall'iniziativa gratuita di Dio che chiama, convoca e sceglie attraverso la sua Parola. Nel matrimo­nio gli sposi sanno che il loro incontro non è frutto del caso ma di una Provvidenza che conduce la storia sui sentieri dell'amore. Nella verginità la sproporzione tra miseria dell'uomo e grandezza della missione si può comprendere solo se è colmata da Colui che dice: «Non temere, io sarò con te» (cfr. Es 3, 12). I fidanzati sono chiamati a liberarsi progressivamente della paura di avere sbagliato persona per aprirsi alla fiducia, dalla tenta­zione di vivere progetti privati per aprirsi alla condivisione, dall'esclusivo bisogno di essere amati per aprirsi al dono. I chiamati alla verginità per il Regno sono anch'essi chiamati a liberarsi progressivamente dalla paura di avere sostituito la propria volontà all'autentico disegno di Dio per aprirsi all'abbandono, dalla tentazione di farsi un progetto alternativo per aprirsi all'obbedienza, dall'esclusivo bisogno di ricevere per aprirsi alla carità.

Alla chiamata di Dio, nel matrimonio e nella verginità, è richiesta una li­bera risposta, il sì dell'adesione fiduciosa che conduce al dono della per­sona. Se l'uomo si ritrova solo donandosi, perché ci sia dono sponsale è ne­cessario che le due persone reciprocamente e totalmente siano coinvolte nello stesso progetto di amore. I coniugi nel consenso matrimoniale pren­dono in mano il loro destino personale e irrevocabilmente lo depongono ciascuno nelle mani dell'altro. Avviene qui la trasformazione dell'amore e la nascita della nuova identità sponsale. I consacrati accettano con tutta la loro vita di seguire lo sguardo e l'irresistibile invito di Cristo sposo sulla via della santità del Regno. Anche qui, questa docilità consente a Dio di impri­mere il suo sigillo sull'uomo e costituire così il suo consacrato.

L'amore sponsale è possibile solo se è reciproco tra le persone. I coniu­gi e i consacrati, infatti, vivono nella loro vocazione un rapporto persona­le. La coppia si dona reciprocamente la propria esistenza personale di uo­mo e di donna, ciascuno nella propria mascolinità/femminilità per la fem­minilità/mascolinità dell'altro ed in questo realizza l'unità dei due, che è appunto communio personarum. Il consacrato offre l'intera sua persona al divino Sposo che ha dato tutto se stesso per la salvezza del mondo (cfr. Eb 5, 7-10) ed entra in una tale comunione con Lui da renderlo presente nell'oggi della storia.

La donazione sponsale degli sposi e dei consacrati è resa possibile dalla libertà del dono con cui entrambi realizzano il significato sponsale del cor­po. In ciascuno è richiesta la padronanza di se stessi e la virtù della castità per non disgregarsi sotto l'istinto e le passioni, l'egoismo e l'aggressività. La castità nella coppia è rispetto dell'altro e di tutte le esigenze dell'amore au­tentico; nella verginità è continenza per un amore puro e più grande (cfr. Gv 15, 13). Entrambe le vocazioni presuppongono un cammino di crescita nel­la conoscenza di sé e di educazione all'auto-dominio. La sessualità, pertan­to, in entrambe è considerata un valore ed è pienamente espressa, sia nel suo esercizio all'interno del matrimonio sia nella sua rinuncia per il Regno, perché realizza nel dono il significato sponsale del corpo.

L'amore sponsale è sempre lo stesso amore, un amore esclusivo, totale e fedele, un amore sempre aperto alla fecondità, così nel matrimonio come nella vita verginale. L'amore vero infatti non può non essere fecondo e la patemità-matemità non è solo un fatto fisico ma anche spirituale. I coniu­gi, che donandosi la vita donano la vita al figlio, sono resi collaboratori di Dio nel «continuare» la creazione, strumenti responsabili e disponibili per la crescita della famiglia umana e cristiana. Nella verginità il consacrato non vive con Dio un rapporto di sterile solitudine o di chiusura. Egli conti­nuamente vede nascere, come nel parto, nuovi credenti in Cristo dalla sua donazione a cuore indiviso, li offre a Lui senza trattenerli per sé perché sa che la sua gioia è la gioia dello Sposo (cfr. Gv 3, 29).

 

 

PARTICOLARI DONI DELLO SPIRITO

PER LA CHIESA SUA SPOSA

II carisma coniugale e quello verginale sono doni particolari che lo Spirito elargisce per l'edificazione della Chiesa Corpo di Cristo (cfr. 1 Cor 12, 12-13, 27). E così come i sacramenti di Cristo germogliano nel grembo fecondo della Chiesa, allo stesso modo lo Spirito plasma nuovi battezzati e attraverso i suoi doni li rende «pietre vive», che sulla «pietra angolare» so­no impiegate per la costruzione dell'edificio spirituale (cfr. 1 Pt 2, 4-5). Solo all'interno dell'orizzonte ecclesiale è possibile comprendere pienamente il valore ed il senso delle diverse vocazioni che adornano come gioielli la Chiesa, rendendola sempre di più la Sposa pronta che cammina per andare incontro al suo Sposo nella consumazione delle nozze eterne (cfr. Ap 21, 2).

Lo Spirito che unse Messia il Cristo, inviandolo come testimone del Padre e redentore degli uomini (cfr. Gv I, 32), è effuso con abbondanza so­pra i coniugi cristiani e i consacrati del Signore perché siano nel mondo «sale» e «luce» (cfr. Mt 5, 13-14), «lievito che fermenta tutta la pasta» (cfr. Mt 13, 33). Il triplice munus profetico, sacerdotale e regale a cui sono chiamati tutti i battezzati si specifica nel matrimonio attraverso la formazione della famiglia come di una «piccola chiesa domestica» che vive l'ascolto e l'annuncio della Parola, la preghiera comune e i sacramenti nella grande fa­miglia ecclesiale, e la solidarietà soprattutto verso altre famiglie in diffi­coltà. Nella vita consacrata l'unzione battesimale si specifica nel compito di trasmettere il Vangelo accolto e vissuto radicalmente con la propria vi­ta, crescere nella vita di santità e diffonderla - ciascuno secondo il suo do­no - con la preghiera e i sacramenti, bruciare di amore per il prossimo ed in particolare per i dimenticati del mondo, offrendo loro l'umile servizio senza riserve.

Attraverso le vocazioni specifiche, non solo il popolo di Dio cresce e si edifica, ma testimonia Cristo fino all'escaton, mentre costruisce già, qui ed ora, il Regno promesso e inaugurato dai tempi nuovi. Un rapporto partico­lare lega i coniugi e, in modo speciale, i consacrati all'annuncio e alla co­struzione del Regno[10] . Il carisma verginale, attraverso la donazione spon­sale all'unico Signore che un giorno sarà «tutto in tutti», anticipa quella glorificazione che attende ogni creatura e nella quale la communio personarum cesserà di essere vissuta dagli uomini tra di loro e costituirà inve­ce il dono sponsale con il quale Dio si unirà eternamente all'uomo acco­gliendolo eternamente in dono. Questa è anche l'essenza del dono sponsa­le, di quella felicità beatificante alla quale «da principio» l'uomo è orientato nel suo pellegrinaggio terreno e che si nutre dell'amore nella misura in cui, durante tutta la vita, egli ha saputo donarsi liberamente a Dio e ai fra­telli. Mentre la verginità anticipa nel mondo, col suo proprio dono, l'av­vento del Regno, il matrimonio lo annuncia e lo testimonia incarnando nel­l’oggi la promessa di amore che nella fedeltà all'alleanza sponsale chiama ciascuno a percorrere la strada del Regno tracciata da Cristo[11] .

«Dio è amore», scrive S. Giovanni (1 Gv 4, 8). Potremmo dire: è amore sponsale. L'amore sponsale è sorgente e meta della vita dell'uomo, chia­mata e compito di quanti s'incamminano nell'offerta totale di sé, rivelazio­ne suprema dell'intimo mistero di Dio e luce che rischiara il mistero na­scosto da sempre nella vita umana. L'amore sponsale è l'unico amore.

 

 

UN APPRODO SICURO

L'orizzonte antropologico nel quale si colloca il pensiero e l'opera di Giovanni Paolo II è contraddistinto - come si accennava all'inizio - da una progressiva riduzione dei significati e dei valori che appartengono indub­biamente alla dignità della persona umana, al suo ethos, alla verità del be­ne inscritto profondamente nella sua natura. In questo opaco scenario ri­splende ancora di più quella luce che, riflessa dal suo genio e dalla sua sen­sibilità di maestro e di pastore, rischiara il cammino incerto dell'uomo che brancola tra frammenti di pensieri e di parole, di sogni e di illusioni, e di­venta annuncio affascinante dell'amore che salva.

È vero, solo l'amore salva l'uomo, ma l'amore sponsale, cioè quell'amo­re che costituisce la sua «sovrana soggettività», che non può essere calpe­stata da niente e da nessuno e che trova compimento solo nella «sponsalità verginale» vissuta dagli sposi e dai consacrati. Al cuore di questo amo­re si radica, come il seme nella terra, la legge del dono reciproco e perso­nale, la stessa legge nella quale l'uomo è stato creato e redento in Cristo e che costituisce il tessuto più intimo della sua esistenza personale.

«L'uomo creato a imago Dei» nell'insegnamento del pontefice significa che il suo mistero profondo racchiude la chiamata irresistibile all'incontro con l'altro. Solo «attraverso» l'altro l'uomo viene restituito a se stesso, so­lo «per» l'altro si realizza, addirittura può esistere solamente «con» l'altro. La communio personarum, che è il volto più autentico del Dio di Gesù Cristo, è custodita nel cuore stesso dell'uomo creato a sua immagine, a lui affidata come chiamata e come desiderio, come sfida e come compito. Il S. Padre, parlando dell'unità duale come del tratto più personale di ogni es­sere umano creato a imago Dei, ha tracciato nella storia del pensiero filosofico e teologico una novità antropologica molto significativa, una con­quista incontestabile, tragitto obbligato per chiunque desidera riflettere sul mistero di Dio e dell'uomo.

Il dono sponsale non riguarda qualsiasi genere di amore. Giovanni Paolo II individua i confini che contraddistinguono l'amore sponsale da ogni al­tra sua possibile contraffazione attraverso il linguaggio della reciprocità, dell'altruismo, della sincerità, della totalità e della libertà del dono. Dentro quest'ultima esigenza dell'amore sponsale è racchiusa la possibilità di difendere il significato sponsale del corpo da qualsiasi riduzione, ma ciò implica il dovere morale di crescere nell'autoconoscenza e nell'autodomi­nio per non essere «sparsi nella vita come polvere al vento degli impeti e delle passioni». Se l'uomo si può realizzare mediante i suoi atti, in quanto essere capace di decidere di sé, è necessario che esso sia allo stesso tem­po capace di decidersi per l'altro, ma l'una e l'altra decisione scaturiscono da una libertà che si scopre e che allo stesso tempo si impara. L'istanza eti­ca emerge così come dal di dentro dei significati e dei valori che sono im­plicati nel mistero della persona e del suo destino. Anche l'etica quindi ri­ceve da questo metodo «inconsueto» una feconda possibilità di sviluppo.

In più occasioni Giovanni Paolo II si è definito «il Papa del Concilio». Egli ha vissuto dall'interno questa straordinaria effusione dello Spirito e ne è rimasto segnato così profondamente da presentarsi al mondo come suo fedele servitore. I temi che riguardavano la persona e la sua dignità lo vi­dero particolarmente coinvolto nell'assise conciliare. Qui Wojtyla si mo­strava accanito difensore della libertà religiosa e dei valori che stanno alla base del progresso sociale e cristiano. Anche la sua antropologia adegua­ta, come era facile prevedere, si concentrò attorno ai temi conciliari, tra i quali spicca, come abbiamo osservato lungo il nostro lavoro, quello del «dono sincero di sé» che trova il suo paradigma nella reciprocità uomo-donna. Attraverso il «dialogo dei doni» l'uomo prende coscienza del suo carattere personale e arriva alla sua propria maturazione. L'uomo sa che la sua esistenza è dovuta al dono e, quando viene generato in modo umano dal dono sponsale di un uomo e di una donna, lo scopre fin dal seno ma­terno, prima ancora di vedere la luce. Egli poi è affidato all'amore di Dio, che nel battesimo lo inonda di doni, ed apprende la storia dell'amore spon­sale narrata anzitutto dal volto e dalle parole di coloro che lo hanno gene­rato alla vita. Non sarà difficile per quest'uomo decidersi per l'amore spon­sale, nel matrimonio come nella verginità, anzi sarà segno di gratitudine e motivo di gioia.

«Con consequenzialità teologica Giovanni Paolo II pone le basi di un nuovo umanesimo... sollecitando quindi un mutamento radicale - anche storico e culturale - del modo di pensare»[12] . Sollecitati anche noi dal gioiel­lo prezioso che il S. Padre, attraverso il suo instancabile insegnamento, ha posto nelle nostre mani, sentiamo il desiderio di farci interpreti e annun­ciatori del dono. E mentre declinano le forze della sua missione, cresce nel mondo la forza della memoria capace di custodire e diffondere l'ardente esperienza del suo apostolato e del suo cuore di padre.

(Rivista “La Famiglia”, n.211, 2002)


MATERNITÀ E PATERNITÀ DI DIO

Gianfranco Ravasi

 

Un paio d'anni fa’ le edizio­ni Dehoniane di Bolo­gna hanno pubblicato un volume piuttosto sor­prendente del teologo to­scano-romano Carlo Rocchetta de­dicato alla Teologia della tenerezza. Effettivamente si tratta di un tema finora disatteso dalla riflessione e dalla pastorale religiosa, eppure dotato di un sicuro rilievo.

Lo scrittore tedesco Heinrich Böll (1917-1985), Nobel 1972, in un volumetto edito nel 1961 e inti­tolato Lettera a un giovane cattoli­co (ed. italiana presso La Locusta di Vicenza) registrava questa obie­zione del suo ideale "giovane":

«Ciò che fino a oggi è mancato ai messaggeri del cristianesimo di ogni provenienza è la tenerezza: te­nerezza verbale, erotica, sì, persino teologica». Böll replicava:

«Non è vero che i messaggeri del cristianesimo non abbiano avuto tenerezza: il Cantico dei cantici è stato letto nella Chiesa e, accanto a Benedetto, a Francesco, a Giovan­ni della Croce, ci sono state Scola­stica, Chiara e Teresa d'Avila».

Ebbene, noi ora vorremo scova­re proprio un lineamento di tene­rezza nel volto del Dio biblico. Non ricorreremo, però, alla nota simbologia nuziale, inaugurata da Osea il profeta dalla tormentata vi­cenda matrimoniale vissuto nell'VIII secolo a.C. esaltata dal citato Cantico e dallo stesso Gesù e dal Nuovo Testamento (si pensi solo alle nozze dell'Agnello descritte nell'Apocalisse). Cercheremo di in­dividuare, invece, i tratti "materni" del volto della figura del Dio bibli­co. É, infatti, comune affermare che già nell'Antico Testamento so­no presenti passi che delineano Dio come padre: si tratta di una ventina di testi, distribuiti soprat­tutto in epoca post-esilica, anche se non in modo esclusivo.

La teologia cosiddetta "femmini­sta" sia pure con certi eccessi ha avuto il merito non solo di interpretare correttamente gli antropomorfismi maschili (e talora maschilisti) presenti nelle Scritture ma anche di attirare l'attenzione su altri profili divini che rimandano alla femminilità. E uno di questi è appunto la "maternità" di Dio.     

Noi ora Cercheremo di far sfilare i relativi passi biblici e successivamente di stilare una specie di bilancio Il primo a venirci incontro è nel libro dei Numeri (11,11-15). In una sorta di lamento Mosè protesta col Signore a causa di Israele a , lui affidato, ricordandogli indirettamente che è Lui la madre del popolo: «L'ho forse concepito io tutto questo popolo? L'ho forse messo io al mondo perché tu mi dica: Por­tatelo in grembo, come una nutri­ce porta il lattante?» (11,12).

È curiosa la sequenza dei verbi e delle immagini. Innanzitutto si usa il verbo "concepire", "essere in­cinta" (hrh); poi ecco quello del "generare", jld, "mettere al mon­do", "partorire" nel caso della ma­dre; segue, infine, il "portare in grembo", espressione che di per sé in ebraico s’adatta pure a un uo­mo, ma qui è precisata con l'immagine dell’allattamento e quindi si ha il quadretto della madre al cui seno il bambino sta succhiando. Il pensiero a questo punto corre - an­che se là si tratta solo di un parago­ne e di per sé è di scena un bambi­no svezzato - al delizioso Salmo 131,2: «Sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in brac­cio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia».

Oppure potremmo rimandare all'altra comparazione di Isaia 66 13: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò». Nel passo del libro dei Numeri è, inve­ce Dio stesso ad essere descritto nella funzione concreta di madre.

Passiamo ad altri testi. Nel canti­co di Mosè, presente in Deuterono­mio 32, il Signore entra in scena come padre (v. 6:«Non è lui il pa­dre che ti ha creato, lui che ti ha fatto e costituito?»). Ma poco do­po, designato col titolo classico di “roccia", "rupe", acquista un volto materno; «La Roccia che ti ha ge­nerato, tu hai trascuralo; hai di­menticato il Dio che ti ha messo al mondo» (32,18). Il secondo verbo (hil) è specificamente materno per­ché definisce l'atto del "partorire".

Ci sono poi due testi che descri­vono la creazione cosmica ma lo fanno poeticamente presentando il Creatore come una madre. Sal­mo 90,2: «Prima che le montagne fossero concepite e che tu partoris­si la terra e il mondo, da sempre e per sempre tu sei Dio». Giobbe 38,28-29: «La pioggia ha forse un padre? Chi mette al mondo le goc­ce di rugiada? Dal ventre di chi esce il ghiaccio? Chi partorisce la brina del cielo?». Si noti come an­che in questo secondo testo s'in­treccino paternità e maternità, ap­plicate simultaneamente a Dio creatore.

È, però, il Secondo Isaia, profe­ta anonimo del ritorno dall’esilio babilonese (VI secolo a.C.) la cui opera è presente in Isaia 40-55, ad abbozzare il volto materno del Si­gnore a più riprese. In 42,12-14, quasi per contrasto, a JHWH che avanza come un guerriero urlante e possente si oppone un JHWH che «grida come una partoriente, respirando e aspirando insieme», cioè ansimando affannosamente come fa la madre nel momento del parto. Si accostano due urla, quel­le maschili del soldato e quelle fem­minili della madre, ed entrambe rappresentano l'azione divina.

Tra parentesi segnaliamo - co­me è stato fatto notare da un com­mentatore del Secondo Isaia, R. N. Whybray (1975) - che i verbi ebrai­ci scelti per la loro sonorità voglio­no anche uditivamente evocare l'affanno convulso, le smanie e l'agitazione di una partoriente, ma questa volta con riferimento a Dio.

Suggestivo è poi il passo di Isaia 45,10: «Guai a colui che dice a un padre: Che cosa hai generato? E a una donna: Che cosa hai partori­to?». L'applicazione è forte: come non si può criticare davanti a un padre o a una madre il loro figlio, così il Signore non vuole che si rim­proveri o colpisca il figlio da lui ge­nerato, cioè Israele. Anche in questo caso s'intrecciano due profili, paterno e ma­terno. Celebre, infine, è il te­sto di Isaia 49,15 che non ha bi­sogno di commento tanto è fra­grante nell'esaltazione dell'ap­passionato amore materno di Dio: «Si dimentica forse una donna del suo lattante, di ama­re teneramente il figlio del suo ventre? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai!».

Bisogna anche tener presen­te che molto spesso nell'Antico Testamento a Dio si applica il vocabolo rahamîm per indica­re il suo amore viscerale nei confronti delle sue creature: il termine di per sé anche se in Isaia 63,15-16 e nel Salmo 103,13 è applicato a Dio padre designa l'utero, il grembo ma­terno e quindi è un altro segno della "maternità" divina.

Ora potremmo tirare alcu­ne conclusioni. Il filosofo Paul Ricoeur nella sua opera Il conflitto delle interpretazioni (Jaca Book 1982) notava una certa reticenza nell'attribuire a Dio un profilo paterno da parte di Israele. Questo vale al maggior ragione per la fisionomia materna. La spiegazione è, però, chiara: nell'antico Vici­no Oriente la divinità era nor­malmente invocata e concepita come padre e madre e per di più era vista come sessuata e raffigura­ta come una coppia capace di ge­nerare dèi ed eroi o re. Gli esempi sono molteplici sia in Mesopotamia sia in Egitto.

Ad esempio il celebre re di Babi­lonia Hammurabi parla della dea Nintu come della «madre che l'ha generato»; il famoso re assiro Assurbanipal canta la dea Ishtar co­me «la madre che mi ha partori­to»; in Egitto un inno al dio Osi-ris dell'epoca del celebre faraone Ramses II (XIII secolo a.C.) uni­sce le due immagini paterna e ma­terna: «Tu sei il padre e la madre degli uomini». Si comprende allora, la reticenza della Bibbia che vuole impedire la ten­tazione, per altro sempre in agguato in Israele a cau­sa dei culti sessuali degli indigeni cananei, di una concezione della divinità co­me quella di un essere ses­suato e generatore di uomini e donne, sia pure di rango elevato, oppure il rischio di una deriva panteistica.

Infatti, in Egitto il dio dell'inon­dazione era un padre con un seno femminile, un creatore androgi­no: l'acqua era l'aspetto maschile, la terra irrigabile era la dimensio­ne femminile; insieme erano il Pa­dre e la Madre divini, incarnati nel Nilo. L'esegeta francese Jac­ques Briend nella sua opera Dio nella Scrittura Borla 1995) anno­ta: «II fatto che al Dio di Israele non venga dato il titolo di madre e che il titolo di padre sia usato rara­mente, in epoca tardiva e con reti­cenza, si può spiegare con l'implicazione sessuale che i termini comportavano nella mentalità religiosa semitica, for­temente centrata sulla fe­condità».

Per la Bibbia è possibile e legittimo parlare di Dio secondo categorie umane perché cosi si sco­prono dimensioni del Signore tra­scendente, ma queste categorie non imprigionano ne esauriscono Dio che è sempre Oltre e Altro. Egli non è né maschile né femminile ma i simboli paterni e materni ne il­luminano l'intima realtà in aspetti importanti. Perciò, anche l'appella­tivo "Padre", caro a Gesù, non rie­sce a definire tutto il mistero divi­no e lo stesso vale per l'immagine materna, certamente più rara ed esitante a causa del contesto socio­culturale di Israele ma non per que­sto da ridurre a mera comparazio­ne o metafora.

In questa luce dovremmo - con­siderate anche le diverse coordi­nate storiche - riproporre più in­tensamente il volto materno di Dio così come aveva fatto in mo­do sorprendente Giovanni Paolo I in quella ormai citatissima cate­chesi del settembre 1978 o come ha fatto la teologia femminista, sia pure con gli eccessi della rea­zione "anti-patriarcale", compren­sibili ma da evitare.

Mi piace concludere con un bel paragrafo (I, 6, 42) del Peda­gogo di Clemente Alessandro (II secolo) che parla così della Chie­sa e di Cristo: «La Chiesa nutriva col Logos (Cristo) questo giova­ne popolo che il Signore stesso mise al mondo nei dolori della carne e che egli stesso ha fascia­to con sangue prezioso... Il Lo­gos è tutto per il piccolo, è al tem­po stesso padre, madre, pedago­go, nutrice». 

 


GLI SPOSI E LA FAMIGLIA: TESTIMONI DELLA SPERANZA

ALL’INIZIO DEL TERZO MILLENNIO

Gorge Weigel

 

 

È un grande onore essere invitato a tenere la prolusione a questo importante convegno sul futuro della famiglia. Vorrei ringraziare la Conferenza Episcopale Italiana per avermi invitato a condividere con voi alcune riflessioni all'inizio dei vostri lavori. In particolare, è doveroso per me ringraziare lo staff della Conferenza Episcopale Italiana per l'aiuto che mi ha fornito nel preparare e tradurre queste mie osservazioni, e chiedo a voi indulgenza e pazienza mentre parlerò nella vostra bella lingua.

Venti anni fa, nella Solennità di Cristo Re, il Papa Giovanni Paolo II faceva dono alla Chiesa universale della Familiaris consortio. Questo grande documento è il frutto del lavoro del Sinodo dei Vescovi; è altresì l'espressione dell'intenso interesse del Santo Padre per la vita familiare, interesse che risale ai primi anni del suo sacerdozio all'indomani della seconda guerra mondiale. Per riflettere con il Papa e la Chiesa sul futuro della famiglia oggi, in questo ventesimo anniversario della Familiaris consortio, dobbiamo seguire l'esortazione del Concilio Vaticano II a leggere i «segni dei tempi». Infatti il futuro della famiglia nel ventunesimo secolo e nel terzo millennio dell'era cristiana si dispiegherà in circostanze storiche, culturali, sociali e politiche specifiche. L'insegnamento della Chiesa sulla famiglia è come un seme che viene piantato in diversi tipi di terreno - e dobbiamo renderci conto delle caratteristiche dei diversi terreni su cui questo seme cadrà.

Il pontificato di Giovanni Paolo II può essere compreso come un'ampia e complessa meditazione del problema della libertà umana. Poco dopo la fine del Concilio Vaticano II, Karol Wojtila, cardinale di Cracovia, scrisse una lettera al suo amico, l'eminente teologo francese Henri de Lubac. In quella lettera, il cardinale Wojtila sosteneva che la grande questione del momento fosse ciò che egli chiamava la «polverizzazione» della persona umana. Le idee - lo sapeva bene il cardinale - hanno delle conseguenze. Idee manchevoli della persona umana - le nostre origini, la nostra natura, le nostre comunità, il nostro destino - erano alla radice di molte tragedie umane del ventesimo secolo, Il mondo moderno, come il Concilio Vaticano II aveva insegnato, anelava alla libertà - questo è il terreno dell'aspirazione umana, il suolo, sul quale il seme del Magistero cattolico sarebbe caduto, secondo il cardinale Wojtila. Ma nel momento in cui l’idea di persona umana che dà forma a questa ricerca di libertà fosse incompleta o riduttiva, la ricerca stessa risulterebbe distorta e l'umanità si troverebbe incatenata da nuove catene.

Di fronte a questa crisi della persona umana, Wojtila pensava che il compito della Chiesa non fosse di ritirarsi nelle catacombe, ma di coinvolgere il mondo moderno in un umanesimo vero: l'umanesimo cristiano. Il contenuto di tale umanesimo cristiano, nella sua forma più concisa, può essere trovato nel numero 22 della Gaudium et spes, la «Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo» del Concilio Vaticano II, in cui i Padri conciliari insegnano che incontrando Gesù Cristo gli uomini e le donne scoprono sia il Volto del Padre che il vero significato della nostra umanità. Per questa ragione, come Giovanni Paolo II scriverà più tardi nel suo libro Varcare le soglie della speranza. Gesù Cristo è la risposta alla domanda posta da ogni vita umana. E questo significa che Gesù Cristo è la risposta alle domande del mondo contemporaneo sulla famiglia.

Vorrei sottolineare che questa non è un'astratta riflessione teologica. Essa ha delle effettive e concrete implicazioni ai fini della comprensione della famiglia e della promozione della vita familiare nella cultura e nella legislazione. Ma prima di giungere a tali implicazioni, dobbiamo ritornare un momento al «terreno» sul quale cade il seme dell'insegnamento della Chiesa sul vero umanesimo, l'autentica libertà umana.

Qual è il pensiero del mondo contemporaneo sulla questione della libertà umana? A quali proposte per la costruzione del futuro dell'uomo deve rispondere l'insegnamento della Chiesa sulla persona umana e la famiglia?

All'inizio del nuovo millennio, suggerirei che ci sono tre «proposte» con implicazioni e ambizioni globali in merito all'organizzazione del futuro dell'uomo - proposte che hanno una certa coerenza interna, proposte che sono «veicolate» nel ventunesimo secolo da istituzioni e individui capaci di «raggiungere» tutto il mondo.

La prima di queste proposte è quel che possiamo definire «utilitarismo pragmatico». É veicolato dalla cultura diffusa, con la sua enfasi sull'affermazione di sé e sulla soddisfazione immediata dei «bisogni» e dei desideri personali. È veicolato dalle élites che fanno opinione e da molti intellettuali nel mondo sviluppato, i quali sono convinti che la verità è una costruzione pragmatica e non qualcosa di radicato nella struttura della realtà. L'utilitarismo è la filosofia dominante in molte agenzie e istituzioni internazionali, e un approccio utilitaristico alle organizzazioni della società è promosso da alcuni aspetti della vita economica contemporanea.

Secondo questa proposta, la libertà è essenzialmente una questione di arbitrio personale. In una parola, la libertà è licenza. Sebbene dichiari le sue origini intellettuali raramente, se mai lo fa, questo concetto di libertà ha almeno settecento anni. Trova le sue radici in Guglielmo di Ockham, che insegnò al mondo tardomedievale che la libertà è una facoltà neutra di scelta. Nella terminologia politica e giuridica contemporanea, questo è venuto a significare che le libere scelte degli individui possono mirare a qualsivoglia oggetto, fintantoché non viene leso qualcuno per il quale lo stato dichiara esservi un «interesse obbligante». A un livello più popolare, questo concetto di libertà è felicemente sintetizzato e trasmesso nella famosa canzone di Frank Sinatra «I did it my way» («L'ho fatto a modo mio»).

L'utilitarismo pragmatico e il concetto di libertà ad esso soggiacente hanno importanti implicazioni per il futuro della famiglia. Data questa comprensione della libertà, la famiglia è semplicemente uno dei tanti accordi contrattuali: la famiglia è lo strumento all'interno del quale gli individui scelgono di vivere al fine di perseguire i loro obiettivi e desideri personali. Cosicché la «famiglia» non è radicata nella natura dell'uomo o in un ordine della creazione, ma nella pura e semplice scelta individuale priva di vincoli - il che significa che ciò che chiamiamo «famiglia» può configurarsi in vari modi, secondo le scelte che gli individui compiono in merito al raggiungimento delle loro soddisfazioni. Secondo questa concezione della libertà, la famiglia, nella nostra comprensione tradizionale del termine, non ha uno statuto morale specifico. Cosicché la famiglia, compresa come una comunità di marito, moglie e figli, non ha un particolare  status sociale distinto dallo status che le è attribuito dalla legge positiva.

La seconda proposta con implicazioni globali in vista dell'organizzazione del futuro dell'uomo è la proposta dell'Islam attivista - una fede che si esprime pubblicamente in modo vigoroso, che plasma cultura, con quasi un miliardo di aderenti. Osservando le società islamiche oggi, possiamo vedere in atto il concetto di libertà che è soggiacente alla cultura morale di quelle società: la libertà sta nell'adesione al Corano e alla legge islamica, nel modo in cui questi sono interpretati dai dottori della legge e dal clero. La tradizione islamica attribuisce valore alla famiglia e rigetta l'edonismo della rivoluzione sessuale, uno dei principali sottoprodotti culturali del concetto di libertà pragmatico-utilitaristico che abbiamo appena esaminato. Ciò significa che nelle organizzazioni internazionali e in incontri internazionali come la Conferenza mondiale sulla popolazione e lo sviluppo tenutasi al Cairo nel 1994 e la Conferenza mondiale sulle donne  tenutasi a Pechino nel 1995 vi è la possibilità di stringere alleanze con gli stati islamici per affrontare la sfida al concetto pragmatico-utilitaristico di famiglia che è spesso sostenuto in quelle arene dai governi occidentali. A partire da quelle alleanze può eventualmente emergere un nuovo dialogo con l'Islam sull'antropologia e la filosofia morale della libertà umana. Dobbiamo sperare che ciò avvenga. Dal momento che, dato il numero di Mussulmani nel mondo e il carattere pubblico e plasmatore di cultura dell'Islam quale sistema religioso, la storia del terzo millennio sarà in larga misura modellata dallo sviluppo della dottrina islamica sulla natura e i fini della libertà umana.

Allo stesso tempo dobbiamo notare con preoccupazione che l'attuale incapacità dell'Islam nel fornire una giustificazione religiosa e morale della libertà religiosa e di un pluralismo sociale legittimo ne fa un partner problematico nel costruire la società libera e virtuosa, nel senso in cui questi termini sarebbero compresi da quanti sono stati educati alla dottrina sociale della Chiesa.

Questo ci porta direttamente alla terza proposta «globale» per il futuro dell'uomo - la proposta della dottrina sociale cattolica. Nella teologia cattolica di solito usiamo il termine «dottrina sociale» solo per la tradizione delle encicliche che comincia con la Rerwn nowwn di Leone XIII del 1891 e continua attraverso la Centesviws arows di Giovanni Paolo II nel 1991. Suggerisco che ampliamo le nostre concezioni su questo punto. In effetti l'insegnamento della Familiaris consortio, come anche quello dell'Evangelium vitae, e della «Lettera alle famiglie» del Santo Padre del 1994, è una parte integrante della proposta cattolica per una riflessione approfondita sulla questione della libertà nella misura in cui tale questione si applica al futuro della società. In questo senso, Familiaris consortio, Evangelium vitae e la «Lettera alle famiglie» sono parte del magistero sociale della Chiesa - la proposta cattolica per organizzare il futuro dell'uomo.

La dottrina sociale della Chiesa è stata riccamente sviluppata dal pontificato di Papa Giovanni Paolo II, sia dal punto di vista teologico sia da quello della sua raffinatezza

empirica. Nella proposta cattolica per il futuro dell'uomo, la libertà è concepita come il diritto di fare ciò che dovremmo fare. La libertà non è fare le cose «a modo mio» [my way], libertà significa fare le cose nel modo gusto. La libertà, nella comprensione cattolica, è sempre agganciata alla verità morale. La libertà non è una facoltà neutra di scelta. Piuttosto, la libertà è la capacità di scegliere ciò che è davvero buono e di compiere liberamente tale scelta. Inoltre la libertà, così come la Chiesa Cattolica la concepisce, non è semplicemente la soddisfazione di un «bisogno» particolare, che posso pensare di avere in questo momento; la libertà è più nobile di questo. Nella visione cattolica la libertà trova il suo compimento nel bene e nell'autentica fioritura dell'uomo. La libertà è il mezzo attraverso il quale gli esseri umani diventano persone buone. Di fronte all'amplissimo orizzonte delle possibilità umane, la libertà è il metodo con cui gli uomini e le donne diventano capaci di vivere con Dio per sempre - il che, secondo l'umanesimo cristiano, è il vero destino della vita umana.

Questa concezione della libertà, che possiamo chiamare «libertà per l'eccellenza», permea la dottrina sociale della Chiesa così come è stata sviluppata dai Papi a partire da Leone XIII. Nella dottrina sociale e a causa di quel peculiare concetto di libertà, la famiglia ha una posizione unica e privilegiata.

In risposta all'utilitarismo pragmatico, la dottrina sociale cattolica insegna che la famiglia non è un semplice accordo contrattuale volto a soddisfare bisogni individuali; la famiglia è una istituzione che proviene dalla volontà di Dio. La famiglia è infatti la scuola in cui cominciamo a imparare qualcosa della verità su Dio. Coloro che imparano in famiglia un amore capace del dono di sé possono cominciare a intravedere qualcosa di Dio come comunità trinitaria di amore come dono di sé e ricettività. Ma, a differenza dell'Islam attivista, la Chiesa cattolica afferma che la verità sulla famiglia può essere compresa per mezzo della rivelazione e della ragione, poiché la verità della famiglia è «incastonata» nella realtà stessa. In altre parole, possiamo conoscere la verità sulla famiglia, attraverso una rigorosa riflessione filosofica sulle dinamiche degli sforzi morali e delle scelte morali. La verità sulla famiglia non è una verità dapprima conosciuta dal clero e dai canonisti e poi imposta alla società; nella visione cattolica, essa è qualcosa che impariamo dalla rivelazione e dalla ragione. Pertanto tale verità può essere proposta al mondo, comprese quelle parti del mondo che non condividono le nostre convinzioni sulla rivelazione.

Riflettendo su molti secoli di esperienza umana, la dottrina sociale cattolica ha anche posto l'accento sul fatto che la famiglia costituita da marito, moglie e figli non è semplicemente un accordo tra i molti possibili nell'organizzazione della vita sociale; piuttosto la famiglia è la pietra angolare della società e pertanto la fondazione di un ordine sociale decoroso e veramente umano. A causa del suo carattere fondamentale e fondativo, la famiglia, secondo la Chiesa cattolica, deve essere tutelata nella legislazione, rispettata nella società e alimentata da una cultura morale pubblica vigorosa.

In quest'ottica, la famiglia è la prima scuola di libertà. Nelle nostre famiglie impariamo le abitudini del cuore e della mente che ci permettono di essere cittadini tolleranti, civili e democratici, rispettosi dei diritti degli altri e votati al metodo della persuasione nella vita pubblica. Come ogni genitore qui presente sa, i bambini nascono tiranni: ogni bambino di due anni è un tiranno. Dov'è che tutti questi tiranni imparano a essere membri di una società autenticamente civile? Nella famiglia. Pertanto la famiglia, nella concezione cattolica, è un'associazione libera privilegiata che sta tra l'individuo e lo stato. La famiglia è un'espressione di ciò che Giovanni Paolo II descrive come «la soggettività della società». In quanto tale, la famiglia è essenziale per la democrazia. Infatti la democrazia, come c'insegna Alexis de Tocqueville, richiede un terreno fertile di libere associazioni sul quale crescere.

Pertanto il futuro della famiglia ha molto a che fare col futuro della ricerca di una libertà umana autentica. Questa ricerca, come il Santo Padre ha detto alle Nazioni Unite nel 1995, è una delle grandi dinamiche della storia contemporanea. Se esaminiamo la situazione della famiglia che varca la soglia del nuovo millennio, prendendo lo spunto dalla Familiaris consortio, ci sono buone e cattive notizie.

Le buone notizie sono che decine di milioni di esseri umani trovano ancora la fonte più profonda della loro felicità e del loro compimento umano in una vita familiare consapevolmente scelta e fedelmente vissuta. Come il Santo Padre sottolinea nella Familiaris consortio, ci sono altri segnali incoraggianti nel mondo contemporaneo circa il futuro della famiglia. Una coscienza più viva della dignità della persona umana; una comprensione più profonda dell'importanza delle relazioni personali; un riconoscimento del dovere morale della procreazione responsabile; la promozione della dignità delle donne; la preoccupazione globale per l'educazione dei bambini; grandi passi in avanti verso il miglioramento della salute pubblica - tutti questi «segni dei tempi» ci dicono che la famiglia rimane la comunità umana primaria di identità, impegno e soddisfazione personale per la gran maggioranza della popolazione di questo pianeta.

A causa di ciò, che usino un linguaggio esplicitamente biblico o meno, centinaia di milioni di esseri umani sparsi in tutto il mondo comprendono intuitivamente che la famiglia non è nella sua essenza un contratto. La famiglia è piuttosto un’alleanza. Essa non è semplicemente un accordo contrattuale volto alla ricerca dell'interesse individuale; la famiglia riguarda il fare promesse e il mantenerle. Nella sua essenza umana - il che vuole dire nella sua essenza morale - riguarda l'amore come dono di sé e la ricettività. E una scuola di generosità e umiltà. Quindi essa ha un impianto morale più ricco e più nobile di quello proposto dalle teorie meramente contrattualistiche sulla vita familiare. Ci sono persino segni, nel mondo sviluppato, che gli studiosi di scienze sociali stanno di nuovo cominciando a riconoscere il ruolo cruciale giocato dalla famiglia nello sviluppo umano. Ricerche condotte di recente negli Stati Uniti sugli effetti deformanti nel lungo periodo del divorzio sulla crescita e l'educazione dei bambini stanno causando un ripensamento della legislazione sul divorzio e una nuova volontà di considerare la possibilità che ciò che era una volta sprezzantemente liquidato come la «famiglia tradizionale» ha molti punti a suo favore.

Le cattive notizie sono che questo nuovo risveglio di un senso morale diffuso circa l'argomento della famiglia - e circa le questioni collegate dell'etica sessuale - deve ancora penetrare la vita pubblica nel modo continuativo che condurrebbe agli auspicabili cambiamenti nella legislazione. Le dispute negli Stari Uniti e in altre società occidentali riguardo alla definizione giuridica di «famiglia» illustrano quanto sia difficile rimuovere quella nozione pragmatico-utilitaristica di libertà come arbitrio che è soggiacente alla nozione riduttiva di famiglia come un mero accordo contrattuale tra i tanti simili accordi presenti nella società. Nel propugnare la nostra posizione a favore della famiglia come comunità di alleanza, non possiamo basarci sulle statistiche per vincere la partita; sarà di fatto richiesto un grande sforzo di riforma culturale se si vuole ristabilire una vera comprensione della libertà nel ventunesimo secolo, e se si vuole riconosciuto, nelle legislazioni nazionali e in quella internazionale, il posto speciale e unico della famiglia come comunità di alleanza nella fedeltà coniugale e nella fecondità. Tale compito è reso ancora più pressante dalla «pervasività» del concetto pragmatico-utilitaristico di libertà, pervasività resa possibile dalla globalizzazione della cultura e dell'economia mondiale.

La famiglia del ventunesimo secolo non è minacciata solo da idee distorte di libertà e da leggi mal concepite; è anche minacciata dalla povertà, dalle malattie, dall'ignoranza e dal caos che si genera quando la regola della legge viene meno. Se ci sentiamo impegnati nella fioritura della vita familiare nel nuovo secolo e millennio, dobbiamo allo stesso tempo impegnarci a rafforzare la società libera e virtuosa, che nella dottrina sociale cattolica ha tre componenti: una comunità politica democratica, una economia libera e una cultura morale pubblica vigorosa.

Con Giovanni Paolo II e l'enciclica Centesimus annus, la dottrina sociale cattolica ha letto i segni dei tempi e ha concluso che l'economia libera è lo strumento più efficiente sinora ideato per «collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni» (n. 34). Questo sembrerebbe appropriato per l'economia globale così come per le economie nazionali. L'economia libera ha sollevato milioni di persone dalla povertà e nelle nazioni del mondo sviluppato ha portato milioni di persone precedentemente povere nel circolo della produttività e dello scambio. Sembra ragionevole aspettarsi che l'economia libera, operando globalmente, possa parimenti sollevare le famiglie dalla povertà e liberare la creatività umana di milioni di persone su scala mondiale.

Ma tutto ciò non accadrà da sé, poiché l'economia libera non è una macchina che funziona da sé. Certe abitudini del cuore e della mente - certe virtù - sono essenziali per far funzionare l'economia libera e per piegare le enormi energie da essa liberate ai fini della vera libertà e dell'autentica fioritura umana. La «globalizzazione» dell'economia mondiale deve quindi significare anche «globalizzazione» degli sforzi per portare ai poveri del mondo l'istruzione, le cure sanitarie e i governi stabili che sono stati le condizioni di possibilità per la creazione e dell'ampia distribuzione della ricchezza nel mondo sviluppato. Come il Santo Padre suggeriva nella Centesimus annus, ciò comporta un nuovo modo di pensare circa la povertà e i poveri. I poveri, nella visione cattolica, non sono semplicemente un problema da gestire (come si pensa in troppi Paesi che adottano il modello dello stato sociale). La Chiesa ci insegna invece a pensare ai poveri come persone con un potenziale: un potenziale che può essere liberato per il miglioramento loro e di tutta l'umanità, se i diritti umani fondamentali sono rispettati e protetti, se l'istruzione è accessibile a tutti, se standard minimali di salute pubblica sono resi obbligatori per legge, se a queste persone dotate di potenziale viene data l'opportunità di vivere la loro creatività economica liberi dal braccio soffocante di regolamenti governativi eccessivi, in una parola dallo statalismo.

Negli anni scorsi e recentemente nel suo Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (27 aprile 2001), Giovanni Paolo II ha scritto riguardo alla «globalizzazione della solidarietà». In una visione cattolica «globalizzazione» significa molto di più che estendere l'economia libera in ogni parte del mondo. Quel che è necessario è la creazione di un'«etica della solidarietà globale», nella quale i cristiani del mondo sviluppato comprendano che le preoccupazioni dei Paesi in via di sviluppo sono le loro stesse preoccupazioni: non in qualche senso astratto ma in modi assai concreti e specifici. In questo mondo globalizzato, il modo in cui compriamo e vendiamo, il modo in cui investiamo, il modo in cui consumiamo, il modo in cui compiamo opere di filantropia e carità ha un forte impatto su decine di milioni di uomini e donne che nessuno di noi incontrerà mai. Dare efficacia concreta alla «globalizzazione della solidarietà» significa quindi una rivitalizzazione della missione cristiana e un nuovo impegno nella filantropia e nella carità, un impegno mirato a dare capacità di iniziativa ai poveri e a includere le famiglie povere in circuiti locali, nazionali e globali di produttività e scambio.

Il Santo Padre è anche preoccupato del fatto che la globalizzazione della vita economica internazionale porti con sé una globalizzazione degli effetti tossici del concetto pragmatico-utilitaristico di libertà prima menzionato, fl Santo Padre ha ragione di essere preoccupato; noi tutti dovremmo esserlo. L'esperienza della Conferenza mondiale sulla popolazione e lo sviluppo tenutasi al Cairo nel 1994 è, o dovrebbe essere, ben impressa nelle nostre menti. In quell'occasione era all'opera un nuovo totalitarismo. Non era, come nel ventesimo secolo, quello ben noto del fascismo o del comunismo. Era piuttosto un totalitarismo nuovo, proprio del ventunesimo secolo: quello del libertinismo eretto a stile di vita. Questo nuovo totalitarismo insiste nel proporre che la libertà-come-arbitrio, la libertà come «scelta» priva di vincoli, sia elevata al rango di diritto umano fondamentale - fino al punto di dichiarare l'aborto su richiesta, ossia l'uccisione volontaria dell'innocente per ragioni di convenienza, un diritto umano basilare alla pari della libertà religiosa e della libertà di parola e di associazione. Questo tentativo è stato sconfitto al Cairo, in non piccola misura grazie alla testimonianza personale di Giovanni Paolo II e all'efficace diplomazia della Santa Sede. Ma, come abbiamo visto negli anni successivi alla Conferenza del Cairo, i sostenitori di questo concetto riduttivo di libertà non sono in ritirata. E spesso ciò che non possono ottenere a livello locale o nazionale cercano di imporlo alle comunità locali e nazionali attraverso la legislazione internazionale o vari programmi di aiuti.

Affrontare la loro sfida richiede che il mondo sviluppato metta in ordine la propria casa. Ciò comporterà la riforma della legislazione sull'aborto a livello nazionale e la creazione di società nelle quali ogni nascituro è accolto in vita e protetto dalla legge.

Affrontare la sfida del libertinismo come stile di vita richiede anche che noi lavoriamo per prevenire l'imposizione della nozione di matrimonio come mero contratto attraverso istituzioni legali nazionali, transnazionali e internazionali, comprese l'Unione Europea e le Nazioni Unite. Questo a sua volta implica che cristiani coscienziosi devono vedere la difesa della famiglia in termini esplicitamente globali. Significa anche che i governi nazionali devono smettere di pensare le istituzioni transnazionali e internazionali come un tipo di palcoscenico secondario rispetto al «mondo reale» della politica nazionale.

Come il Santo Padre ci ha ricordato per più di due decenni, la famiglia è il centro e il cuore di una «civiltà dell'amore» - una civiltà nella quale la libertà umana trova il suo compimento nel bene autentico. Le minacce odierne alla famiglia - minacce che spaziano dal semplice egoismo umano al pericolo di un nuovo totalitarismo dell'«utilità» - sono felicemente riassunte nell'espressione «cultura di morte». La proposta cattolica è che questa cultura di morte sia rimpiazzata da una vigorosa cultura della vita. Ciò a sua volta implica l'evangelizzazione così come l'azione in ambito legislativo e diplomatico. È una rete tessuta tutta d'un pezzo: senza il rinnovamento culturale i rimedi legislativi alla crisi contemporanea della famiglia sono al massimo tattiche di contenimento.

Come il Santo Padre ha suggerito, ricostruire la cultura della vita - costruire una civiltà dell'amore - non significa ritirarsi in bunker nazionali o locali. Significa infondere valori autenticamente umani nella tendenza apparentemente irresistibile verso la globalizzazione della tecnologia, della finanza e del commercio. E questo a sua volta significa prendere sul serio la nuova evangelizzazione. Infatti, come il Santo Padre ha insistito in numerose occasioni, la nuova evangelizzazione consiste nell'evangelizzare le culture al pari degli individui. Entrambe sono indispensabili.

E facile essere pessimisti quando prendiamo in considerazione le minacce alla famiglia che si trovano tutt'intorno a noi. Ma l'alternativa al pessimismo non è un vacuo ottimismo. Ottimismo e pessimismo sono una questione di punti di vista, del modo in cui guardiamo alle cose. Possono cambiare da un momento all'altro. Ciò che ci è richiesto, invece, nel momento in cui cerchiamo di evangelizzare la nuova cultura globale e di infondere valori cristiani nella nuova economia globalizzata è qualcosa di più robusto. Questo «qualcosa» è la speranza, una virtù teologale radicata nella fede.

La dottrina sociale cattolica è, in tal senso, un'espressione della speranza della Chiesa per il futuro dell'uomo, che in ultima analisi si fonda nella fede della Chiesa che Gesù Cristo è il Signore. Come Giovanni Paolo II non ha mai cessato di ricordarci, Gesù Cristo rivela sia il Volto del Padre sia il vero significato della nostra umanità. Nella sua Lettera apostolica a conclusione del Grande Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II ci sfida a «prendere il largo» nel nuovo millennio impegnati a mostrare al mondo il Volto di Cristo. Ciò che dobbiamo anche comprendere, nell'autentico spirito del Vaticano II, è che nel mostrare il Volto di Cristo agli uomini e alle donne del ventunesimo secolo globalizzato, portiamo i nostri fratelli e sorelle a una comprensione più vera, più piena e più nobile della loro umanità.

Questo significa essere Chiesa nel mondo contemporaneo. Questo significa essere la Chiesa di Gesù Cristo in un mondo che ora sta cambiando in modo tanto drammatico quanto cambiò all'epoca della rivoluzione industriale. L'evangelizzazione, la costruzione di una società libera e virtuosa, e la promozione della famiglia non sono tre imprese separate. L'evangelizzazione, la costruzione di una società libera e virtuosa, e la promozione della famiglia sono tre modi correlati nei quali noi viviamo la nostra convinzione che in Gesù Cristo Dio ha pronunciato la sua Parola definitiva circa il mondo dell'uomo e il suo destino.

(CEI, Uff.Naz. Pastorale per la Famiglia e la vita)

  AL SOMMARIO 



[1] Cfr. L. Ciccone, «Uomo-Donna. L'amore umano nel piano divino. La grande cateche­si del Mercoledì di Giovanni Paolo II», in Saggi di Teologia, 1986, 27, p. 11.

 

[2] Cfr. Giovanni Paolo II, Dono e mistero. Nel 50° del mio sacerdozio, Città del Vaticano, 1996, pp. 102-104.

 

[3] Cfr. M. Malinski, II mio vecchio amico Karol, Roma, 1982, pp. 234-238: «Quando ascoltavo le sue lezioni, leggevo i suoi libri, ho potuto constatare come in lui tutto fos­se incentrato sul concetto della persona. Sì, era un personalista. L'oggetto del suo inte­resse era l'uomo, nel significato più profondo della parola. C'è in lui un tentativo di sfrut­tare le chances che nel mondo odierno sono offerte alla filosofia della persona- Non è mai stata elaborata una completa antropologia cristiana. È vero. Nei nostri corsi di filo­sofìa cristiana che frequentavamo da chierici, vi erano materie quali la cosmologia, la teoria della conoscenza, la psicologia sperimentale e spirituale, ma non c'era ancora l'antropologia nel suo significato odierno (...). La filosofia dell'uomo elaborata dal card. Wojtyla non è ecletticismo, ma costituisce una sua opera originale e autonoma».

[4] Cfr. Mulieris dignitatem, 29.

[5]   «La Rivelazione cristiana conosce due modi specifici di realizzare la vocazione del­la persona umana, nella sua interezza, all'amore: il Matrimonio e la Verginità. Sia l'uno che l'altra, nella forma loro propria, sono una concretizzazione della verità più profon­da dell'uomo, del suo "essere ad immagine di Dio"» (Familiaris Coitsortio, 11).

 

[6]   L'esistenza è sempre una chiamata a servire la verità dell'amore e quando le perso­ne impegnano tutta la loro esistenza in questo progetto, l'amore diviene sponsale. Nell'amore sponsale, dice il Papa, esiste solo la libertà e mai la compra-vendita (cfr. Lettera alle famiglie, 11).

 

 

[7] Il dono, sembra affermare il S. Padre, «trascina» l'uomo all'etemo incontro sponsa­le con Dio (cfr. Uomo e donna fa» creò, discorso LXVIII, n. 3, pp. 270-271).

 

[8] Cfr. Uomo e donna lo creò, discorso LXXIX, n. 9, pp. 313-314: «È proprio del cuore umano accettare esigenze, perfino difficili, in nome dell'amore per un ideale e soprat­tutto in nome dell'amore verso la persona (l'amore, infatti, è per essenza orientato ver­so la persona). E perciò in quella chiamata alla continenza "per il regno dei cicli", pri­ma gli stessi discepoli e poi tutta la viva Tradizione della Chiesa scopriranno presto l'a­more che si riferisce a Cristo stesso come Sposo della Chiesa, Sposo delle anime, alle quali Egli ha donato se stesso sino alla fine, nel mistero della Pasqua e dell'Eucarestia».

 

[9] Pastores dabo vobis, 29: «Nella verginità e nel celibato la castità mantiene il suo si­gnificato originario, quello cioè di una sessualità umana vissuta come autentica mani­festazione e prezioso servizio all'amore di comunione e di donazione interpersonale. Questo significato sussiste pienamente nella verginità, che realizza, pure nella rinuncia al matrimonio, il "significato sponsale" del corpo mediante una comunione e una do­nazione personale a Gesù Cristo e alla sua Chiesa che prefigurano e anticipano la co­munione e la donazione perfette e definitive dell'al di là».

 

[10] Vita consociata, 32: «In effetti, l'eccellenza della castità perfetta per il Regno, a buon diritto considerata la "porta" di tutta la vita consacrata, è oggetto del costante in­segnamento della Chiesa. Essa per altro tributa grande stima alla vocazione al matri­monio, che rende i coniugi "testimoni e cooperatori della fecondità della madre Chiesa, in segno e in partecipazione di quell'amore, col quale Cristo ha amato la sua Sposa e si è dato per lei"».

 

[11] «Nella vita di una comunità autenticamente cristiana, gli atteggiamenti ed i valori propri dell'uno e dell'altro stato - cioè dell'una e dell'altra scelta essenziale e coscien­te come vocazione per tutta la vita terrena e nella prospettiva della "Chiesa celeste" -si completano e in certo senso si compenetrano a vicenda. Il perfetto amore coniugale deve essere contrassegnato da quella fedeltà e da quella donazione all'unico sposo (ed anche della fedeltà e della donazione dello sposo all'unica sposa), su cui sono fondati la professione religiosa ed il celibato sacerdotale. In definitiva, la natura dell'uno e del l'altro amore è "sponsale", cioè espressa attraverso il dono totale di sé. L'uno e l'altro amore tendono ad esprimere quel significato sponsale del corpo, che "dal principio" è inscritto nella stessa struttura personale dell'uomo e della donna- D'altra parte, l'amo­re sponsale, che trova la sua espressione nella continenza "per il regno dei cieli", deve portare nel suo regolare sviluppo alla "paternità" o "maternità" in senso spirituale (os­sia proprio a quella "fecondità dello Spirito Santo", di cui abbiamo già parlato), in mo­do analogo all'amore coniugale che matura nella paternità e maternità fìsica e in esse si conferma proprio come amore sponsale. Dal suo canto, anche la generazione fisica risponde pienamente al suo significato solo se viene completata dalla paternità e ma­ternità nello spirito, la cui espressione e il cui frutto è tutta l'opera educatrice dei ge­nitori rispetto ai figli, nati dalla loro unione coniugale corporea» (Uomo e donna lo creò, discorso LXXVIII, nn. 4-5, pp. 309-310).

 

 

[12] K. Kreen, L'antropologia di Giovanni Paolo II e la teologia della Chiesa, in Il Nuovo Areopago, 1986, 3, pp. 75, 82-83.

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