PATRIARCATO DI VENEZIA

PASTORALE SPOSI E FAMIGLIA

 

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ATTI VIII ASSEMBLEA DEGLI SPOSI

PARROCCHIA DI S. ANTONIO DI MARGHERA

13 OTTOBRE 2003

«...E DIO VIDE CHE ERA COSA MOLTO BUONA»

 

 

 SOMMARIO

 

1. PREFAZIONE   

    di mons. Silvio Zardon   

                                                           

2. ARTICOLAZIONE DELL’ASSEMBLEA      

                                

3. PRESENTAZIONE DELL’ASSEMBLEA   

    di Dilvia e Virgilio Rossi     

                                                       

4. I SALUTI e un paio di comunicazioni                                    

   per la Comunità di Sant’Antonio di Marghera 

   di Padre Leone

 

  per il  Vicariato  di Marghera  

  di don Roberto Beron

  sulla Patorale "Stili di vita"   

  di Ludovica Bastianetto

 

  su   “Pronto Famiglia”  

  di    Dilvia e Virgilio Rossi

 

5. MEDITAZIONE ALLE LODI                                                       

“E voi sposi chi dite chi io sia?

  di Daniele Garota     

                                                                

  6. “… E DIO VIDE CHE ERA COSA MOLTO BUONA”

             stimoli per la discussione

·         di mons. Silvano Brusamento                                         

·      di Claudia e Luca Veronese                              

·          di Cecilia e Piergiorgio Dri   

                                           

7. ASSEMBLEA IN DIALOGO

      Facciamo il punto di Alessandro Giantin

      Gli interventi

                                                      

8. L’INTERVENTO DEL PATRIARCA – 1   

                                   

9. IL DIALOGO CONTINUA      

                                                    

10. L’INTERVENTO DEL PATRIARCA – 2                                       

 

                                    

prEFAZIONE

di mons. Silvio Zardon[1]

 

Inizio con le parole di saluto del Patriarca Angelo Scola agli sposi: “Voglio esprimervi la mia riconoscenza e la mia gioia per trovarvi qui anche quest’anno così numerosi, perché un’assemblea di questo genere non si improvvisa; essa deriva da una vita in atto, come la giornata di oggi sta testimoniando e come i vostri interventi hanno mostrato”.

L’obiettivo dell’Assemblea, “Progettare la pastorale della parrocchia con gli sposi e la famiglia”, ha il suo contesto nell’Istruzione del Patriarca per l’anno pastorale 2003-2004: “Il volto missionario della parrocchia”. “La prima missione, il primo compito della parrocchia è partire dall’esperienza elementare della gente… Parrocchia significa letteralmente “case vicine” dal greco, abitare vicino, e infatti, nella storia della Chiesa, dopo il IV secolo, la parrocchia è stata la chiesa in mezzo alle case vicine. La parrocchia, a partire dal Battesimo, dalla Comunione e dalla Cresima, investe la dimensione naturale del rapporto tra l’uomo e la donna… Il volto missionario della parrocchia – ci ha ricordato il nostro Patriarca - si rivela nella trasfigurazione degli affetti, dell’amore tra l’uomo e la donna che si apre alla vita: papà, mamma e bambino, radicandoli nel centro affettivo più potente, che è Gesù Cristo, come afferma S.Paolo nella lettera agli Efesini (5, 25-27)”.

Il tema dell’Assemblea degli sposi si arricchisce ora anche della Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, appena pubblicata: “Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia”.

“Come voi testimoniate – ci ha detto ancora il Patriarca  – abbiamo fatto dei passi eccellenti con la pastorale familiare nel nostro Patriarcato. Ora ne dobbiamo fare un altro, dobbiamo aiutare tutti i sacerdoti, tutti i responsabili, ad avere il coraggio di partire dagli sposi come “soggetto”, perché la parrocchia deve modularsi molto di più da questa prima elementare dimensione dell’esperienza umana: nel compito, nella missione di arricchire, trasfigurare gli affetti. Laddove c’è l’amore, bisogna testimoniare come vivere di Cristo. Nel modo stesso di vivere l’amore coniugale nella famiglia fedele e stabile, si compie la promessa contenuta nell’amore uomo-donna, cioè si realizza il “per sempre”, si apre la vita e la genera, si edifica la Chiesa, si costruisce la società”.

E queste parole fanno eco al documento della C.E.I. ESM 32 (1975): “L’Ordine e il Matrimonio significano e attuano una nuova e particolare forma del continuo rinnovarsi dell’alleanza nella storia. L’uno e l’altro specificano la comune e fondamentale vocazione battesimale ed hanno una diretta finalità di costruzione e dilatazione del popolo di Dio”.

E lo stesso documento aggiunge (44): “Così gli sposi, mediante il sacramento, ricevono quasi una consacrazione che attinge, trasformandola, tutta la loro esistenza coniugale (GS 48). Nell’incontro sacramentale il Signore affida ai coniugi anche una missione per la Chiesa e per il mondo, arricchendoli di doni e di ministeri particolari (LG 11)”

E’ proprio per questo che sempre vogliamo partire dalla “contemplazione di Cristo”, perché è Gesù che vuole farci vedere la realtà della nostra vita, della nostra storia d’amore di sposi, in una maniera trasfigurata, diversa, ancora più bella di quanto la viviamo con la sua presenza in mezzo a noi.

“Contemplare Gesù di Nazareth! però, contemplare Gesù – continua l’amico Daniele Garota - non è un prendere l’anima e volare chissà dove, bensì un cercare di vedere chi era quest’uomo per assomigliare a lui in qualche modo, un chiedersi ogni volta: che cosa avrebbe fatto Gesù in questa situazione in cui mi trovo?”-

  Questo passaggio è fondamentale, come ci viene ricordato insistentemente nella lettera pastorale “Se vuoi essere compiuto”, lettera nella quale il Patriarca ci annuncia la Visita Pastorale, che, adeguatamente preparata dall’ “Assemblea Ecclesiale” del 9-10 Aprile prossimo, incomincerà nel 2005-.

Così, chi leggerà questi ATTI , potrà rivedere le linee portanti del cammino proposto alle parrocchie e agli sposi con convinzione e da diverso tempo ormai. Vogliamo continuare a percorrere insieme queste linee anche nella XIX prossima Assemblea degli Sposi, che il prossimo ottobre 2004 faremo non in unica sede, ma in tre zone.

Il laboratorio della Fede e dell’Amore degli sposi , - è questo in realtà lo stile con cui tendiamo a svolgere la nostra attività pastorale, e che , anno dopo anno, ha nell’Assemblea diocesana degli sposi (oltre che nella Festa diocesana della Famiglia e nell’Assemblea dei fidanzati) un suo significativo riferimento, questo laboratorio espone in questi Atti quanto è emerso durante l’ultima XVIII Assemblea di Marghera.

Il “laboratorio della fede”, ci ricorda Garota, è espressione coniata alcuni anni fa da Giovanni Paolo II, perché la fede richiede un luogo nello spazio e nel tempo in cui si lavora intorno ad essa. Lavorare attorno alla fede significa capire chi è Gesù, avvicinarsi a lui, capirne il pensiero, lasciandoci penetrare il cuore dal suo amore. Per questo ora preferiamo parlare di laboratorio della fede e dell’amore.

Di questo stile di “laboratorio” il Patriarca Angelo, sempre in questa Assemblea, ci ha tracciato alcuni elementi.: “Siccome nel nostro patriarcato il “soggetto ecclesiale” c’è ed è tracciato un cammino ormai da tanti anni, quel che non si può dire oggi, lo si recupererà domani, quel che oggi non è chiaro, diventerà più chiaro domani. Se non abbiamo l’ossessione di essere completi nei discorsi e abbiamo piuttosto il desiderio, la preoccupazione di volerci bene al punto da essere fedeli al noi ecclesiale, attraverso le mille forme mediante le quali esso ci raggiunge (la parrocchia, il gruppo sposi, l’associazione, il gruppo, il movimento), possiamo camminare sereni, perché quel che non ci è dato oggi, certamente ci sarà dato domani. Questo per dire che è assolutamente normale lasciare un gesto assembleare come questo, con una certa fame e una certa sete di un di più. Quindi non abbiamo bisogno di una completezza formale, ma di rinnovare qui il gusto del camminare insieme, perché convocati dal Signore dentro un’esperienza che vale la pena, perché è piena di tante cose belle, come avete voi stessi documentato”.

Buon lavoro a tutti!

  AL SOMMARIO

ARTICOLAZIONE DELL’ASSEMBLEA

Presidenza :                          Patriarca Mons. Angelo Scola

Moderatori al tavolo :           Dilvia e Virgilio Rossi

Moderatore in sala :             Sandro Giantin

Meditazione sul tema :         Daniele Garota

Stimolazioni sul tema :         Mons. Silvano Brusamento

                                               Claudia e Luca Veronese

                                               Cecilia e Piergiorgio Dri

Svolgimento :

ore   9,00        arrivi alla sede dell’assemblea ed accoglienza

ore   9,30        saluti e presentazione dell’assemblea

ore   9,45         preghiera delle Lodi e meditazione di Daniele Garota

ore 10,30        pausa ristoro

ore 10,45        Stimolazioni sul Tema

ore 12.30         pausa pranzo

ore 14.30         dialogo in assemblea con il Patriarca mons. Angelo Scola

ore 17,30        S. Messa con la comunità parrocchiale  

AL SOMMARIO  

la presentazione DELL’ASSEMBLEA

  di Virgilio e Dilvia Rossi[2]

 

Carissimi sposi,

un caloroso benvenuto a tutti voi a nome della Commissione Diocesana per la Pastorale degli Sposi e della Famiglia; un saluto particolare a quanti di voi sono qui per la prima volta, siamo certi di vedervi ancora. Un saluto che estendiamo ai presbiteri e religiosi; sappiamo quanto sia difficile per loro conciliare la partecipazione all’assemblea con gli impegni pastorali nelle proprie comunità.

 

Ringraziamo per l’ospitalità la Parrocchia di S. Antonio di Marghera, in particolare Padre Leone che salutiamo con affetto. Ma il grazie nostro e della Commissione va a tutto il Vicariato di Marghera, che ha voluto che questa Assemblea si svolgesse proprio qui, in questo territorio e anche a tutte le persone che hanno offerto la loro collaborazione per il lavoro che si è svolto e si sta svolgendo tuttora dietro le quinte: parliamo degli addetti al Servizio cortesia, a quanti si stanno prendendo cura dei vostri bambini, a coloro che contribuiranno in ogni modo alla realizzazione di questo incontro.

È opportuno presentarci e presentare le persone che sono attorno a questo tavolo. Noi siamo Dilvia e Virgilio, e la Commissione di cui facciamo parte ci ha affidato il  compito di scandire i tempi della giornata, presentare i relatori, dare la parola e illustrarvi i momenti di questa giornata.

Con noi, attorno a questo tavolo ci sono

Monsignor Silvano Brusamento – Vicario Episcopale per l’Evangelizzazione – nel cui ambito è inserita la Pastorale degli Sposi.

Monsignor Silvio Zardon – responsabile diocesano della Pastorale

Daniele Garota   - che ci guiderà nella meditazione alle Lodi

 

Fra poco lasceremo spazio alla preghiera con la recita delle Lodi all’interno delle quali è collocata la meditazione di Daniele Garota.

Al termine della pausa che seguirà questa prima parte della mattinata, riprenderemo i lavori con tre interventi che serviranno ad introdurre il tema sul quale poi avremo modo di dialogare nel pomeriggio con il Patriarca.

Queste introduzioni verranno fatte da Monsignor Brusamento, da una coppia della Commissione e da una coppia di Marghera.

Dopo la pausa pranzo che condivideremo con i figli nella struttura approntata qui a fianco, alle 14.30, inizierà la parte in cui sarà protagonista l’Assemblea che interverrà in base agli stimoli ricevuti in mattinata e agli spunti offerti dal sussidio che dovreste avere ricevuto con la convocazione e che trovate anche nella cartellina.

Il Patriarca tirerà infine le fila della discussione che terminerà alle 16.30, quando i vostri bambini saranno riportati qui e riconsegnati ai genitori. Ci sarà poi il tempo per riordinare le idee e recarci in Chiesa per la S. Messa.

 

Due parole sulle tematiche di oggi. Non ci dilunghiamo perché il compito di introdurre e motivare il tema dell’Assemblea, di spiegare un po’ anche il titolo “… e Dio vide che era cosa molto buona”, spetterà maggiormente a don Silvano.

La genesi di questo tema e la scelta della sede di quest’anno è un po’ complessa.

Il Vicariato di Marghera ha voluto, come dicevamo prima, essere sede dell’Assemblea e ha chiesto che questa avesse per tema una possibile pastorale parrocchiale rivolta agli sposi e alle famiglie, con particolare riguardo alle coppie che si allontanano per qualsivoglia motivo.

Gli incontri che la Commissione ha avuto con gli sposi di Marghera e con i loro sacerdoti hanno via via delineato, non senza qualche diversità di lettura, le tracce su cui oggi si camminerà.

È stato chiarito che bisogna comunque partire da un dato fondante: la pastorale per gli sposi e per la famiglia è fatta dagli sposi in virtù del dono dell’amore che li costituisce e li salva.

Allora è abbastanza facile trovare il filo che ci lega alle Assemblee degli anni precedenti, quando, a partire da Quarto d’Altino, abbiamo fatto assieme un percorso in cui si è  cercato di vedere gli ambiti in cui la ministerialità degli sposi trova il modo di esprimersi, nella famiglia, nella Chiesa e nella Società. Ma, soprattutto, abbiamo cercato di capire dove sono le radici di questa ministerialità, di questa vocazione degli sposi al servizio.

Abbiamo visto che tutto ciò è radicato nell’amore di Cristo per la sua Chiesa, un amore che negli sposi si incarna come un dono che va a sua volta ri-donato per non diventare fine a se stesso, quindi sterile. Ci siamo messi così in contemplazione di Gesù per cercare di comprendere la dimensione di questo amore, la sua forza e la sua destinazione.

Lo abbiamo fatto sotto la guida del Patriarca Marco; l’anno scorso siamo stati stimolati dalle tre consacrate, le Apostole della Vita Interiore; quest’anno il compito lo abbiamo affidato a Daniele Garota.

Per chi ha partecipato alle Assemblee degli anni scorsi, a partire dal 1999, Ornella e Daniele Garota non sono una novità. Per gli altri è opportuno spendere due parole di presentazione.

Vivono a Isola del Piano, nella frazione di Scotaneto, in provincia di Urbino, tra le dolci colline marchigiane, dove conducono un agriturismo. Hanno quattro figli, tutti maschi.

Daniele non è solo uno studioso della Bibbia, è un innamorato della Parola e ce ne accorgiamo ascoltandolo e leggendo i suoi libri. Infatti, oltre a dedicarsi alla agricoltura biologica, è autore di libri che ruotano attorno alle domande più sentite dell’esistenza e della fede.

L’ultimo, uscito a Pasqua di quest’anno è “Il coltello di Abramo”. Ricordiamo anche “Credere con un figlio” Dio, la carne e le ossa”, L’onnipotenza povera di Dio”. L’ultimo, uscito a Pasqua di quest’anno è “Il coltello di Abramo”. Ricordiamo anche “Credere con un figlio” Dio, la carne e le ossa”, L’onnipotenza povera di Dio”.

  AL SOMMARIO

 

I saluti alL’ASSEMBLEA

e un paio di comunicazioni

§        di Padre Leone per la Comunità di S. Antonio di Marghera

Siamo lieti di darvi il benvenuto a Marghera, grati di vedervi numerosi. Sentiamo l’importanza di questo momento, perché l’obiettivo famiglia fa parte del progetto per l’anno pastorale che stiamo iniziando, in particolare per la parrocchia di S. Antonio e per quella dei Santi Chiara e Francesco.

Gli sposi e le famiglie, che da tempo battono alla porta del servizio pastorale nel nostro Vicariato, occupano un posto preminente nei nostri pensieri e speriamo, con la grazia del Signore e il dono della presenza del Patriarca, che questa Assemblea possa essere lo stimolo e l’inizio di una pastorale che oggi soprattutto non può non partire che dalla famiglia.

 

§       di don Roberto Berton – Vicario foraneo di Marghera     

A nome della comunità ecclesiale di Marghera porgo il saluto all’Assemblea diocesana degli Sposi. In vista della vostra presenza qui, nel Consiglio Vicariale e nei Consigli Parrocchiali ci siamo preparati ad accogliervi e a promuovere una riflessione su un progetto in cui la coppia fosse soggetto e non oggetto di pastorale.

Abbiamo lavorato insieme alla Commissione e siamo grati a voi di questo segno che ponete all’interno del nostro territorio, sperando che questo possa costituire una spinta per il futuro di Marghera per quanto riguarda l’attenzione alle coppie e alle famiglie.

Vi ringrazio nuovamente di essere qui e vi auguro buon lavoro.  

 

§        SULLA PASTORALE “STILI DI VITA”

di Ludovica Bastianetto

Sono stata incaricata di presentarvi il nuovo Ufficio per la Pastorale diocesana per gli Stili di Vita voluto dal nostro Patriarca.

Vuole essere un servizio alla comunità della Chiesa di Venezia, per noi cristiani, che se da un lato ci ispiriamo ad una Parola che ci invita a fondare la nostra esistenza sulla sobrietà, dall’altro siamo calati tutti i giorni in una società che invece ci spinge ad accumulare beni, che ci spinge al consumismo.

Questa spinta spesso è fonte di ingiustizia verso il prossimo, che si può identificare nel bisognoso, nella persona del sud del mondo, ma anche nelle generazioni future. Infatti la spinta al consumo può fortemente compromettere l’ambiente in cui viviamo e con esso il futuro nostro e delle generazioni che verranno.

L’Ufficio è ancora in fase di formazione, di redazione di programmi e progetti, però siamo disponibili a rispondere a quanti vogliono approfondire il tema. Vi invitiamo a trovare il tempo di contattarci; il prossimo anno cercheremo di essere ancora più stimolanti, nel rispetto della libertà di ciascuno, ma cercando al tempo stesso di mettere qua e là qualche seme per un cambiamento di stile di vita.

  (Pastorale Diocesana per gli Stili di Vita: responsabile don Gianni Fazzini – segreteria Ludovica Bastianetto c/o Caritas – Mestre – tel 041 975857 c/o MagVenezia – Marghera tel 041 538 1479 www.veneziastilidivita.it)

 

§        SU “PRONTO FAMIGLIA”

di Virgilio e Dilvia Rossi

Il 21 Ottobre 2001 i l Santo Padre Giovanni Paolo II ha proclamato Beati gli sposi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi: a questa coppia è intitolata una Fondazione che sta per attivare un nuovo servizio a sostegno delle famiglie su scala nazionale, in  collaborazione con l’Ufficio Nazionale per la Pastorale degli Sposi e della Famiglia e la Caritas Italiana.

Si tratta appunto di “Pronto Famiglia”, che vuole fornire un servizio di assistenza telefonica gratuita a chi chieda indicazioni circa strutture e servizi a favore della famiglia. Verrà attivato un numero verde a livello nazionale che offrirà indirizzi, recapiti telefonici e orari di servizio di persone o enti più vicini alla residenza della persona che chiama.

Per rendere operativo questo numero verde è necessario allestire una Banca dati in cui inserire tutte quelle realtà che offrono un servizio alla famiglia, sia laiche che ecclesiali, purché rispondano a determinati requisiti.

La Fondazione ci ha chiesto di collaborare censendo le realtà della nostra Diocesi. Noi due abbiamo accettato con riserva di fare da referenti, ma per fare un lavoro accurato e capillare è necessario, come capirete, costituire un equipe. La Commissione si sta attivando in proposito; intanto, se qualcuno fosse interessato a collaborare al progetto ci segnali la propria disponibilità

  AL SOMMARIO

   

meditazione ALLE LODI

“E voi sposi, chi dite che io sia?”

IL LABORATORIO DELLA FEDE

Un giorno a Cesarea di Filippo, Gesù volle sondare cosa si pensasse di Lui: “Chi dice la gente  chi io sia?” (Mc 8,27).

Le risposte furono discordi e Pietro soltanto seppe rispondere nella giusta maniera, lo sappiamo. Ma quello che mi interessa dire qui ora si rifà ad un concetto secondo me molto interessante espresso qualche anno fa dal nostro vecchio papa. Proprio in relazione a questa lettura, egli disse che in quel giorno, a Cesarea di Filippo, si aprì una sorta di “laboratorio della fede”.

Questa espressione me la sono sempre ricordata, perché la fede richiede un luogo nello spazio e nel tempo in cui si lavora attorno ad essa. Lavorare attorno alla fede significa capire chi è Gesù. E allora si potrebbe anche immaginare Gesù che dice: “E voi sposi, chi dite che io sia?”. Non è così facile la risposta. Quella giusta di Pietro fu: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mc 8,29).

Chi dice il vero non dice una cosa semplice, perché capire chi è Gesù non è una cosa semplice. Il Dio che Gesù rivela non è un concetto astratto, è una persona precisa che desidera essere conosciuta: egli desidera sapere che cosa noi pensiamo che lui sia. Quando ci avviciniamo a Gesù, alla ricerca del suo pensiero, per capire chi è, corriamo, credo, un paio di rischi.  

IL PROBLEMA SERIO DELLA TRASMISSIONE DELLA FEDE

Il primo pericolo è quello di affidarci alle formulette del catechismo che appaiono molto precisine, ma forse per noi vuote vuote, che non dicono più niente. Bisogna lavorare di più.

Non possiamo più pensare che si possa vivere di rendita nella fede. Il card. Tettamanzi, non molto tempo fa, disse che il vero problema serio della Chiesa, oggi, è quello della trasmissione della fede. Cristiani non si nasce, lo si diventa con la ricerca, attraverso qualcuno che ci annuncia delle cose.

Non potrà esserci fede nei nostri figli, non possono diventare cristiani, i nostri figli, se noi non gli trasmettiamo e non gli annunciamo qualcosa, se non conosciamo la persona del Dio in cui crediamo e gliela annunciamo. Questo dobbiamo metterci in testa: occorre lavorare nel laboratorio della fede, quotidianamente.

La fede richiede opera e l’”opera” per eccellenza, dice Gesù, è questa: “Credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). E non è una cosa semplice.

Ma trasmettere la fede è possibile più che con le parole con la testimonianza, attraverso i gesti vissuti. Gesù ci chiede: voi sposi, chi dite chi io sia, come raccontate ai vostri figli chi sono io? In quale maniera? Lo fate quando vi alzate al mattino, quando camminate per via, quando andate a lavorare, quando preparate da mangiare, quando siete seduti a tavola, o alla sera, quando andate a letto?

C’è, negli sposi, un mistero che accede direttamente a Dio. È importante che la Chiesa abbia riscoperto questo antico pensiero di Dio: “Non è bene che l’uomo sia solo, voglio fargli un aiuto che gli sia simile” (Gen 2,18). A immagine di Dio li creo, maschio e femmina li creò. E Dio vide che era cosa molto buona.

Quel “buona” nella bibbia è detto con un termine ebraico, tob, che non significa soltanto buono, ma anche bello, gustoso, vero, saporito, dunque qualcosa che coinvolge tutti i sensi.

È come se Dio, ad un certo punto, si fosse messo davanti alle sue creature come un artista davanti al quadro, e avesse detto: quant’è bella questa cosa che ho fatto, ma è anche buona, è viva, è piena di pathos». Questa è la realtà che Dio vide come cosa molto buona. l’adam, è l’umanità, è maschio e femmina insieme; quella è l’immagine di Dio. Lì si riflette in maniera potente ciò che Dio è. Gli antichi rabbini ebrei si inchinavano soltanto davanti a Dio, ma anche quando passavano due giovani sposi si inchinavano, perché in essi stava passando la shekinà, la presenza di Dio, perché in maschio e femmina, uniti, c’è la presenza di Dio. “L’uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola. Questo mistero è grande e lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5,32), dice Paolo. Questo mistero, questo segno delle nozze è grande e misterioso, è segno potente perché si rifà direttamente al rapporto tra Dio e la sua Chiesa. E che altro è l’incarnazione, il farsi carne di Dio, se non il divenire una carne sola con l’umanità, così come lo sposo e la sposa diventano una carne sola davanti a Dio? Questo mistero è grande.

C’è un autore russo che amo molto, Vasilij Rozanov, della scuola di Dostoevskij, che dice una cosa che potrebbe apparire scandalosa, ma che è anche un pensiero che scuote e ci aiuta a capire. È uno che ha ragionato molto, da credente, sul mistero della sponsalità, della carnalità, della sessualità. Egli dice: «io vorrei allestire dentro la Chiesa un’alcova, una camera nuziale: è lì che si ddovrebbero unire, nella prima notte di nozze, gli sposi, perché quando diventano una carne sola si esprime il mistero di Dio in maniera potente; è da lì che nasce la vita; è lì che si esprime con forza, nella carne, il mistero dell’amore di Dio».

E devo dire che se due sposi si amano e si incontrano nella tenerezza e nella gioia, diventano immagine di Dio davanti ai loro figli. C’è un vecchio proverbio che dice: “se tu vuoi bene ai tuoi figli, comincia con l’amare la loro madre”. Se i figli ti vedono amare la loro madre, il loro padre, sono felici, sentono che tu li ami. Si deve cominciare anche da lì: questa è la scuola anche della fede, perché si fa capire ai figli chi è Dio.

“Voi, chi dite che io sia?” , “voi sposi, chi dite che io sia?”. Esprimetelo con la vostra vita, con le tenerezze che vi fate.

Questo è il primo rischio, nell’avvicinarsi a Gesù: fermarsi alle formule  del catechismo senza  testimoniarlo nella vita.  

GESÙ VERO UOMO E VERO DIO         

               

L’altro rischio, è quello di avvicinarsi a Gesù in maniera un po’ sempliciotta, come se fosse una sorta di “Deus ex machina”, oppure di evanescente, soffuso, come anche certe spiritualità lo propongono.

Gesù è anche uomo, è profondamente uomo, è radicalmente uomo. Ma c’è anche il rischio di considerarlo troppo umano: Gesù infatti è anche Dio, Gesù è il Primo e l’Ultimo, senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. Egli è il Verbo che in principio era presso Dio. Egli stesso è quella Parola che crea. Dio crea con la Parola e quella Parola è Lui, il Verbo fatto carne, il principio di tutto, e tutto ciò che esiste, compresi noi, non potrebbe esistere senza di Lui che è Alfa e Omega, è colui che è venuto e verrà, che è Dio e Uomo.

Vanno tenute insieme queste cose, altrimenti non si capisce chi è Gesù; è un qualcosa che continuamente ci sfugge, ma noi dobbiamo continuare a cercare di capire; non arriveremo mai a comprendere fino in fondo chi è Gesù, lo capiremo solo un giorno quando lo vedremo a faccia a faccia così come egli è. Ora possiamo essere soltanto assetati di questo volto, perché ancora non lo vediamo.  

VEDERE LO STRAORDINARIO NELL’ORDINARIO  

A fronte di queste fatiche, io individuerei due piste di lavoro.

La prima è riuscire a vedere lo straordinario nell’ordinario, il soprannaturale e l’invisibile in ciò che è molto naturale e visibile. Un po’ come quando Gesù dice a Pietro: “Non la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. (Mt 16,17)

In ogni persona che incontriamo, a cominciare dal nostro sposo, dalla nostra sposa, dal nostro figlio, dal nostro babbo malato, dalla nostra mamma ammalata, in ogni creatura, anche negli animali, c’è il tocco di Dio, la presenza di questo mistero. Tutto ciò che noi facciamo ad ogni creatura che incontriamo, a cominciare dalla persona accanto a noi, si ripercuote in qualche misura in Dio stesso. E ciò che noi tocchiamo, vediamo, non vivrebbe se non ci fosse questo continuo influsso di Dio su di noi.

Noi non vivremmo se Dio non ci desse continuamente la vita. Lo Spirito dà la vita, continuamente  e di questo noi ci dobbiamo rendere conto nelle nostre quotidianità e in ogni piccola cosa che facciamo. Questo è importante: percepire, sentire lo straordinario nel nostro ordinario, nella nostra quotidianità.  

I loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia di Dio  

Nel vangelo di Matteo c’è questo versetto straordinario in cui Gesù dice: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli” (Mt 18,10).

Quanti di noi, davanti al nostro bambino, sono coscienti che quanto viene fatto davanti ai suoi occhi, in qualche misura viene fatto davanti alla faccia di Dio, che il loro angelo è sempre alla presenzia di Dio. Non ci rendiamo conto di questa forza che ha un bambino.

È accaduto a me, di essere nel mio studio, tutta la mia attenzione rivolta ad un concetto che devo sviscerare, bisognoso di silenzio, di non essere disturbato nella mia concentrazione; ed ecco, si apre la porta - chi è che viene a disturbarmi? - e si affaccia il mio Filippo, sette anni, e mi guarda. Non so perché lui è entrato in quel momento, solitamente non lo fa; entra e mi guarda, con quegli occhi mi fissa, non dice niente, però nei suoi occhi leggo una domanda, «babbo, mi ami?».

Nostra moglie, nostro marito hanno bisogno di sapere ogni tanto di sapere: «mi ami tu?». Anche Gesù ha avuto bisogno di saperlo:

«Pietro, mi ami tu?”, (Gv 21,15)

«certo che ti amo», gli dice Pietro, e allora

«pasci i miei agnelli».

Filippo, con il suo sguardo vuole sapere: «mi ami, tu?», ma me lo dice nel momento meno opportuno, mi mette alla prova, perché sono impegnato, non posso rispondergli. Potrei arrabbiarmi, dirgli di non disturbarmi, di non rompere le scatole. In quel momento, lì, tra me e lui c’è uno sguardo e avviene un mistero, e c’è Dio stesso presente in quello guardo, perché Dio stesso ha pensato me, ha pensato Filippo, prima ancora che fossimo formati nel grembo delle nostre madri.

Non sono io il padre di Filippo, sono semplicemente uno strumento. Ma Filippo, la persona di Filippo, tutto ciò che Filippo è e sarà, appartiene al Padre celeste, e questo vale anche per me. Perciò quello che avviene tra me e lui si ripercuote nel Padre, perché quello che io faccio a lui in quel momento, la parola che dico, si ripercuote nel cuore del Padre. Se io lo caccio via, se gli rispondo in malo modo, se  alzo la voce, se lui mi vede arrabbiato e va via, se subisce un trauma interiore, è Dio stesso che soffre e subisce. Ma se io mi alzo e mi precipito ad accarezzarlo, a riempirlo di tenerezze, lui è felice, e insieme a lui è Dio stesso che è felice.

In un piccolo gesto della nostra quotidianità, nell’incontro col figlio, con la sposa, con lo sposo, con la mamma, col papà, con l’amico, con il fratello (e ognuno potrebbe portare migliaia di esempi) dentro questi dinamismi in cui è possibile esprimere la tenerezza, la dolcezza, ma anche la rabbia, la violenza, l’urlo, avviene qualcosa che ha a che fare con lo straordinario, il soprannaturale.

Dio stesso è lì che si rivela. “Ogni volta che avete dato un bicchiere d’acqua a lui, lo avete donato a me”. Per questo motivo, tutto ciò che facciamo si ripercuote nel cuore del Padre. Il Padre ha bisogno di queste manifestazioni, e ci dà la libertà: possiamo adorarlo o rinnegarlo, ferirlo; possiamo uccidere nel cuore del nostro bambino l’immagine della tenerezza del Padre. Dipende da noi.  

VEDERE L’ORDINARIO DIETRO LO STRAORDINARIO  

C’è un altra pista di lavoro in questo laboratorio della fede: vedere l’ordinario dietro lo straordinario.

Qual è lo straordinario? Lo straordinario è la pagina del vangelo, della Parola di Dio. Quando noi leggiamo una pagina del vangelo, pensiamo di avere a che fare con lo straordinario avvenuto duemila anni fa: un bambino eccezionale che era Dio, la Madonna, il presepe e gli angeli che cantavano, i miracoli… No, dobbiamo cercare di vedere l’ordinario dietro quello straordinario. Questo bambino è nato in un villaggio di poche centinaia di anime, come la mia piccola Isola del Piano, dove si conoscono tutti. Cos’era Betlemme, cos’era Nazaret davanti all’impero romano?  

Un bambino di nome Gesù  

Chi era questo Gesù? Era un bambino nato lì, in una stalla, ma chi erano il padre e la madre? Persone comuni. Dunque è un bambino come gli altri, cresce nascosto in una famiglia come tutte le altre.

Ci sono stati dei vangeli, detti apocrifi, che narrando l’infanzia di Gesù,  gli hanno attribuito subito i miracoli: faceva gli uccellini col fango, batteva le mani e gli uccellini volavano via eccetera, tutto uno sfarfallio di miracoli. I vangeli canonici invece sono sobri, mostrano un Gesù umano.

Chi è quello lì? A trent’anni era ancora il figlio di Giuseppe. «Ma non è il figlio del falegname – dicono a Nazareth – ma chi crede di essere?». (cfr Mt 13,55) Vuol dire che in trent’anni è stato nascosto, era come un altro bambino, come un altro ragazzino, non faceva niente di speciale.

Vedere l’ordinario dietro lo straordinario ci fa bene perché sentiamo quanto Dio si è avvicinato a noi e fosse uguale a noi. I suoi problemi erano come i nostri problemi. Maria ha avuto con Gesù che cresceva, gli stessi problemi di ogni mamma.

Un uomo come  noi  

Davanti alla Parola di Dio, alle cose straordinarie che ci vengono annunciate, dovremmo riuscire a vedere qualcosa di vicino a noi, simile a noi. Questo era Gesù, un uomo come noi.

Immaginiamo un uomo, un giovane: quando si incontra con Pietro, con Andrea ed escono dalla sinagoga di Cafarnao,

«vieni, andiamo a mangiare, andiamo a cena a casa nostra».

Sono insieme, vanno a casa di Pietro a Cafarnao: è bello stare insieme tra amici e allora bisogna preparare, c’è da far da mangiare… C’è la moglie di Pietro, ci saranno stati i bambini, i figli di Pietro, che facevano baccano.

«Adesso state zitti, c’è Gesù»

Ma c’è anche la suocera, che sta male, è a letto, ha la febbre, e non era una leggera influenza, ma una malattia di cui si poteva morire.

«Guarda, Gesù, che c’è la madre di mia moglie, di sopra, che sta male parecchio… ti ho visto vicino alla sinagoga, hai del potere, fai qualcosa”.

E Gesù va; ecco, le sue mani la toccano, la prende per mano, trasmette qualcosa, ha una forza.

Quando mia madre è morta, negli ultimi momenti le tenevo sempre la mano, e attraverso la mano ci comunicavamo qualcosa, certo un segno di tenerezza. Ma Gesù comunicava più di quello che possiamo comunicare no: questa donna si alza e si mette a cucinare, si mette lei ai fornelli, prepara la cena, si mangia, si mangia insieme, perché era così. (cfr Mt 8,14-15; Mc 1,29-34; Lc 4,38-41)

«Vedi come lo amava»  

Gesù era un uomo come gli altri, erano tutti dei giovanotti. E quando viene a sapere che un amico è morto egli va’. Gesù è diventato ormai uno che trascina le folle, un uomo che conta;  quest’uomo importante, giovane e forte, - che è Dio - davanti alla tomba di Lazzaro, scoppia a piangere. Facciamo lo sforzo di immaginare questo pienamente uomo Gesù, quest’uomo di trent’anni che scoppia a piangere. Ed è proprio dal modo con cui piange che la gente dice «Vedi come lo amava» (Gv 11,36). Gesù non si vergogna di piangere. Gesù non si vergogna di amare. Dio non si vergogna di piangere come un uomo, di amare come un uomo.  

«Voglio venire a casa tua»  

Oppure quando Gesù incontra Zaccheo (cfr Lc 19,2-9). Zaccheo, che era piccolino, sale sull’albero perché lo vuol vedere e Gesù gli dice:

«oggi voglio venire a mangiare a casa tua».

E una volta a casa di Zaccheo

«Oggi la salvezza è entrata nella tua casa»

E Zaccheo se n’è accorto.

Immaginiamo Gesù che ci dice «voglio venire a casa tua». Come ci comporteremmo? Fare posto a lui, preparare da magiare, immaginiamolo dentro la nostra casa, oggi, nelle nostre quotidianità. Arriva uno come Gesù, cosa facciamo? Cominciamo a mobilitarci, andiamo a prendere i vini buoni, come fanno i miei amici qua, quando vengo a Venezia, prendono il vino, mi preparano il pesce, …

Gesù era uno che gli piaceva mangiare e bere, amava la tavola; però amava qualcosa di più: amava una cosa ancora più importante, quella che aveva capito Maria che si era messa ad ascoltare. Marta era tutta presa dai molti servizi, Maria invece era lì ai suoi piedi e ascoltava. Quando uno sente l’esigenza di dire una cosa, ha bisogno che ci sia qualcuno che stia ad ascoltare, altrimenti è fatica sprecata. Maria capiva chi era quest’uomo perché lo ascoltava. Come possiamo ascoltare Gesù nelle nostre case? Ci potrebbero essere dei modi? Non lo so, cerchiamo di scoprirlo.  

Innamorate di Gesù  

Immaginiamo Gesù che incontra le donne.

Ai tempi di Gesù, i rabbini erano con le donne, un po’ come lo sono stati i preti fino a poco tempo fa. Qualcuno ancora oggi quando vede una donna, pensa che bisogna scappare perché è pericoloso, la donna è fonte di grandi pericoli.

Gesù non ha di questi problemi, era un rabbino che amava stare con le donne, e ce n’erano molte che lo seguivano, forse ce n’erano anche di innamorate di lui. Anche il vostro patriarca Marco Cè disse una volta una cosa simile. Chi lo sa, le donne si potevano innamorare di Gesù e lo seguivano, ma lui aveva un rapporto molto tranquillo, non aveva problemi con le donne.

Va in casa di Simone (cfr Lc 7,36-47), un uomo importante, influente e ad un certo punto, mentre sono a tavola, entra una donna, una poco di buono, e si mette lì, comincia a strisciare attorno alle gambe di Gesù. Simone dice:

«ma insomma, se fosse un profeta capirebbe che questa qua è una puttana, la conoscono tutti, tutti sanno chi è questa qua, ma cosa si fa fare…».

E lui capisce:

«Simone, che cosa stai pensando? Da quando sono entrato tu non mi hai dato neanche una bacinella d’acqua per lavarmi le mani; questa qua non ha smesso un minuto di lavarmi i piedi con le sue lacrime, e me li bacia, li accarezza. Lei può avere tutti i peccati di questo mondo, ma gli sono perdonati, perché ha molto amato».

Questo è il rapporto che lui aveva con le donne: è straordinario, è una novità assoluta. Non ci sono riscontri storici che un rabbino abbia agito così con le donne. Gesù aveva un rapporto molto immediato, faceva spazio a queste categorie deboli.  

Il bambino  

Il bambino è uno che rompe le scatole. So di molti agriturismi come il mio che rifiutano i bambini fino a quattordici anni, perché fanno chiasso. Nella nostra società, il bambino impiccia. Gesù apre ai bambini.

«No, non li mandate via, lasciate che i bambini vengano a me, perché loro sono i modelli. A chi è come loro sarà dato il regno dei cieli e se non diventerete come loro non entrerete nel regno dei cieli». (Mt 19,14; Mc 10,14; Lc 18,16)

Credo che in Gesù ci sia stato qualcosa del bambino. I bambini gli si avvicinavano perché sentivano che in lui c’era qualcosa di simile a loro. I bambini captano subito; se un adulto non lo vedono di buon occhio, girano alla larga, ma se incontrano un adulto con lo sguardo dolce, gli saltano addosso. Ci sono anche dei vecchi che hanno qualcosa dei bambini, hanno un’apertura negli occhi, nello sguardo, e il bambino lo capta subito. State tranquilli, il bambino non  sbaglia.

Bisogna tornare bambini. Non si fa qui del romanticismo, però c’è qualcosa nel bambino che l’adulto non ha più. A volte, attraverso Filippo, devo scoprire qualcosa, perché lui mi insegna a vedere ciò che io non riesco più a vedere. Un bambino capisce al volo lo stupore, il mistero di una cosa bella, straordinaria; ha il dono della semplicità.  

Un Dio è caduto nell’abisso

Ma poi andiamo alla più tremenda pagina evangelica, quella del Getsemani, dove non c’erano bambini, dove il dolore umano di Gesù è tale che persino il suo sudore diventa sangue, dove l’angoscia è simile alla morte. Intanto gli amici dormono. Egli ha paura, l’angoscia lo fa tremare, è solo, ha bisogno di compagnia e la chiede. Ma i suoi amici dormono. Vedere l’amico caro che mentre tu soffri e gridi di dolore, dorme: ecco, dev’essere terribile. Non ha mai chiesto nulla a nessuno, Gesù, ha sempre ascoltato tutti, lo cercavano tutti e tutti volevano da lui qualcosa. Mentre lui non ha mai chiesto niente. Soltanto una cosa ha chiesto e una volta sola nel Getsemani. Un po’ di compagnia. Nessuno gli ha risposto, nessuno è stato capace di stare sveglio almeno un’ora insieme a lui, il più bisognoso della terra in quel momento lì.

Oppure, immaginiamolo poco dopo nel Calvario. Cerchiamo di sforzarci un poco, perché purtroppo, come diceva il buon Peguy, “intere generazioni d’abitudine catechistica” ci hanno resi ottusi di fronte a questo dramma. Immaginiamo un giovane preso di forza dagli agenti dell’ordine, incatenato e bastonato come un delinquente. Voi madri, pensate vostro figlio in quelle condizioni, con la gente che gli sputa in faccia e lo deride, con agenti in uniforme che lo frustano col flagello, con la frusta che strappa la carne viva. E quel giovane sulla trentina è desideroso di vita e grida che non vuole morire, un po’ come fanno quelle povere bestie quando le si trascina al macello per essere sgozzate. Ecco, un uomo così, che viene ad un certo punto inchiodato a una croce tra grida di dolore indicibili. Scorre molto sangue, si sentono i martelli che battono i chiodi, il vociferare dei soldati e quell’uomo che continua a gridare tra i tormenti: non voglio morire! Basta! Non ne posso più! E alla fine appeso alla croce si rivolge persino a Dio per dirgli: “Perché mi hai abbandonato?”. Eppure egli stesso era Dio, in qualche modo, un Dio che è caduto in un abisso, l’abisso della chenosi. Ecco, anche qui dobbiamo fare attenzione a ciò che ci dice il Vangelo: perché proprio il centurione, non un uomo qualsiasi, ma colui che aveva diretto le manovre della terribile esecuzione, colui che aveva dimestichezza con le grida e il sangue dei condannati, ecco proprio un uomo come quello, vedendolo spirare in quel modo, nel modo più atroce e disperato, dice: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39)?

“Dio si rivela nel dettaglio”  

Dentro queste pagine evangeliche noi dovremmo cogliere in Gesù gli aspetti di un’umanità che è uguale e identica alla nostra. C’erano le stesse tensioni, le stesse scosse, le stesse dinamiche interiori. Il vangelo è fatto di tenerezze, di mani che si toccano, che intingono nello stesso piatto. Lì c’è uno che lava i piedi, l’altro che sta male, quello che è guarito, quello che ha bisogno, ha fame, ha sete, è cieco, storpio, zoppo. Tutti bisogni umani; Gesù scende e vive insieme a noi, mette la sua tenda in mezzo alle nostre, e circola nelle nostre strade. Questo è quello che fa Gesù.

Credo sia molto importante capire quello che diceva qualcuno: “Dio si rivela nel dettaglio”.

Dio si rivela nelle piccole cose, nelle sfumature dell’esistenza, un po’ come quando Elia pensa che sia nell’uragano, nel terremoto. Dio non era lì: passa una voce di silenzio sottile, un soffio di brezza leggera, ecco lì era Dio. Noi dobbiamo percepire queste piccole cose. Qualcosa di Dio, ad un certo punto ci sfiora, ci tocca, ma dobbiamo essere attenti perché noi potremmo essere ciechi e sordi, non sentire e captare niente. Se Dio ci visita, se Dio ci sfiora, se Dio ci dà una bussatine, noi dovremmo essere sempre sul punto di aprire la porta del nostro cuore.

Perché Dio è molto discreto, non è uno che viene e spacca tutto, che butta giù la porta e vuole entrare a tutti i costi. Dio bussa piano, vuol sentire se lo desideriamo, se lo stiamo aspettando, se abbiamo bisogno di lui. Lui ci sfiora appena, bussa, e se noi apriamo, allora lui viene, sta con noi a cena. “Ceneremo insieme a lui”, com’è scritto nel libro dell’Apocalisse.

Bisogna essere molto attenti, perché Dio si rivela nelle piccole cose, nello sguardo di un bambino, nella sposa che ti dorme accanto, che è febbricitante, che ha bisogno, e Dio vuol vedere se hai compassione, se tu sei grado di coprirla di tenerezza, vuol vedere come si muove il tuo cuore.

Dio dice a Samuele: io guardo il cuore, non come l’uomo che guarda le apparenze, l’imponenza della statura, la forza. In questi piccoli dettagli, in questi piccoli particolari delle nostre vite, delle nostre quotidianità, si rivela Dio e noi ci riveliamo a Lui, nell’incrociarsi di queste due dimensioni, la nostra e la sua, il soprannaturale e il naturale, l’ordinario e lo straordinario.

Tutti veniamo da lì, dalla stessa origine e, come dice la lettera agli Ebrei, lui non si è vergognato di chiamarci fratelli, di chiamarci amici. Non esiste religione che abbia toccato questo apice straordinario che distingue il cristianesimo: un Dio che dice sono vostro amico, sono vostro fratello, ho gli stessi bisogni tuoi; un Dio che diventa bisognoso di noi fino a farsi bambino, fino a patire le nostre stesse sofferenze. Questo è straordinario, questa è la verità cristiana in assoluto.

TRE ELEMENTI SIMBOLICI  

Ho individuato tre elementi che sono fortemente simbolici, in questo laboratorio della fede, nei quali in particolare si rivela chi è il Cristo.

Il primo elemento è quello della sessualità. Il seconda è il bambino: i due sposi, una carne sola, danno vita al bambino; i bambini non possono nascere se non da lì. Oggi i bambini li fanno nascere anche in una maniera diversa, ma sono delle aberrazioni; un bambino non viene al mondo se non ci sono maschio e femmina: Dio ha voluto così.

Il terzo elemento è la tavola.

Questi tre elementi sono importanti, e nelle nostre case ci sono tutti e tre.  

IL MISTERO CHE SI RIVELA A TAVOLA  

Mi soffermerò dunque in conclusione, sul mistero che si può rivelare nello stare a tavola.

L’Eucaristia, cos’altro è se non una tavola attorno alla quale noi facciamo memoria dell’ultima cena, quando una sera di molti anni fa il Signore stava a tavola coi suoi amici e disse loro: «arrivederci alla tavola del Regno di Dio. Tornerò e saremo di nuovo insieme, ma lì non berremo più il sangue, berremo invece il vino, berremo il frutto nuovo della vite, nel Regno del Padre mio, nel banchetto celeste, nel banchetto messianico».

L’Eucaristia si pone al centro, ma insieme all’Eucaristia ci può essere anche la nostra tavola, attorno alla quale possiamo fare spazio a questo mistero, dove possiamo rivelare qualcosa, fare posto a questo Gesù, perché, l’abbiamo visto, in fondo Lui viveva nelle case, attorno alla tavola.

Come si può fare? Credo che se facciamo gesti importanti, carichi di fede, gesti di persone che hanno lavorato nel laboratorio della fede, non servono i discorsi. La fede si trasmette coi gesti, con la testimonianza, come si è, come ci si indigna davanti a certi fatti. I figli ci ascoltano e vogliono vedere qual è il nostro giudizio, quali sono le nostre logiche per discernere le questioni.

Si può parlare di tutto a tavola, e si può entrare con la figura umanissima di Gesù dentro a qualsiasi fatto che avviene nella nostra storia, la storia piccola della nostra casa, della nostra famiglia, ma anche la storia grande del mondo.

A tavola si dovrebbe discutere di tutto, dei poveri del “Terzo Mondo”, delle ingiustizie sociali, di ciò che mangiamo e di ciò che beviamo, della scuola che fanno i nostri figli, di quello che è accaduto. La tavola dovrebbe essere il luogo primario di dialogo perenne, tra sposo e sposa, tra genitori e figli. E poi ci sia posto anche per il nonno, che anche lui ha qualcosa da dire, anche noi saremo nonni a nostra volta.

Purtroppo nelle nostre case attorno alla tavola non ci si sta più, perché uno mangia e l’altro fugge, la famiglia non si riunisce più attorno alla tavola. Certe famiglie non riescono a stare a tavola tutti insieme nemmeno una volta la settimana, specialmente se la famiglia è numerosa come la mia.

Quando si è attorno alla tavola, spesso la TV è accesa, con il telegiornale, la fiction, all’ora di pranzo ce n’è per tutti. I bambini, appena hanno mangiucchiato un po’, s’infilano in camera ad accendere l’altra televisione in camera, perché devono vedere un altro programma.

Ma quando si parla? Quando si sta insieme? Quando si prega, prima di mangiare, per ringraziare il Padre celeste? L’unico momento in cui nella nostra famiglia siamo riusciti a trovare un attimo di preghiera è prima di mangiare. Potrebbero esserci ogni tanto altre occasioni, ma sono rarissime e molto difficili. Ma attorno alla tavola è l’unico momento in cui si può pregare insieme. Una preghiera semplice, un Padre Nostro. Adesso è Filippo, il più piccolo che dà il là: lui dice la prima parte e noi la seconda. E se qualche volta arrivano gli ospiti, amici dei miei figli che magari non credono, fan due occhi così quando vedono farci il segno di croce. Allora bisogna essere discreti, ma qualcosa accade, ed è testimonianza che Gesù è presente, è laboratorio della fede.

È attraverso il nostro operare che deve brillare la luce che tutti devono vedere. È la nostra vita che deve essere luminosa e saporita, affinché gli altri vedendo le nostre opere rendano gloria al Padre che è nei cieli (Mt 5,16). È da come ci comportiamo, è da come ci muoviamo, è dalle scelte che facciamo che gli altri si accorgono se siamo amici di Gesù, e anche di quella bontà che Dio vedeva all’inizio della creazione godendone immensamente. Il resto sono chiacchiere, in chiesa come fuori.

    AL SOMMARIO

e dio vide

che era cosa molto buona”

1. stimoli per una discussione

di monsignor Silvano Brusamento [4]

Innanzitutto devo farvi una confidenza. Il Patriarca, quando mi disse che avrei dovuto seguire anche la pastorale familiare, aggiunse testualmente che è difficile trovare in Italia una pastorale familiare così ben radicata come a Venezia, sia per il fondamento teologico su cui è stato impostato il lavoro in questi anni, sia per le iniziative concrete a favore delle coppie e della famiglia, riferendosi per esempio al Consultorio S. Maria Mater Domini, all’Istituto Casa Famiglia della Giudecca, realtà che poi ha avuto modo di conoscere e apprezzare.

È giusto che questo apprezzamento sia noto, anche se don Silvio queste cose le tiene per sé. Bisogna invece rendere merito al lavoro della Commissione e di tutti coloro che hanno contribuito in questi anni alla crescita di questa pastorale, anche attraverso questi incontri.

Devo ora presentarvi il sussidio, preparato dalla Commissione e che reputo molto bello e prezioso; in esso troverete degli utili riferimenti biblici e magisteriali, e l’aggancio della pastorale alla nostra storia concreta.

Dovremo fare tesoro dei suoi contenuti e vi raccomando di leggerlo e meditarlo in coppia e di commentarlo nei gruppi: è davvero un punto di riferimento molto importante.

Come diceva don Roberto, il sussidio è nato dal lavoro della Commissione che ha elaborato un dialogo iniziato con il Vicariato di Marghera – e che speriamo continui -, e si prefigge lo scopo di cercare delle linee orientative di programmazione pastorale avendo come soggetto gli sposi e le famiglie. Molto spesso si fa una pastorale per le famiglie, mentre dovrebbe essere una pastorale delle famiglie, dove gli sposi e le famiglie sono, appunto, soggetti.

Prima di passare ad esaminare assieme uno dei capitoli di questo sussidio, mi sembra opportuno leggere due brevi interventi scaturiti durante gli incontri tra i rappresentanti della Commissione e quelli del Vicariato di Marghera.

Il primo è di don Alfredo Basso, parroco della “Risurrezione”.

«Con l’allegato documento “La famiglia al centro della nostra missione parrocchiale e vicariale”, desideriamo prepararci all’Assemblea degli Sposi per arrivarci come “attori” e poi continuare con un “progetto pastorale”,  che speriamo si ispiri a questa stessa Assemblea. Tutta la Pastorale familiare italiana e mondiale è in crisi. Se si pensa di usare le nostre scarse forze, non raggiungeremo grandi risultati. Siamo convinti che la collaborazione aumenterà le possibilità di realizzare qualcosa di più di quanto abbiamo fatto fino ad oggi. I “gruppi famiglia” non esistono o quasi nelle nostre parrocchie. Se crediamo che la Pastorale familiare sia importante dobbiamo dedicarle più energie.»

Questo pensiero è presente anche nelle PREMESSE dell’opuscolo dove si afferma che la pastorale parrocchiale non può essere più una pastorale di conservazione ma di “missione” e, quindi, evidenzia il ruolo espresso dagli sposi e dalla famiglia all’interno di questa missione che costituisce un grande dono che il Signore ci ha fatto.

La seconda citazione è di un altro prete di questo vicariato, don Ottavio Trevisanato, parroco a Ss. Francesco e Chiara: «Se dall’Assemblea fossimo capaci di far emergere tutti i valori che stanno sotto la vita sponsale e famigliare, sarebbe un concreto, entusiasmante obiettivo!»

Ho voluto leggere queste due note, di due sacerdoti per mettere in rilievo l’importanza che si maturi anche tra i preti la logica che la pastorale non trova soltanto i preti come soggetti, ma che coinvolge anche i laici.

Passiamo ora ad esaminare il “cuore” del sussidio, costituito dal capitolo

“FONDAMENTALE NEL PROGETTO PASTORALE È L’AMORE CONIUGALE”

«Lo conferma da sempre la storia dell’umanità: la quasi totalità degli uomini e delle donne si desiderano, si innamorano, si sposano e danno origine alla famiglia.

Lo conferma la Parola di rivelazione della Bibbia, che inizia con l’annuncio; “Da principio Dio li creò maschio e femmina”».

Il fatto che sia io a presentarvi questo sussidio e non la Commissione che l’ha redatto è significativo per il fatto che in questo momento, rappresento il Patriarca. Ciò implica che il Patriarca ha fatto suo questo documento, lo ritiene parte della pastorale diocesana ed approva la linea che da esso emerge.

Il primo punto

«Trasmettere la Buona Notizia, parlare di Dio alle donne e agli uomini del terzo millennio non può esulare dal far contemplare l’originario modo di presentarsi di Dio attraverso l’amore umano»

Come diceva prima Daniele, noi vediamo Dio attraverso dei segni. Uno di questi è il segno della coppia che, vivendo il rapporto sponsale, è immagine e somiglianza di Dio. Dovremmo contemplare questa realtà con attenzione perché attraverso l’amore degli sposi, anche se non sono credenti, si manifesta l’amore di Dio, possiamo capire chi è il Signore.

Quando Dio parla del suo rapporto con l’umanità, lo fa in termini sponsali: Lui è lo sposo e il popolo è la sposa. Dio, quindi ha posto in mezzo a noi questo segno e, come dice il titolo di questa Assemblea: Dio vide che era una cosa molto buona.  

Il secondo punto

«Ogni progetto pastorale (di rievangelizzazione) non può che tornare a reinterpretare questo “principio”, cercando di comprendere sempre meglio il disegno iniziale di Dio».

Dobbiamo imparare a guardare al progetto iniziale di Dio, che ha voluto questo segno nella storia e di conseguenza dobbiamo costruire una storia che sia in conformità al progetto di Dio.

Ci sono tante difficoltà alla realizzazione del disegno, ma non possiamo mai dimenticare che “In principio….”, in un progetto di ri-evangelizzazione, non possiamo non tener presente gli sposi e la famiglia, così come Dio li ha voluti.

Il terzo punto

«Non si è buoni evangelizzatori se non si sa apprezzare e valorizzare la realtà umana nella sua laicità, se non si sa fare silenzio e contemplare il mistero di un amore che nasce, eventualmente sostenendo quella aspirazione all’assoluto che è nascosta nei desideri stessi delle coppie».

In questa notazione, molto bella e molto importante, che ci invita ad apprezzare e valorizzare la realtà umana nella sua laicità, nella sua creaturalità, ci sono delle espressioni da sottolineare e sulle  quali riflettere.

“Se non si sa fare silenzio” : sappiamo come sia difficile fare silenzio, perché abbiamo paura del silenzio. Quando arriviamo a casa, soli, ci fa paura quel silenzio e accendiamo subito la radio, abbiamo bisogno di rumori; dovremmo invece fare silenzio, che non sia vuoto, ma ricco di significato, che ci fa essere attenti, un silenzio di attesa.

Il Signore ci parla nel silenzio e quindi se vogliamo essere buoni evangelizzatori, è necessario valorizzare questa realtà che il Signore ha posto in mezzo a noi, soprattutto partendo dal silenzio, per mezzo del quale impariamo ad astenerci da giudizi superficiali e affrettati.

Inoltre il silenzio ci permette di contemplare, che non è una prerogativa soltanto dei monaci; ogni uomo deve imparare a contemplare il progetto di Dio, il mistero di un amore che nasce, un mistero davvero grande perché è lo stesso mistero di Dio. Non lo possiamo penetrare nella sua totalità, ma deve trovarci sempre attenti a renderlo parte della nostra vita, giorno dopo giorno.

C’è poi la necessità di sostenere quella aspirazione all’assoluto che è nascosta nei desideri stessi delle coppie. La realtà sponsale non è fondata sui comandamenti, dai quali si può uscire con una condotta farisaica, ma è fondata sull’amore, e quindi è una realtà che non offre scappatoie.

Meditiamo tutto questo nei nostri gruppi, parliamone insieme, perché chissà quanta ricchezza riusciremo a far scaturire da queste suggestioni.

Il quarto punto

«Per l’intrinseca bontà delle cose create, le prime pagine bibliche ci presentano, per così dire, il “manifesto della laicità” e insieme la “intrinseca” religiosità del creato. Nella creazione Dio si dona realmente, concede l’autonomia e si ritira per affidare alle sue creature, l’uomo e la donna in relazione, la libertà e il gusto di amarsi e sentirsi fecondi e concreatori».

E Dio creò l’uomo e lo pose nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse. Ecco la grande meraviglia del titolo: l’amore degli sposi, meraviglia della creazione, dono per la persona, la famiglia, la comunità; è un grande dono per l’umanità. Dobbiamo prendere coscienza di essere stati posti per dare speranza all’umanità, per cui non ha senso il nostro pessimismo. A volte ci scoraggiamo, ma questo è un sintomo che la nostra fede è ancora fragile e dobbiamo farla crescere. Il Signore ha posto questo segno, l’amore degli sposi, perché ci sia chi coltivi questo giardino, perché esso non abbia a diventare foresta, una giungla dove regni la legge del più forte, la violenza, la sopraffazione.

Il quinto punto

«Tutto questo richiede da parte dei pastori e delle comunità cristiane forte equilibrio e profonda saggezza…»

Se è vero che nella sua creaturalità la coppia è cosa buona, sappiamo però che noi passiamo attraverso una storia di peccato, purtroppo, ma il Signore è anche colui che ci redime.

«… Infatti, tutti sappiamo che il cristianesimo conosce il regime di vita matrimoniale e familiare non solo nella sua realtà creaturale, ma anche come una realtà bisognosa della “salvezza” quella operata da Gesù Cristo».

Riprendendo quanto diceva Daniele, per accogliere questa presenza salvifica del Signore è necessario avere la disponibilità del bambino: “se non vi farete come questi bambini non entrerete nel regno dei cieli”. C’è quindi una parola che crea, ma questa parola viene anche a redimere, in Gesù Cristo.

Il sesto punto

«Trasmettere la buona notizia significa innanzitutto aprire gli occhi dei fidanzati a questa realtà “divina” del loro amore e a prendersene cura fedele».

Bisogna davvero aiutare i fidanzati perché purtroppo non sono aiutati proprio da nessuno, anzi sono disinformati. Il mondo prospetta loro uno stile di vita molto diverso da quello che è il progetto di Dio, rischiando così di rovinare una realtà bella come l’amore.

I corsi per i fidanzati, che dovrebbero essere itinerari di fede, diventano cammini importanti.

Quando ho chiesto ad un gruppo di giovani della mia parrocchia, che pure frequentano la catechesi da tempo, cosa intendessero per amore, si sono trovati imbarazzati all’inizio perché sono bombardati da mille altre idee. È quindi indispensabile aiutare i fidanzati, i giovani, a scoprire che questo loro amore non va vissuto solo come istinto, ma come progetto di Dio, come vocazione.

Il settimo punto

«Proprio la prima pagina della Genesi rende comprensibili quei passi evangelici in cui Gesù, invitando ad amare tutti non trasmette solo una regola etica nuova, ma spinge ad imitare il comportamento stesso di Dio…».

La coppia deve essere aperta, non solo perché tutti possano entrare in casa e trovare l’accoglienza, ma perché essa stessa possa uscire da questa casa e diffondere questo stile di accoglienza.

È giusto che nella nostra Diocesi si parli di stili di vita e che vengano assunti come un fatto molto serio e tra questi non possiamo dimenticare che il punto di partenza è proprio l’accoglienza. Abbiamo la gioia di avere una grande città invidiata da tutto il mondo, ma ci dobbiamo chiedere  se questa città è veramente accogliente nei riguardi di chi arriva da lontano.

Ho dei grossi dubbi in proposito ed è giusto allora chiedersi se anche come Chiesa siamo accoglienti. Se le famiglie imparano questo stile, diventerà uno stile della comunità ecclesiale e un segno per l’umanità.

In conclusione, vi rinnovo l’invito a leggere questo sussidio, in cui trovate anche delle proposte molto concrete di adesione ad iniziative, come l’Istituto Casa Famiglia alla Giudecca. Non facciamo diventare questo sussidio uno dei tanti fascicoli messi in libreria, ma leggiamolo ed utilizziamolo.

In conclusione, vi rinnovo l’invito a leggere questo sussidio, in cui trovate anche delle proposte molto concrete di adesione ad iniziative, come “Casa Famiglia”. Non facciamo diventare questo  sussidio uno dei tanti fascicoli messi in un angolo, ma cerchiamo di leggerlo e di utilizzarlo.  

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2. stimoli per una discussione

di Claudia e Luca Veronese[5]

Claudia

Sono Claudia della parrocchia della Risurrezione del Vicariato di Marghera. A me e a Luca è stato chiesto di fare un breve intervento per focalizzare il tema su cui ci siamo interrogati come Vicariato di Marghera, in preparazione proprio a questa Assemblea. Infatti, come ha detto il nostro nuovo vicario, abbiamo un forte desiderio di dare vita ad una Pastorale per la Famiglia, perché ad oggi esistono delle esperienze piccole e isolate, non integrate tra loro e poco inserite nella vita della comunità. Di qui l’occasione offertaci dall’Assemblea di confrontarsi su che cosa poi significa una pastorale della famiglia, la possibilità di trovare un momento di riflessione ma anche una forte spinta in questa direzione per capire dal confronto e dal dibattito tra famiglie quali possano essere le linee guida su cui impostare il lavoro di quest’anno pastorale.

Le riflessioni degli incontri di preparazione con la Commissione, con don Silvio, hanno voluto cercare gli elementi fondanti di una coppia di sposi in Cristo.

Che cosa fa di una coppia una coppia che vive pienamente il Sacramento del Matrimonio?

Sono emerse posizioni anche molto diverse su aspettative, contenuti e modalità di attuazione di una pastorale per la famiglia. Chi guarda con preoccupazione a tutte quelle forme di famiglia che caratterizzano la nostra società, chi invece vuole comunque lavorare sulla propria famiglia, sulla quotidianità di una famiglia inserita nella piccola parrocchia di tutti i giorni che pure non trova una risposta ai suoi bisogni. Comunque per tutti una difficoltà ad individuare una famiglia tipo, così come ci viene presentata dai sociologi e che spesso esiste solo sulla carta. L’elemento cardine della vita familiare, come anticipato nel corso di questo dibattito, è stato individuato nell’Amore coniugale come dono di Dio. Abbiamo però voluto leggere l’amore coniugale nella vita di tutti i giorni, l’abbiamo proiettato nella realtà di sposi che di questo amore vivono e si alimentano; quindi un amore che vuole vivificare la presenza di Cristo all’interno della famiglia, facendo diventare il matrimonio un rapporto a tre. Un amore che, così inteso, vuole rendere la coppia un modello di condivisione e di accoglienza per tutta la Chiesa.

 

Luca

Se l’amore come è stato individuato è l’elemento cardine attorno cui sviluppare la pastorale familiare bisogna stare attenti che la famiglia, oggetto e soggetto della pastorale, non diventi una famiglia astratta e che questo amore che descriviamo non diventi un amore con la “A” maiuscola che poco si confronta con la realtà. Dalla nostra esperienza il Sacramento del Matrimonio è significativo se va a cogliere la realtà terrena e la sacralizza; cioè se lega indissolubilmente la dimensione celeste e la dimensione terrena, facendo vivere agli sposi un legame molto forte con Dio, a partire dalla propria realtà. È, come ci ha spiegato prima Garota, il vedere lo straordinario nell’ordinario, per riuscire a ricavare dalla vita di ogni giorno quel piccolo segno, quella piccola sfumatura che mi presenta e mi fa vivere fino in fondo l’amore di Dio.

Se partiamo da questo principio scopriamo anche che nei momenti difficili della coppia il problema non è legato alla fede o alla consapevolezza dell’amore, di cui Dio rende partecipi gli sposi. E se anche nella fase di avvicinamento al matrimonio si riscontra una maggiore superficialità nella decisione di unire le proprie vite, è pur vero che la scelta di posticipare questa data, la data delle nozze, è sempre più diffusa; osservando da vicino questo fenomeno, scopriamo che i fattori che bloccano tante coppie che non arrivano al matrimonio sono altri e questi stessi elementi determinano probabilmente lo stato di incertezza e di insicurezza di quelle coppie che, con un gesto ormai controcorrente, decidono di sposarsi.

La convinzione mia e di Claudia, dalle riflessioni fatte, è che le sfide della coppia si trovano in realtà fuori della coppia stessa e tante volte soccombere davanti a queste sfide può mettere a repentaglio l’esistenza stessa della coppia. A questo proposito vale la pena ricordare quello che è stato definito prima come il laboratorio della fede, i cui capisaldi sono decisamente interessanti: la sessualità, la presenza della tavola e quindi la condivisione, e la presenza dei bambini. Io credo che tante volte, quando per vari motivi uno di questi capisaldi viene meno, la coppia sia sostanzialmente sola.

Una volta esisteva la famiglia allargata, una volta c’erano dei contenitori che davanti ad un problema che si presentava alla famiglia, riuscivano ad accogliere e a recepire le sue esigenze. Oggi una coppia si trova, nella realtà quotidiana, ad avere una diminuzione rispetto a prima delle relazioni sociali - si vedono meno gli amici -, a ridurre i confronti con il mondo esterno, e quindi diminuiscono le occasioni di condividere con altri i propri problemi; diminuisce sicuramente il tempo libero, e con esso viene anche meno il tempo per se, il tempo per la preghiera, tutti momenti che aiutano la coppia a crescere. Viene meno l’occasione di vivere fino in fondo l’intimità e la sessualità e, in certi casi fanno da corollario i problemi di carattere economico legati al lavoro. Ci sono poi degli argomenti, che secondo noi, per la breve esperienza avuta, sono ancora tabù all’interno della Chiesa. Penso ad esempio alla sterilità. Nell’Antico Testamento i riferimenti alla sterilità sono numerosissimi; noi, nonostante abbiamo vissuto in prima persona il problema, abbiamo avuto difficoltà a trovare dei commenti o degli spazi che affrontino la questione rispetto alla famiglia, e in particolare alla famiglia cristiana; tutti gli studi si concentrano su un angolo di lettura estremamente parziale per giungere ad affermare che a Dio è possibile ciò che all’uomo non è possibile. Oltre a ciò il nulla.

Per concludere sembra che da un lato ci sia uno Stato che fa chiacchiere o promesse vane, e che la Chiesa rischi tante volte di limitarsi a fare teologia. E la coppia rimane con tutti i suoi problemi del quotidiano, lì in mezzo, ad aspettare e a risolversi bene o male i suoi problemi da sola.

Ecco, per impostare una pastorale familiare che voglia davvero affrontare i problemi della famiglia, la Chiesa dovrebbe coinvolgersi, dovrebbe sporcarsi le mani ed essere al fianco della coppia nelle piccole grandi difficoltà quotidiane che spesso sono proprio le principali cause delle separazioni.

Possiamo riassumere tutto in uno slogan un po’ eccessivo, un po’ provocatorio: non è la coppia a dover riscoprire l’amore di Dio, ma è la Chiesa che deve imparare ad amare la coppia.  

  AL SOMMARIO

3. stimoli per una discussione

di Cecilia e Piergiorgio Dri[6]

Nostro compito ora è di delineare alcune piste che possano aiutarci a dialogare in Assemblea nel pomeriggio.

Va sottolineato innanzitutto, come è già stato detto in apertura, non solo come nota di merito, ma soprattutto perché è una nota di sostanza, come la Commissione sia stata notevolmente stimolata dal Vicariato di Marghera da un modo nuovo di dialogare, di cercare nella Pastorale strade nuove da percorrere; il che implica nuove modalità nell’incontrare le persone, nel porci i problemi, nel ripensare le nostre comunità. Abbiamo iniziato un percorso veramente interessante in questo senso e questo pomeriggio siamo chiamati ad incamminarci su questa strada che si è aperta.

Questa è certamente un’Assemblea che si pone in continuità con le precedenti e in modo particolare con quella dell’anno scorso, della quale spesso sono citati passaggi dell’intervento del Patriarca e della meditazione delle sorelle “Apostole della Vita Interiore”, come potete notare nei sussidi che trovate nella cartellina. Oggi siamo stimolati a far ricadere nella realtà le cose che ci siamo detti allora.

Prima di addentrarci a percorrere quella scheda un po’ corposa che trovate dentro il fascicolo, che fornisce una traccia per la riflessione in Assemblea, una sottolineatura di sostanza: abbiamo iniziato entrando nella preghiera che è incessante di tutta la Chiesa, abbiamo pregato con le Lodi, e grazie alla meditazione che ci ha offerto Daniele, ci siamo soffermati a contemplare Gesù e mi sembra opportuno leggere alcune righe dagli spunti offertici l’anno scorso dalle Apostole della Vita Interiore: 

Gesù si vuole trasfigurare anche davanti a noi, vuole farci vedere la realtà della nostra vita, della nostra storia d’amore di sposi, in una maniera trasfigurata, diversa, ancora più bella di quanto la viviamo e con la sua presenza davvero in mezzo a noi..............  Gesù si trasfigura mentre prega. Allora qui sta il segreto: è la preghiera quella realtà che ci permette di vedere le cose così come le vede Dio, di vederle belle come le vede Dio, anche quando magari a noi non sembrano così positive o ci sembrano scontate mentre sono doni del Signore...”

Daniele Garota inoltre diceva:“ ..... contemplare Gesù di Nazareth. Non è un prendere l’anima e volare chissà dove, bensì un cercare di vedere chi era quest’uomo per assomigliare a lui in qualche modo, un chiedersi ogni volta: che cosa avrebbe fatto Gesù in questa situazione in cui mi trovo? ....

Abbiamo contemplato Gesù perché vogliamo veramente cercare di penetrare e comprendere il più possibile la realtà che ci troviamo a vivere. L’anno scorso ce lo siamo detti varie volte: Gesù è il passaggio fondamentale, senza del quale non possiamo comprendere la verità dell’uomo.

Sempre nella scheda di riferimento, è presente un’altra sottolineatura che richiama quell’invocazione allo Spirito che abbiamo fatto assieme questa mattina iniziando le lodi.

Questa esigenza deve nascere dal più profondo di noi stessi perché dobbiamo veramente invocare lo Spirito affinché ci renda capaci di esercitare, come battezzati e come Chiesa nella sua totalità, il dono del discernimento Evangelico e comunitario; ciò è indispensabile per saper leggere la realtà in cui viviamo e soprattutto capire dove Dio ci parla in questo contesto.

Nel pomeriggio, quindi, non saremo solo chiamati a raccontarci le nostre realtà, ma dovremo cercare di progettare qualcosa, di elaborare le nostre esperienze, di gettare le basi perché nella nostra Chiesa diocesana, ma anche e soprattutto nelle nostre parrocchie la Pastorale possa fare un balzo in avanti, ripensando al ruolo che l’amore degli sposi ha nella vita dell’uomo e quindi nella vita delle nostre comunità.

Con questa tensione del cuore ci lasceremo stimolare ed interrogare da quattro piste che sono anche tra loro consequenziali.

La prima pista ci suggerisce:

-       La quasi totalità degli uomini e delle donne si innamorano, si amano, si sposano e costituiscono la famiglia.

Il patriarca nel suo intervento alla scorsa assemblea diceva: Il mistero nuziale è un’esperienza elementare dell’uomo, a qualunque latitudine:  uno può essere mussulmano, induista, animista, shintoista, può essere ateo, non battezzato, ma per il fatto stesso di essere uomo e di vivere in relazione con gli altri, anche se non è capace di spiegarselo, percepisce che quando dice amore (e il bisogno d’amore ce l’ha addosso come quello di respirare, come quello di mangiare) dice l’unità indissolubile della differenza sessuale che fa spazio all’altro e che tende a generare vita. Se noi riportiamo l’amore a questo livello elementare, siamo automaticamente dentro la realtà e la storia.....”

Durante il confronto con il vicariato di Marghera è emersa questo osservazione:  “ ... conosco tanti coniugi sposati in municipio che vivono dei valori veramente positivi, anche a loro Dio ha donato l’amore. Allora si deve dire che anche gli sposi non cristiani sono un dono per la società.”

Questo sta a dire che esiste una realtà creata che, prima ancora di essere redenta, nonostante il peccato, i limiti dell’uomo (alle volte enormi), comunica, fa conoscere realmente Dio stesso. Lui creando la coppia, le affida veramente se stesso, soffiando il suo Spirito.

Sono affermazioni che condividiamo, che ci sono naturali?  

Il mistero nuziale, cosi come lo ama definire il nostro Patriarca, questo mistero dell’amore che è insito nell’uomo, lo percepiamo davvero come dato universale?

Crediamo davvero che  trasmettere la Buona notizia, parlare di Dio alle donne e agli uomini del terzo millennio, non può esulare dal contemplare e far contemplare l’originario modo di presentarsi di Dio attraverso l’amore umano?

Che cosa può significare tutto questo, in ordine alla pastorale parrocchiale, a quello che viviamo nella nostra parrocchia?

Un secondo stimolo è questo:

-        Sposi e famiglia nel contesto sociale e culturale

Il Patriarca sottolineava: La situazione di transizione, di cambiamento anche violento che stanno attraversando le nostre società ..... è caratterizzata da grande confusione

“ si avvalora una concezione dell’amore inteso come un concatenarsi di tante esperienze, di relazioni tra uomo e donna o addirittura tra persone dello stesso sesso, con la possibilità di passare dall’eterosessualità alla omosessualità: e più sono le esperienze più si considera una persona «riuscita» ” vi è inoltre  “ una grandissima difficoltà all’accoglienza, all’ospitalità ..........  un’assoluta insipienza (non solo della persona - uomo e donna – ma anche della società) di fronte al pauroso calo demografico del nostro paese, che si esprime nel non fare spazio all’elemento più reale della speranza che sono i figli.”

A conferma di questa durezza della vita famigliare anche Daniele faceva notare come spesso i più grossi drammi e delitti spesso maturano all’interno del nucleo familiare.

Potremmo domandarci se ci siamo mai chiesti di dove venga questa drammatica confusione su elementi di fondo della nostra società?  Dove nasca la crisi della differenza sessuale, dell’amore inteso come dono di se, dell’amore vissuto nella fecondità a nell’apertura alla vita? Della bellezza dell’accoglienza dell’altro e della vita stessa.

Potrebbe essere anche un tentativo non solo di leggere in negativo ma di cercare di leggere i segni dei tempi perché in mezzo a tutte queste cose che ci sembrano non andare abbiamo il dovere di cogliere anche tutte le cose che invece sono belle, che magari sono nascoste nell’ordinarietà della nostra vita.

Proviamo a vedere in Assemblea come sono aperte le nostre comunità, è vero che la nostra Pastorale Parrocchiale è costruita cercando di cogliere il senso della vita che ci sta attorno, di analizzarla, di capirla perché è là dentro che siamo chiamati a vivere e ad annunciare Gesù Cristo?

Il terzo punto:

-       L’amore uomo-donna: è meraviglia della creazione; è dono di Dio per la persona, la famiglia, la comunità.

sempre a Marghera si diceva: Noi cristiani dovremmo essere sempre consapevoli che gli sposi e le famiglie portano con se dei “valori universali”: la relazione, il desiderio, il dialogo, l’accoglienza. C’è un progetto di Dio per l’uomo, che passa attraverso la coppia, che include anche altre realtà belle e buone, come l’alleanza e la fedeltà, la valorizzazione e la promozione della “persona umana”.

Siamo capaci di stupirci di fronte all’amore? all’amore che nasce tra due fidanzati ? all’amore maturo di due sposi anziani?  All’amore per sempre che degli sposi si sono promessi e che molte volte dura anche oltre la morte di uno dei due?

Percepiamo davvero che tutte queste esperienze sono davvero doni di Dio per tutti noi? e che sono davvero strumenti attraverso i quali Dio si fa presente e si comunica prima ancora che siano esperienze del sacramento del matrimonio?

Le nostre comunità parrocchiali sanno davvero godere di questi doni di Dio? li sanno valorizzare e tenere in giusto conto perché diventino davvero dono e patrimonio di tutti?

Ed infine:

-       All’amore uomo-donna Gesù dona novità: è redento, è un sacramento .

Tutta la realtà umana dell’amore compreso il matrimonio come fatto umano e naturale viene elevata da Gesù a Sacramento.

Percepiamo davvero che alla radice ultima del sacramento del matrimonio non sta il cuore umano dell’uomo e della donna, ma il cuore stesso di Dio?

Dio ha creato la coppia e il sacramento del Matrimonio perché nella nostra storia  umana ci fosse una sia immagine viva: è davvero un’affermazione che ci appartiene, che ci è familiare?

Dio ha creato la coppia e il sacramento del matrimonio perché ci fosse nella nostra storia una immagine viva e vera del Mistero di Gesù Cristo. Perché ci fosse un segno vero dell’amore con cui Dio Padre in Gesù Cristo ha amato ed ama la sua Chiesa e l’umanità intera.

Quali conseguenze e novità, anche a livello pastorale possono giungere dall’acquisire piena coscienza nelle nostre comunità di questo progetto di Dio sul matrimonio?

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assemblea in dialogo

con il patriarca

 

facciamo il punto

di Alessandro Giantin[7]

 

Mi è stato affidato il compito di rimettere in moto l’Assemblea che, questo pomeriggio, è chiamata a fare – noi, sposi, assieme al Patriarca - un tentativo di sintesi tra l’idea, il progetto, l’auspicio di dare una dimensione familiare alla parrocchia e la consapevolezza dell’esigenza di una dimensione ecclesiale nella nostra famiglia.

Questo è il doppio binario su cui corre la nostra riflessione, il cui punto di partenza è che gli sposi non sono – l’abbiamo detto più volte anche oggi – oggetto di pastorale, ma ne sono i responsabili.

Cercherò ora di riassumere in modo conciso quanto è emerso dalla densa mattinata, nella quale la parola più ricorrente è stata dialogo.

Effettivamente ci troviamo di fronte ad un dialogo ininterrotto tra due voci – il Creatore e il Creato - tra due persone che si attraggono, che si ricercano in un continuo “laboratorio” per lo sviluppo della fede - come lo ha chiamato Daniele recuperando un’espressione di Giovanni Paolo II.

La prima voce di questo dialogo, il Creatore, dice: «vedo che quello che ho fatto è una cosa molto buona» e pone questa cosa, la coppia, nel “Giardino” perché lo custodisca e lo coltivi (vedi titolo Assemblea). Ma al tempo stesso, mutuando una espressione di un documento del Concilio, si potrebbe dire che …. piacque a Dio farci una domanda … domanda che potrebbe suonare così: «ma voi sposi, chi dite che io sia?».

Questa domanda è stata il filo conduttore della meditazione di Daniele.

Questo dialogo, questo laboratorio prosegue su due piani paralleli: il piano dell’ordinario e il piano dello straordinario, ovvero il piano dell’umano e il piano del divino, oppure il piano della terra e il piano del cielo, il piano della vita e il piano della fede …. con il rischio di mettere quasi in antitesi  queste due cose, come se fossero due estremi che dialogano per vedere chi dei due ha ragione, ma –invece-  così non è.

Nella meditazione di Daniele, c’è appunto l’affermazione che lo straordinario e l’ordinario possono coesistere, se viene mantenuta questa dimensione di dialogo tra i 2 piani, tra i due (Dio e l’umanità).

Non è solo il Creatore che contempla la sua creatura, in tutte le dimensioni della quotidianità,  ma è anche la creatura - la coppia, nello specifico - che contempla il suo Creatore; quindi il problema è come realizzare questo dialogo, come mettersi in relazione senza dualismi, in quell’unità che la coppia,  per la sua specificità,  testimonia.

Da tutto ciò rimbalza una domanda: “e voi, sposi, chi dite che io sia?”.

Daniele ci ha proposto tre elementi, tre icone, che permettono di incrociare queste due dimensioni, questi due piani, quello di Dio e il nostro: la sessualità, i bambini e la tavola (cioè la carne unica, l’apertura alla vita e la convivialità).

La presentazione di don Silviano ha poi ricapitolato alcune linee di quell’opuscolo che al tempo stesso costituisce l’antefatto e la prosecuzione di questa Assemblea e nel quale troviamo le motivazioni e gli spunti per oggi.

Il contributo di Piergiorgio ha infine illustrato la traccia che dovrebbe servire allo sviluppo del dialogo di oggi, in considerazione del fatto che uno degli obiettivi prefissati dal Vicariato di Marghera era che in questa Assemblea si cominciasse a discutere con il nostro Vescovo per indicare le eventuali piste su cui fondare un progetto di pastorale nella parrocchia con la famiglia.

È risultato preziosissimo, allora, l’intervento di Claudia e Luca, quando hanno ricordato che i due pilastri su cui potremmo progettare la pastorale in parrocchia con la famiglia, sono

-       mettere al centro dell’esperienza  parrocchiale l’amore coniugale, e quindi parlando di sposi, prima ancora che di famiglia; 

-       porre particolare attenzione ai fidanzati, nei quali vediamo concretizzarsi il disegno di Dio. Il fatto che ci siano ancora dei giovani che si amano e chiedono di celebrare il matrimonio cristiano testimonia la presenza di Dio nella storia. 

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gli interventi

Paolo – S. Giovanni Evangelista - Mestre

Nella nostra parrocchia ci sono due Gruppi Sposi, uno di vecchia data e l’altro creato due anni fa da mia moglie e me, a partire dalla nostra esperienza all’interno della pastorale per i battesimi cui diamo il nostro apporto da dieci anni. Questo ci ha permesso di incontrare tutti gli sposi che chiedono il battesimo per i loro figli e tra questi abbiamo raccolto quelli che ci sono parsi più sensibili ad un discorso di fede.

Incontrando le coppie che chiedono di battezzare i figli, ci imbattiamo in realtà diverse, con situazioni matrimoniali particolari, a volte molto sofferte; tenendo conto che la nostra parrocchia si trova in un contesto ambientale non particolarmente disagiato, osserviamo che è in atto un processo di degrado che sta coinvolgendo tutta la società molto velocemente.

Come sposi cristiani non possiamo restare inattivi alla richiesta di aiuto che viene dalle coppie in crisi, ma è necessario che ci mettiamo alla loro ricerca, partendo dalle persone che ci sono più vicine, per poi arrivare ai più lontani.

Ma affinché le esperienze non restino isolate, è importante che queste possano essere scambiate, attraverso un organo di coordinamento a livello vicariale e diocesano, in modo molto più organico di quello che può offrire un incontro a scadenza annuale come l’Assemblea. 

Mi piacerebbe, quindi, ci fosse un’occasione di confronto, di dialogo per poi portare la nostra esperienza, in modo da far crescere e fermentare il seme della Parola, che ha il potere di liberare l’uomo e gli dà la possibilità di testimoniare nel concreto.

In forza dello spirito apostolico che fonda la Chiesa, la fede si trasmette tramite l’esempio e una predicazione diretta. Ecco allora che i Gruppi Sposi, con una certa formazione alle spalle, possono trasmettere la propria esperienza alle comunità in cui non sono presenti, senza avere la pretesa di insegnare, ma con la forza della testimonianza di una fede vissuta.

Claudio - S. Antonio – Marghera

Il mio intervento si rifà a quanto esposto da Claudia e Luca questa mattina, e che condivido.

Il punto di partenza di tutte le argomentazioni di oggi non può essere altro che l’amore uomo/donna ed, inoltre, che il solo fatto che due persone si amano è cosa molto buona. È pertanto necessario che l’amore uomo-donna sia visto in tutte le sue manifestazioni, sia nelle coppie di diritto che in quelle di fatto, nelle coppie cristiane e non, o con una cristianità abbandonata.

È necessario soprattutto individuare nell’amore il dono; intendere l’amore come valore che nasce sentimento e poi cresce raccogliendo e sintetizzando una moltitudine di altri valori, gli stessi che spesso sono condivisi da coppie non cristiane o che non hanno contratto matrimonio in chiesa, che non sono ancora sposate o che forse non si sposeranno mai.

Per una coppia cristiana, interrogarsi su quale sia l’origine del dono è l’occasione per affermare la grandezza di Dio e l’immenso amore che ha per noi, mentre per una coppia lontana può essere l’occasione per riscoprire la fede o quanto meno per condividere con altre coppie le stesse esperienze, creando così un esempio vero ed umile di comunità.

Laura – Chirignago

Come diceva Daniele stamattina, forse sarebbe tutto più semplice se ci mettessimo a dialogare  attorno ad una tavola, perché lì si riesce a parlare con più facilità, a cuore aperto, senza grossi problemi di emozioni come davanti ad un microfono. E proprio davanti ad una tavola, stavamo discutendo prima con mio marito su quanto è stato appena ripreso da Claudio. Cioè, che in qualsiasi forma si manifesti l’amore di coppia, esso riflette l’amore di Dio, è immagine di Dio, siano gli attori di questo amore cristiani o atei.

Allora ci chiedevamo: cosa ha di diverso il matrimonio cristiano? Come ci differenziamo? C’è qualche cosa che noi, sposi cristiani, abbiamo in più? Nella nostra parrocchia siamo impegnati nella preparazione dei fidanzati al matrimonio e dobbiamo far capire a questi giovani le differenze, se vale la pena di sposarsi in chiesa. Altrimenti c’è il rischio di cadere nel luogo comune che tanto, se ci si vuol bene, non serve sposarsi.

È importante capire come il sacramento rende concretamente diverso il matrimonio. Ci piace molto l’immagine suggerita dalle Nozze di Cana, quando, nella difficoltà di una situazione critica, Gesù interviene e la sua presenza cambia la vita degli sposi. Gesù cambia la vita della famiglia che lo accoglie, che lo prende come invitato a nozze. Questa immagine ci accompagna da 25 anni.

Di un’altra cosa abbiamo discusso: in che maniera possiamo essere visibili come discepoli di Gesù e non solo come delle persone che si vogliono bene.

Infine ci ha colpito il discorso di Daniele sulla discrezione che il cristiano deve avere nell’esprimere la sua religiosità, in presenza di ospiti che non sono credenti. È un discorso che ci tocca: stiamo facendo un’esperienza analoga in famiglia, ma non credo Daniele intendesse che dobbiamo pregare quando non c’è nessuno e, viceversa, astenersi se c’è qualcuno.

Non vorrei però che “l’essere discreti” significasse rinnegare la fede per paura che l’altro se ne risenta o si trovi a disagio. Non vorrei fossimo sempre noi a dover essere attenti a non disturbare troppo gli altri, quando questi non si fanno problemi nei nostri confronti.

Jole – S. Giorgio - Chirignago

Desidererei segnalare l’esperienza del nostro gruppo di famiglie che da ventidue anni si ritrova per la catechesi. Abbiamo cominciato prendendo in mano il vangelo, con il parroco, riuniti proprio attorno alla tavola. Lo facciamo ancora, ogni tre-quattro settimane, quando l’occasione ci offre la scusa per riunirci. Attorno alla tavola si discute di tutto, del Vangelo, della famiglia.

Questo gruppo è ancora attivo, perché Chirignago è favoloso per i gruppi familiari.

Maria Giovanna e Luca – S. Maria Elisabetta – Lido

Percepire la piena consapevolezza di essere al centro di un progetto di Dio, vivere in pienezza il matrimonio come sacramento è senz’altro il risultato di un cammino che si snoda lungo tutta una vita; tuttavia ci sono dei momenti in cui sentiamo che non siamo noi due i protagonisti, ma è il Signore che ci chiama: prima ad incontrarci, a fare un progetto insieme, ad innamorarci, a sposarci, ad avere due bambine,  fra qualche settimana una terza.

Quando ci siamo accorti che queste cose non dipendono da noi, ma sono un dono, come penso per tutti voi, non abbiamo scoperto nulla di nuovo, ma effettivamente il Signore ci stupisce perché il suo progetto supera i nostri desideri, le nostre aspettative, le nostre capacità.

Forse quando ci siamo sposati, pensavamo ad un rapporto ideale in cui saremmo andati sempre d’accordo; in realtà poi ci siamo trovati di fronte a molti limiti, umani, spirituali, anche di fede. Ci siamo accorti, pur avendo sempre frequentato la chiesa e la parrocchia, di quanto fossimo lontani dall’avere veramente acquisito la fede e di quanto eravamo piccoli e immaturi.

E il progetto di Dio emerge proprio dal fatto che questi limiti anche gravi, tali da farci pensare che possano a volte distruggere l’amore, in realtà poi hanno un senso, poiché nonostante tutto, il disegno si realizza e supera i desideri. È ancora più bella la realtà, pur con i suoi difetti, di quello che tu immaginavi in teoria, a patto di saper riconoscere che il progetto è suo e non nostro.

Miriam – Ss. Giovanni e Paolo – Venezia

Questa mattina Daniele parlava dell’amore di coppia che porta due persone ad unirsi fino ad essere  una carne sola. Si lascia la famiglia di origine e se ne crea un’altra.

Questo è giusto, l’amore ci fa sentire un tutt’uno; sembra di vivere uno per l’altro. Credo però che si debba mantenere la propria individualità, le proprie convinzioni, altrimenti, se viene a mancare la considerazione di se stessi, si giunge a non accettare più l’altro, i suoi difetti cominciano a pesare, non si ha più pazienza, subentra la noia.

Se, viceversa, ognuno mantiene la propria libertà e personalità credo possa sopportare ed affrontare tutto e decidere di fare, per amore, cose anche se non pienamente condivise. Questa libertà ci aiuta a mantenere sacramento il nostro matrimonio, a renderlo vivo e duraturo.

Inoltre condivido molto l’idea di intendere la famiglia come chiesa. Nella chiesa c’è l’immagine di una famiglia che si identifica in una comunità che si riunisce col sacerdote attorno alla mensa di Cristo, dove si parla di tutto, dove si celebrano matrimoni, si gioisce per un battesimo e si piange per la tristezza della morte. Così è nelle nostre famiglie e quando, tanti anni fa, ho sentito per la prima volta parlare di famiglia “piccola Chiesa domestica”, ho pensato che era un titolo molto appropriato.

Grazia – Ss. Gervasio e Protasio – Carpenedo

Questa è una testimonianza del lavoro che viene fatto all’interno della nostra parrocchia come gruppi sposi.

Con umiltà e nello spirito di condivisione proprio di questa giornata, vorremmo dar conto dell’esperienza che da 7 – 8 anni si va facendo nella nostra parrocchia.

Grazie all’iniziativa ed alla caparbia convinzione del cappellano, è nata un’esperienza di gruppi – sposi e gruppi – fidanzati che ora conta quasi un centinaio di coppie.

Gli obiettivi di questi gruppi sono:

1.    riscoprire l’annuncio ricco e gioioso sul matrimonio cristiano, la presenza di Cristo fra e con gli sposi, il valore e  le conseguenze di queste scoperte.

2.    creare uno spazio d’incontro per le coppie e rispondere alle esigenze di spiritualità ed impegno di chi si sentiva un po’ “appannato” da famiglia, figli, lavoro, le mille incombenze del quotidiano …

3.    arrivare a capire che la nostra chiamata di sposi, il nostro “vangelo” si giocano in primo luogo  proprio nel nostro matrimonio, in famiglia, con i figli, con i nostri anziani, nell’ambiente di lavoro. La vita matrimoniale non è d’impedimento alla vera fede, al vero impegno; fede e spiritualità non sono compartimenti stagni divisi e diversi dalla vita, ma gli sposi si devono fare annuncio di salvezza nella vita di tutti i giorni, nella vita che appartiene loro per vocazione.

4.    costruire una “rete” tra famiglie, tra sposi. Sono anni difficili anche a causa dei modelli di relazione uomo – donna e di famiglia che spesso vengono presentati nella nostra società: invece un cammino fatto insieme confrontandosi da adulti con la Parola di Dio e l’esperienza dei fratelli aiuta a tener vivo il nostro orizzonte sacramentale, a ridimensionare le difficoltà, a condividere e ad appoggiarsi reciprocamente.

5.    scoprire che la vocazione al matrimonio apre all’annuncio dell’amore di Dio nella società tutta  e nel mondo.  Leggere insieme i segni dei tempi, alla luce della Parola, e confrontarsi sulle scelte che nella società civile sono chieste a noi sposi e alle famiglie, sui valori che come lievito testimoniamo di fronte alle domande dell’uomo e ai drammi della storia.   

 

Il cammino all’inizio non è sempre stato facile, ma nel tempo si è concretizzato e delineato: l’annuncio dell’Evangelo sul matrimonio si è fatto convinzione, le convinzioni hanno messo radici ed hanno portato frutto anche nella comunità; ci si è impegnati, ad esempio, in un progetto i catechesi per i bambini nelle famiglie, nell’animare i corsi di preparazione al Matrimonio, nel seguire i gruppetti i neo-sposi che germinavano alla fine dei corsi per fidanzati  

 

Forse non siamo riusciti a raccontare in modo adeguato la nostra esperienza, ma volevamo testimoniare che sulla buona novella del matrimonio val la pena puntare: perché la famiglia prenda coscienza della sua dimensione ecclesiale  la parrocchia, con una fondamentale conversione di mentalità, preda coscienza della sua dimensione coniugale e familiare.

  AL SOMMARIO

l’intervento del patriarca - 1

S.E. Card. Angelo Scola[8]

 

La premessa di Alessandro Giantin

Ci sembra giunto il momento di dare la parola al Patriarca visto che c’è abbastanza materiale per articolare il dialogo. Gli interventi si sono polarizzati su due aspetti: da una parte il sacramento del matrimonio e l’amore coniugale con tutte le problematiche della coppia, dall’altra la parrocchia, una comunità che ha bisogno degli sposi. Come concludeva l’ultimo l’intervento, quindi, c’è da riflettere sulla dimensione ecclesiale della famiglia e sulla dimensione famigliare della parrocchia .

   

RICONOSCENZA E GIOIA

Anzitutto voglio esprimervi la mia riconoscenza e la mia letizia, la mia gioia per trovarvi qui anche quest’anno così numerosi, perché un’assemblea di questo genere non si improvvisa, essa deriva da una vita in atto, come la giornata di oggi sta testimoniando e come questi primi interventi hanno appena mostrato.

UN CONFRONTO FRA DUE ESPERIENZE

Sarebbe ovviamente pretenzioso da parte mia dare una risposta organica a quanto ho sentito, ma  mi preme puntualizzare alcune cose che mi stanno a cuore, e che sono proprio nel cuore di questa vita in atto.

Ascoltandovi, pensavo di intervenire in una maniera diversa da quella dello scorso anno, non per i contenuti, magari, ma per il punto di vista dal quale prendere le mosse in questo lavoro con voi oggi. È opportuno spiegare in che cosa consiste per me questa differenza, anche per facilitare la comprensione di quello che riuscirò a recuperare della vostra esperienza.

L’anno scorso ero proprio agli inizi della mia presenza a Venezia e perciò non avevo non dico una conoscenza – perché questa non ce l’ho neanche ora – ma ancor meno che un’idea di cosa fosse la vita ecclesiale nella nostra realtà. Quest’anno è un po’ diverso: mi sono fatto una mia idea, ho una valutazione. Vorrei allora collocare le mie osservazioni all’interno di questo cammino di cui mi sento sempre più parte, connotato dalla mia persona, con tutti i limiti e anche le doti, (perché qualcuna ce n’è) e dalla mia missione di patriarca.

L’anno scorso il mio è stato un intervento più “rapsodico”, come quando ad un organista viene lanciato un tema e lui lo prende e lo riprende, lo gira e lo rigira, secondo la sua capacità. Siccome il tema del matrimonio e della famiglia mi interessa da tanti decenni e ho lavorato molto attorno ad esso, l’anno scorso ho fatto una mia rapsodia.

Quest’anno invece voglio dire qualcosa a partire dalla mia persona, dalla mia vocazione cristiana e dalla mia missione di patriarca. Vorrei essere il più possibile capito, non partendo dal mio ruolo, bensì dalla mia vocazione e dalla mia missione che mettono in gioco il mio “io”, esigono la testimonianza,  mentre il ruolo può anche non implicare questo.

Intendo pertanto confrontarmi con la vostra esperienza e chiedervi di fare altrettanto.

UN’AFFERMAZIONE IMPORTANTE E PREZIOSA

Se ho avvertito bene ciò che stava dietro alla preoccupazione sottolineata da Claudio, il punto di partenza su cui mi pare abbiate riflettuto anche stamattina, è l’affermazione che l’amore è cosa  molto buona e, specificatamente, l’amore tra uomo e donna è l’espressione più immediata, più normale, naturale, dell’amore. In questo senso, lui arrivava a dire che comunque si manifesti, questo è già una cosa positiva.

Perché e a quali condizioni questa affermazione è molto importante e molto preziosa? 

Perché introduce la risposta alla domanda di Laura su che cosa differenzia l’amore tra uomo/donna dei cristiani, ma a condizione che si stia parlando dell’amore, non delle sue contraffazioni, non di ciò che si contrabbanda come amore: sui “fondamentali” (prendendo a prestito un termine dal vocabolario calcistico) dell’amore oggi esiste grande confusione.

L’amore tra l’uomo e la donna è ciò su cui la Chiesa si china quando parla agli sposi, è una delle due dimensioni decisive dell’esperienza elementare dell’uomo, dove per elementare si intende universale e necessaria, propria di tutti gli uomini. Per quanto siano fortissime le differenza tra gli uomini, di cultura, di razza, di civiltà, di storia, di ceto, c’è una esperienza elementare di base che sta al fondo di tutte le differenze e che crea l’unità di ciò che normalmente chiamiamo la natura dell’uomo.

Ebbene, l’amore tra l’uomo e la donna è una delle dimensioni fondamentali dell’esistenza e Gesù è venuto (come voi avete detto) per mostrarci la via a meglio vivere questa dimensione, a meglio raggiungere la verità e la vita (“Io sono la via, la verità e la vita”) e farci comprendere la pienezza, la verità di questa esperienza che ci troviamo addosso, in forza di questo dialogo tra il Creatore e la creatura che avete voluto mettere a tema oggi.

 

IL VOLTO MISSIONARIO DELLA PARROCCHIA

Quando la Comunità cristiana si china sugli sposi, quindi, non fa altro che prendersi cura dell’uomo e della donna, non fa una cosa in più, non va alla ricerca di strategie per conquistare all’organismo Chiesa gli sposi, ma interagisce con l’esperienza elementare dell’uomo.

Già questo supera di schianto una serie di elementi su cui, anche tra noi cristiani, tante volte c’è confusione. Se l’esperienza affettiva uomo/donna è una dimensione costitutiva dell’esperienza di ogni uomo, e se la Chiesa, su mandato di Gesù, si china su questa esperienza perché ama l’uomo, allora non ci sono più né lontani né vicini, perché ogni uomo ha a che fare, ogni giorno, con l’esperienza affettiva.

La missione del cristiano, l’evangelizzazione, la testimonianza in questo campo, non è un compito che va ad aggiungersi a qualche cosa di pre-costituito, ma è il contenuto della vita dei cristiani, che sono uomini caratterizzati dall’incontro con Gesù, e che vivono gli affetti come ogni altro uomo e ogni altra donna, solo che li vivono segnati da questo incontro.

Ora devo porre un primo Nota Bene, attraverso il quale rispondo a Laura e lo potete trovare bene illustrato nei punti 2 e 6 dell’istruzione del Patriarca uscita in occasione dell’inizio dell’anno pastorale, che è stata consegnata ai sacerdoti prima e ai “Gruppi di Ascolto” poi.

Lì si parla del volto missionario della parrocchia e qui recupero le bellissime esperienze di Jole, di Grazia e di Paolo, il quale esprime anche un’esigenza.

La prima missione, il primo compito della parrocchia è partire dall’esperienza elementare della gente.

Parrocchia significa letteralmente “case vicine” dal greco (paroikein, abitare vicino) e infatti, nella storia della Chiesa, dopo il IV secolo la parrocchia è stata la chiesa in mezzo alle case vicine. La parrocchia, a partire dal Battesimo, dalla Comunione e dalla Cresima, come hanno detto molto bene Myriam prima e anche Paolo poi, investe la dimensione naturale del rapporto uomo-donna e più estesamente la dimensione degli affetti, a partire dal centro affettivo stabile, che è Cristo Gesù, sul quale si fondano questi affetti.

Infatti il rapporto che S. Paolo formula nella lettera agli Efesini tra Cristo e Chiesa e marito e moglie significa che Gesù ha posto nella natura profonda del cristianesimo, l’allargamento della parentela della carne e del sangue alla parentela nello spirito, la possibilità di trasferire l’amore dal puro livello della corrispondenza, al livello della “charitas”, cioè della gratuità, del dono totale di sé. Per cui non ci si ferma all’inclinazione, alla corrispondenza, alla simpatia, ma ci si gioca tutto, sulla scia di colui che, pur essendo Dio, pur essendo l’amore perfetto, non ha ritenuto un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma si è fatto amore crocifisso per insegnarci l’amore.

LA TRASFIGURAZIONE DEGLI AFFETTI

Il volto missionario della parrocchia si rivela quindi nella trasfigurazione degli affetti, dell’amore tra l’uomo e la donna che si apre alla vita: papà, mamma e bambino, radicandoli nel centro affettivo più potente, che è Gesù Cristo.

In questo senso sono salvate tutte e due le esigenze, quella manifestata da Claudio e l’esigenza manifestata da Laura e cioè: dovunque nasce l’amore è già in atto il dono di Dio. L’incontro con Cristo Gesù, che la Comunità cristiana rende esplicito, è la possibilità di vivere in pienezza questo dono, perché, come è stato detto da Maria Giovanna di S.M. Elisabetta, se non ci fosse questo ancoraggio, la nostra capacità di amore lo esporrebbe troppo all’inconsistenza a causa della nostra fragilità; cioè lo tradirebbe, in modo particolare non sarebbe capace di mantenere all’amore tutta la sua promessa. E ciò è dimostrato dal fatto che il 50% delle famiglie è in difficoltà.

Ma qual è la promessa dell’amore, qual è quella cosa per cui l’amore vale la pena? Quando uno si innamora, si gioca con l’altro, avendo dentro una promessa grande: la promessa del per sempre. È quello che è affascinante: amare ed essere amati definitivamente nonostante la fragilità, i  limiti, la incapacità, il tradimento. Ed è lì, è su questo per sempre che io constato che con le mie sole forze non ce la faccio.

Il sacramento è il luogo in cui la promessa del per sempre diventa una via percorribile, nella Chiesa, che neppure il tradimento riesce ad infrangere, se io mi dispongo al perdono.

Dietro questa realtà si collocano tutti i discorsi relativi alle esigenze di un coordinamento, alla  valorizzazione di tutta la vostra azione nei gruppi famigliari nelle parrocchie, del passaggio dalla pastorale della famiglia come oggetto agli sposi come soggetto, perché se questo è il primo compito della parrocchia – come ho detto a tutti i sacerdoti – chi è più adeguato degli sposi ad essere soggetto di accompagnamento di trasfigurazione degli affetti? Nessuno!

È necessario quindi che ci aiutiamo, e va in questo senso il prezioso contributo che è uscito dalla prima messe di questi interventi che voi avete fatto, ed è in questo senso che parlo a partire dalla  mia  vocazione, dalla mia missione di Patriarca.

PARTIRE DAGLI SPOSI COME SOGGETTO DI PASTORALE

Come voi testimoniate, abbiamo fatto dei passi eccellenti con la pastorale famigliare nel nostro patriarcato, ora ne dobbiamo fare un altro: dobbiamo aiutare tutti i sacerdoti, tutti i responsabili, di avere il coraggio di partire dagli sposi come soggetto, perché la parrocchia deve modularsi molto di più a partire da questa prima elementare dimensione dell’esperienza umana: nel compito, nella  missione di trasfigurare gli affetti.

Laddove c’è l’amore, bisogna testimoniare come vivere di Cristo. Nel modo stesso di vivere l’amore coniugale nella famiglia fedele e stabile, si compie la promessa contenuta nell’amore, cioè si realizza il “per sempre”, si apre alla vita e la genera, edifica la Chiesa, costruisce la Società. Tutto questo comporta una serie di implicazioni.

Carpenedo ha parlato del catechismo dei bambini e ciò mette in campo una categoria estremamente importante, i bambini, appunto. Ma chi si occupa dei bambini dal giorno del Battesimo fino a quando entrano in una Scuola Materna? Chi si occupa di questa trasfigurazione degli affetti dei bambini ancorando a Cristo il loro amore, la prima elementare esperienza di amore, col papà, la mamma e i fratelli? Quanti sono i bambini che entrano nella scuola materna avendo già sentito parlare di Gesù, ammesso che abbiano la fortuna di entrare in una scuola materna che non disdegna il riferimento cristiano? Eppure sappiamo oggi dalle scienze umane più avvedute quanto sia decisiva l’età tra gli zero e i tre anni. Si dice che tra gli zero e i sei anni si struttura il 60% dell’IO che uno si porta con sé fino a quando campa, anche se campa fino a 102 anni.

Questo, per esempio, è un campo sterminato di missione che ci vede sostanzialmente assenti, perché prima ce lo garantiva la famiglia, la quale svolgeva questo compito quasi spontaneamente; ma oggi, chi?

Uno dei più bei ricordi della mia vita è la mia mamma che, mettendoci a letto la sera, quando avevamo un anno e mezzo, due, ci prendeva la manina e faceva il segno della Croce.

Nella parrocchia c’è la nonna o un gruppo di donne avanti negli anni, anziane, non vecchie, che non saranno capaci di animare un “Gruppo di Ascolto”, ma che magari possono andare a visitare delle giovani famiglie dando una mano alla mamma badando un po’ al bambino, portando un minimo di sollievo, oltre a un piccolo segno per iniziarlo alla bellezza, al fascino di Gesù. Facciamo spazio alla  creatività.

Ecco allora, in questa prima serie di risposte e a partire dalla mia vocazione, dalla mia missione, in che senso ho inteso situare la vostra esperienza e la vostra grande vitalità dentro i suggerimenti di cammino che dobbiamo fare,.

Voi state attuando il primo e più determinante livello missionario della comunità cristiana di base, la parrocchia. Il primo, perché dalla configurazione dell’io assicurata e permanentemente rigenerata dagli affetti, dipende la capacità di edificazione, di costruzione del soggetto, che è la seconda dimensione costitutiva di ogni uomo che è a questo mondo, e questo è decisivo.

ASSUMERE LA “CASA” NELLA “DIMORA”

Con una espressione sintetica, nell’istruzione dell’inizio anno cui ho fatto già riferimento, ho detto che questo compito di trasfigurazione degli affetti, consiste nell’assumere la casa - le case vicine - nella dimora che è la parrocchia. La parrocchia è la dimora, è il luogo degli affetti pieni, oggettivati; è il luogo in cui lo stesso amore coniugale sacrosanto, è strappato al rischio del logoramento ed è collocato nell’ambito oggettivo che lo rigenera attraverso la struttura sacramentale, approfondita dalla parola di Dio, vissuta nella comunione, nell’elaborazione di un giudizio cristiano sulla vita, nella condivisione dei bisogni, nell’apertura alla dimensione universale della Chiesa.

Il passaggio dalla casa alla dimora lo dovete assicurare voi. Mi sembra che qui ci sia la risposta a dove sta la differenza tra il sacramento e l’amore naturale tra l’uomo e la donna; qui c’è anche il criterio che mi permette di chiamare in maniera vera amore ciò che lo è, e viceversa non chiamare così ciò che amore non è, al di là del fatto che anche nella forma più traviata di amore resta un’ultima aspirazione al bene.

Lo dice anche il grande Lewis, in quel libretto meraviglioso intitolato “I quattro amori”, che vi consiglio perché è spettacoloso oltre ad essere estremamente divertente; benché sia stato scritto settanta anni fa è di una attualità straordinaria. In esso Lewis afferma che persino in “venere”, che é la forma mercificata dell’amore, cioè la prostituzione, c’è una aspirazione al bene. Ovviamente questa affermazione non giustifica “venere”, non si può chiamare amore quella roba lì.

CIRCA L’«UNA CARO» E LA COPPIA

Un ultimo Nota Bene riguarda l’importantissima sottolineatura di Myriam circa l’”una caro”.

La “carne sola” sopprime l’altro? No di certo. L’altro mi resta altro persino in quel vertice dell’amore che è l’atto coniugale, per la sua totalità, se adeguatamente vissuto nella famiglia. Anche in quel momento l’altro mi resta altro anche contro ogni mito dell’intercambiabilità dei sessi o della concezione dell’unione sessuale come la produzione di una unità terza oltre l’uomo e la donna.

La verità dice che la «carne sola» è la comunione di due, ma che mai abolisce la differenza, che si manifesta anche a quel livello di conoscenza. Non per niente nell’Antico Testamento, il paradigma della conoscenza è appunto l’unione fisica tra il marito e la moglie.

Nell’«una caro» l’altro mi resta altro perché la differenza sessuale tiene il posto del terzo, che è il figlio, perché il senso della «carne sola» è l’apertura strutturale alle vita, è il figlio; la differenza è per ricordarvi che il senso di quell’unione non è l’artificiosa creazione di una unità che abolisca la differenza dei due, ma è l’apertura al terzo, è la fecondità dell’amore.

Questo si chiama mistero nuziale e di questo abbiamo parlato lo scorso anno.

L’importanza di questo dato demitizza l’esaltazione indebita del concetto di coppia che noi oggi stiamo facendo e che ci confonde, perché ad essere in crisi oggi non è la famiglia, ma la coppia, proprio la abbiamo mitizzata equivocando sul concetto della «carne sola».

Sentimentalmente, descriviamo la coppia come una realtà a sé stante mentre, risultando paradossale, vorrei dire che la coppia non esiste: esistono due persone in relazione d’amore, ma sempre due persone; lo sposo e la sposa sempre in relazione, in comunione o in tradimento di comunione.

Non si può mitizzare la coppia per una ragione ontologica: nell’«una caro» la comunione è totale, e tuttavia essa non abolisce la differenza, pensate alla Trinità. Già S. Tommaso diceva con chiarezza che la Trinità è il luogo dove si esprime la massima differenza possibile, e al contempo il più alto grado di comunione, cioè di unità, tant’è vero che i tre sono identicamente l’unico Dio.

Quindi la «carne sola» è un riflesso della Trinità, l’uomo-donna è un riflesso della Trinità, l’uomo/donna/figlio è riflesso della Trinità.

Il sacramento rende consapevoli, è un luogo in cui, conoscendo un poco la Trinità, ricevendo il dono dello Spirito Santo, attraverso la Confermazione e prima ancora nel Battesimo, partecipando del Corpo e del Sangue di Cristo nell’Eucaristia, si capisce meglio il valore della comunione e della differenza nell’amore coniugale.

La società di oggi è così confusa sulla differenza sessuale proprio perché non conosce più niente della Trinità, per cui non sa pensare la differenza. Ecco cosa aggiunge il sacramento del matrimonio, ecco cosa aggiunge alla casa la dimora della comunità cristiana. È una cosa affascinantissima.

La parrocchia deve accompagnare alla scoperta di questi fatti e l’iniziazione non può che essere  dentro a questa prospettiva, altrimenti diventa un noioso doposcuola. Quindi come avete già fatto lo sforzo per preparare questa bella assemblea, a partire dai documenti che ho visto, vi chiedo l’umiltà di situare l’azione nella prospettiva dei suggerimenti che vi ho dato, a partire dalla considerazione sul volto missionario della parrocchia..

Il vostro lavoro normale di sposi dovrebbe trovare nei sacerdoti una immediata e potente valorizzazione.

UN POST SCRIPTUM SUL LINGUAGGIO E LA SOSTANZA

Non dovete confondere mai un linguaggio che può risultare inedito o complesso, o anche a partire dalla deformazione professionale che uno ha addosso, con la sostanza.

Queste cose che ci siamo detti adesso sono la sostanza e sono sicuro che voi le avete, nella sostanza, capite bene. È impossibile, che non abbiano una eco nel vostro cuore. Non è importante sapere ripetere questi concetti con queste stesse parole, interessa viverle e voi le state vivendo, le vivete più di me: gli sposi siete voi.

Il percorso che avete fatto oggi, dalla verità dell’amore come bene in sé, come parte dell’esperienza di tutti gli uomini ci fa abbracciare immediatamente tutti, ci rende subito missionari fino alla pienezza dell’amore che nella dimora cristiana impariamo. è la bellezza dell’essere cristiani.

I grandi geni anche non cristiani l’hanno capito; il grande Shakespeare, nel “Romeo e Giulietta”, dice che l’amore non è amore se viene meno quando l’altro si allontana. È un’affermazione geniale che esprime perfettamente il concetto che la fedeltà, il “per sempre” fa parte della sostanza dell’amore.

Chi dice queste cose ai nostri ragazzi, di fronte alle prime difficoltà? La fragilità è un’altra questione, ma non si deve fare come la volpe e l’uva della favola per cui siccome non arrivi a prendere l’uva dici che è acerba. Il “per sempre” è l’uva matura, e se non ci arrivi, vediamo insieme.

Ecco che la dimora cristiana (la parrocchia N.d.R.) entra in gioco.

Quindi queste cose che ci diciamo non sono elucubrazioni intellettuali, sono giudizi sulla nostra vita, sono alla portata di tutti, indipendentemente dal modo e dalle parole con cui uno le dice. Questo è molto importante, perché altrimenti il discorso del facile e del difficile diventa una barriera che esclude.

 

AL SOMMARIO

 

IL DIALOGO CONTINUA  

 

Roberto – Catene

Volevo fare tre esempi in cui comunità parrocchiale e comunità familiare non sono in sintonia.

Primo. Uno sposo non potrebbe mai chiedere un consiglio alla moglie e poi fare comunque di testa sua, perché si deve decidere insieme. Nei Consigli parrocchiali, generalmente avviene invece che il sacerdote chiede un parere e poi…

Secondo. Nessun marito penso possa pretendere di avere con il coniuge dei rapporti intimi “a comando”, bensì deve trovare il momento adatto, deve accendere il desiderio. Quante volte invece anche noi che operiamo nella pastorale parrocchiale come sposi e genitori, imponiamo ai nostri figli un’adesione “obbligata” alle celebrazioni e alle attività formative, senza mettere avanti a tutto la legge dell’amore, senza cercare di accendere il desiderio; anche nella pastorale parrocchiale è necessario trovare il momento e i modi adatti per avvicinare i giovani e le coppie.

Infine un esempio che chiama in causa la spontaneità. Uno sposo non recita a memoria o legge su di un foglietto un complimento alla sposa come fosse un copione. Ebbene, nelle nostre celebrazioni c’è poco spazio alla spontaneità: tutto è scritto, dalla introduzione alla preghiera dei fedeli; qualche volta persino l’omelia. Tutto ciò rende fredda la nostra partecipazione alle messe.

Nadia e Giambattista – s. Pietro di Oriago

Ci viene spontaneo ringraziare tutti sia per la partecipazione che per gli interventi sempre così puntuali e per gioia che ci viene donata di non sentirsi soli nel vivere l’amore nella coppia.

In vista dell’Assemblea e alla luce del materiale di sussidio che ci arrivava, ci siamo chiesti quanto erano importanti per noi e per la nostra famiglia le implicazioni suggerite dal tema e in che misura ci sentivamo in sintonia.

In particolare riflettevamo sullo spunto - ripreso stamattina anche da don Silvano - di apprezzare la realtà umana nella sua laicità, e ci chiedevamo se sappiamo fare silenzio e contemplare il mistero di un amore che nasce. Alla nostra età è data questa opportunità di contemplare il mistero degli innamoramenti dei figli, i loro primi passi con gli inevitabili ripensamenti e progressioni. Se Dio guarda l’amore in questo modo, come possiamo imparare da lui a guardare a questo particolare momento dei nostri figli dalla sua prospettiva? È nata questa parola, come risposta: l’accoglienza della persona, qualsiasi essa sia.

Un altro spunto di riflessione ce l’ha dato il Patriarca adesso per cui non abbiamo ancora avuto il tempo di parlarne, ma questa “trasfigurazione degli affetti” è un punto che vedo ancora lontano, forse neanche tanto possibile, perché quando si arriva all’accoglienza, significa aver accolto anche le famiglie di origine, con modi diversi di vivere sicuramente non uguali ai nostri. Dalle prime impressioni dubitiamo che cercheranno di frequentare i corsi per fidanzati, però il loro amore ha delle espressioni che sono identiche a quelle su cui si è fondata la nostra vita di coppia: vogliono metter su casa, avere dei figli. 

Ci resta allora questo doppio interrogativo: come vedere con gli occhi di Dio il mistero di questo amore che nasce, e come poi trasfigurarlo, trasformarlo, dargli un aiuto.

Rita – S. Nicolò dei Mendicoli - Venezia

Nella scuola cattolica di mia figlia abbiamo fatto un piccolo gruppo. Una mattina alla settimana ci siamo trovate con il parroco ed abbiamo letto il libro del Patriarca “Uomo/donna, il caso serio dell’amore”.

Un punto ci ha lasciato perplesse: lei afferma che il modo di possedere con un certo distacco interiore (la tradizione della Chiesa lo ha sempre chiamato verginità) è un di più e conclude dicendo che quanto più sarà presente e affermato nella cristianità il carisma della vita verginale, tanto più il matrimonio sarà chiamato alla sua vera natura. È pur vero che molti di noi fanno l’esperienza pratica che la presenza delle suore è una ricchezza, una testimonianza ed un aiuto grandissimo per le famiglie, ma non credo ciò sia sufficiente.

Un’osservazione e una domanda: prima di venire qui, mio suocero ha obiettato sul fatto che cercassi delle risposte su come vivere il sacramento deel matrimonio da uno che non è sposato come lei; e vorrei capire (non in maniera banale) cosa significa avere quel “distacco interiore” in una famiglia in cui apparentemente la vicinanza è fondamentale. Come può lei, che non vive una vicinanza di questo tipo, farci da maestro?

Ferruccio – S. Maria della Pace

Chiedo scusa se non sono capace di mettere i puntini sulle “i” perché purtroppo le scuole che ho fatto sono quelle che sono. Vorrei ringraziare tutti quei signori che hanno parlato questa mattina, soprattutto Daniele perché mi ha dato due risposte che cercavo da molto tempo, sui figli e sulla sessualità.

Poi vorrei raccontare ai giovani sposi quanta gioia mi ha procurato entrare in un gruppo sposi. Quando mi è stato proposto, sinceramente ho detto sì col cuore chiuso perché ero diffidente; poi mi sono ricreduto: è stato un peccato non averlo scoperto prima! Ho ricevuto tanto amore, tante belle cose; ho avuto l’occasione di incontrare il Patriarca Marco, da lui ho ricevuto la Bibbia e conservo ancora nel cuore le sue parole. 

Ringrazio quella persona che mi ha dato l’occasione di entrare nel gruppo sposi, dove mi sono unito a delle persone dalle quali ho imparato tanto, maggiormente ad amare e a pregare. Proveniendo da una famiglia cattolica, certamente pregavo anche prima ma ritenevo bastasse andare a messa e dire un’Ave Maria e un Padre Nostro. Ho compreso che si deve andare a messa con un certo criterio, ascoltare la Parola, accoglierla e metterla in pratica.

Ma non basta dire di aver imparato ad amare: una delle risposte che ho trovato nelle parole di Daniele è proprio che se si impara ad amare, si capisce di dare agli altri ciò che si riceve; così ci si riempie il cuore e si impara anche a soffrire.

Patrizia – San Nicolò di Mira

Ripensavo con mio marito ai discorsi fatti stamattina da Claudia e Luca e all’intervento del Patriarca, quando si riferivano al dialogo tra la Chiesa e le coppie di giovani sposi, e costatavamo con un po’ di tristezza che l’età media dei presenti è piuttosto alta. Le coppie molto giovani sono pochissime e ciò rispecchia la realtà che si riscontra nella partecipazione alla messa domenicale e alle iniziative proposte dalla parrocchia.

Io vivo ciò come un problema e sono continuamente alla ricerca del linguaggio da utilizzare per dialogare con queste coppie, per parlare loro di Dio e favorire la partecipazione alle proposte pastorali.

Il problema che affligge le giovani coppie nel momento in cui arrivano i figli è quello di coniugare la dimensione di genitori con l’esigenza di aprirsi al servizio nella comunità parrocchiale. Anche noi stiamo vivendo questa incompatibilità; presi dal nostro dovere di genitori, abbiamo dovuto abbandonare le attività alle quali partecipavamo con don Silvio: i gruppi di animazione, la formazione dei fidanzati, tutte realtà che ci sono venute a mancare e tuttora ci mancano, ma non riusciamo a reggere contemporaneamente questi due momenti nella nostra vita di coppia.

Aldo – S. Maria della Pace

Vorrei incentrare il mio intervento su un aspetto del rapporto tra genitori e figli. Questa mattina, con ricchezza di particolari, Daniele Garota ha riferito che suo figlio più piccolo addirittura avvia la preghiera prima di mangiare, rilevando l’importanza dell’abitudine al gesto. 

Queste cose sono state fatte anche dalle coppie che oggi hanno i capelli bianchi come me, ma accade che, nonostante questi insegnamenti, i figli educati alla fede e avviati ad inserirsi nella Chiesa, se ne sono invece allontanati. È vero che oggi il mondo è pieno di diversità e di tentazioni, ma è indubbio che ad un certo momento i genitori si trovano in difficoltà nei confronti dei figli e delle coppie giovani.

Penso che la Chiesa debba rivolgere a queste situazioni un’attenzione molto particolare e dare delle indicazioni che ci aiutino a favorire il recupero di questi ragazzi che domani saranno certamente fidanzati e sposi.

Paolo – I Frari - Venezia

Nell’intervento di Daniele è stato dato risalto alla sessualità, intesa come una delle realtà fondanti la vita della coppia assieme alla tavola e ai bambini.

Oggi per molti fidanzati il termine comincia a diventare obsoleto; molti ragazzi convivono già da tempo e costituiscono spesso il 30-40% delle coppie che partecipano agli itinerari di fede in preparazione al sacramento del matrimonio.

Parlare loro di sessualità è difficile perché spesso si è instaurato nel rapporto di coppia una dinamica che è lontana dalle indicazioni della Chiesa. 

È importante allora far capire a questi ragazzi che, anche se non se ne rendono conto, nel loro amore – l’amore cui faceva riferimento prima il Patriarca – c’è già Dio, sia nella dimensione spirituale che in quella che mette in campo la corporeità.

Fare chiarezza su queste prerogative qualche volta fa accendere una scintilla che fa giustizia dei pregiudizi con cui affrontano questi itinerari, a tal punto, talvolta, da cambiare atteggiamento verso la fede e la Chiesa alla quale si avvicinano fino a diventarne parte integrante.

La sessualità, quindi, è una tematica fondamentale per la crescita degli adolescenti, e con i fidanzati va affrontata con molta attenzione, partendo dall’aspetto antropologico per arrivare alle motivazioni teologiche e non viceversa come spesso ancora viene fatto.

Dobbiamo un po’ tutti imparare a capire cosa vuol dire amore, specialmente nella dinamica corporale, che spesso non conosciamo. Noi catechisti e animatori, per primi, ma anche certi presbiteri e certe coppie non più giovani che hanno il compito di educatori, dobbiamo comprendere che non possiamo evitare di affrontare questa tematica che è fondamentale per poter vivere con serenità il rapporto di coppia e comprendere i “no” della Chiesa a certi comportamenti.

Luca – Resurrezione – Marghera

Riprendo lo slogan provocatorio che avevo utilizzato questa mattina e che è stato citato poco fa in un intervento: non è la coppia che deve riscoprire l’amore di Dio, è la Chiesa che deve imparare ad amare la coppia.

Eminenza, nel suo intervento ha parlato di accoglienza reciproca, ha parlato di rispetto delle differenze e ha parlato di sperimentare l’amore mettendosi in gioco in prima persona. Credo che il 90%, se non il 100%, delle coppie qui presenti abbiano questa pienezza d’amore nel loro DNA perché lo sperimentano ogni giorno, in ogni singola esperienza quotidiana.

L’impressione che tante volte se ne ricava è, invece, che la Chiesa non abbia questa vocazione nel suo DNA. Tante volte, e alcuni interventi di coppie giovani proprio di questo pomeriggio lo hanno testimoniato, è forte l’impressione che ci sia uno scollamento tra la proposta che la Chiesa (compresa la nostra) fa alle coppie ed i problemi che ogni giorno la vita presenta loro. Non è un problema di linguaggio, il problema è proprio nei contenuti, è nella sostanza. Mentre sono convinto che la ricerca di vivere un amore pieno è un tentativo che ogni coppia fa, non sono altrettanto certo che la Chiesa (intesa come organismo e non come popolo di Dio N.d.R.[9] ) ne sia consapevole. Il problema è confrontarsi ogni giorno. La pastorale famigliare deve prendere in considerazione anche il semplice fatto che io non posso partecipare agli incontri perché ho dei figli. Persino un sacerdote ha una scansione rigida della sua giornata per far quadrare i vari impegni, così è comprensibile che una famiglia fatichi nella gestione, anche solo ordinaria, della vita di tutti i suoi componenti. Questa differenza esiste e rende difficile anche cogliere certi messaggi ed arrivare ad una pastorale che sia effettivamente fatta da tutta la comunità dei credenti.

Maurizio – S. Pietro Apostolo di Favaro

Premetto che sono dell’opinione che ognuno viva delle esperienze personali nella propria comunità, e quindi abbia delle risposte diverse in riferimento a quest’ultimo intervento. Personalmente non concordo sul fatto che ci sia tanta difficoltà a gestire l’ordinario, che del resto è un problema di tutti; l’ordinario complicato ce l’abbiamo quasi tutti, ma non per questo, se ci teniamo ad avere un ruolo nella pastorale della famiglia, non siamo in grado di mettere insieme le due dimensioni.

Vorrei brevemente accennare all’esperienza decennale del Gruppo Sposi della mia parrocchia. Siamo una ventina di coppie che stanno vivendo insieme una bella esperienza, cercando di attingere con semplicità alla Parola del Signore, sforzandoci di trovare momenti di aggregazione attraverso i “Campi Famiglie” nei quali riusciamo a coinvolgere anche i nostri figli.

E a proposito dei figli, esprimo la convinzione che la pastorale che si occupa della catechesi dei ragazzi debba passare necessariamente attraverso la famiglia.

Operando nel Gruppo Sposi si acquisisce col tempo la consapevolezza della grazia che viene donata con il sacramento del matrimonio; quando ci siamo sposati eravamo praticamente due bambini rispetto a questa presa di coscienza. Forse siamo stati fortunati ad avere scoperto quale dono ci era stato elargito, ma anche con tutte le nostre difficoltà, siamo riusciti, nella semplicità, ad arrivare alla sostanza.                       

Ma voglio sottolineare un’esigenza che è emersa anche in un intervento precedente: inviterei la Commissione a promuovere degli incontri interparrocchiali per trasmetterci non solo dei messaggi, ma anche delle esperienze, poiché di queste è fatto il nostro cammino di sposi. Potremmo mettere così in comune una strada da seguire che ha certamente come punto di riferimento la Parola del Signore, ma che cerca anche il modo di arrivare alle giovani coppie. Sembra che sia molto difficile coinvolgerle. Forse non sappiamo usare le parole giuste, non sappiamo cogliere i momenti più opportuni che ci vengono offerti: molto spesso si attende che la coppia si avvicini in occasione del catechismo del figlio. In realtà credo sia necessario trovare il modo di offrire alle coppie l’opportunità di entrare nella comunità parrocchiale prima che nasca il figlio e dovremmo porre questo come obiettivo dei Gruppi Sposi.

Daniele Garota risponde a Laura sulla “discrezione”

Credo di essere stato chiamato in causa da uno dei primi interventi, quando una signora[10] ha chiesto cosa intendessi per discrezione, riferendosi alle mie esperienze famigliari, all’imbarazzo che gli ospiti di mio figlio possono provare di fronte a certi nostri gesti e a certe parole; nell’intervento veniva anche chiesto come distinguere la discrezione dal provare vergogna ad esprimere concretamente con i gesti la nostra fede.

“Io non mi vergogno del Vangelo” è anche il titolo di un libro di Accattoli e dentro questa provocazione voglio aggiungere qualcosa a quanto ho detto stamattina.

Uno dei drammi della nostra società è quella di avere perso il significato delle parole, a furia di ripeterle e di sentirle ripetere. Una di queste parole è per esempio la parola amore: tutti la dicono, ma non significa più niente, si fa molta confusione su questa parola. Anche la parola “Dio” ormai può significare tutto e il contrario di tutto,

Perciò bisogna essere discreti nell’uso delle parole, così come nell’uso dei gesti, perché potremmo essere fraintesi. E potremmo anche operare una violenza indebita nei confronti dell’altro che invece va accolto e rispettato in quanto altro, in quanto diverso da noi.

Che cosa voglio intendere? Io credo che il rischio che abbiamo noi all’interno della Chiesa, che hanno i sacerdoti, che hanno quelli che sono impegnati in prima persona, sia quello di cadere nel bigottismo. Il bigotto è colui che fa diventare essenziale qualcosa di secondario a cui dà molta importanza; egli mette al primo posto la forma, i gesti, l’ostentazione. Il bigottismo è il fratello gemello dell’ipocrisia, e l’ipocrisia, ad un certo punto, può essere molto vicina a quell’indifferenza che è il vero nemico della fede, oggi.

Perché qui non ci sono i giovani? Perché si fa fatica ad avvicinare i giovani, perché i figli ad una certa età se ne vanno e non ci ascoltano più? Perché non sono interessati a noi e ciò perché siamo spesso ipocriti e siamo spesso bigotti. Davide, il mio figlio più grande, che ha 24 anni, è tornato a casa un giorno e a tavola abbiamo discusso sui genitori dell’amico Pietro che sono bigotti. Ha usato proprio questo termine: “Ho parlato con Pietro oggi e non ne può più dei suoi genitori bigotti”.

I veri nemici di Gesù non erano le prostitute, o i pubblicani, ma i bigotti, gli ipocriti. Non dobbiamo correre il rischio di assumere questo atteggiamento dentro le nostre famiglie e nella Comunità ecclesiale.

Su questo punto ha detto delle cose importantissime un teologo come Bonhofer, ma voglio piuttosto riportare due righe scritte da uno scrittore francese contemporaneo, Christian Bobin, il cui diario è stato pubblicato da poco. Lui, un credente, racconta così: “....L’unica volta che ho dubitato della parola di mio padre è stato quando, davanti al presepe di Natale che aveva costruito lui stesso, egli ha raccolto i suoi figli per parlare loro, con voce cerimoniosa, del “piccolo Gesù”. In queste parole c’era qualcosa di imbarazzante. La vita quotidiana di mio padre parlava a sufficienza di Dio senza che ci fosse bisogno di nominarlo. Esplicitare queste cose non fa altro che indebolirle. Ciò che in mio padre non era altro che un’adorabile goffaggine e che, mi sembra, si sia verificato una volta soltanto, è una vera infermità nella gente di Chiesa: ogni volta che – al di fuori della messa – sento un prete parlarmi di Dio con voce vellutata, ho l’impressione di trovarmi di fronte a qualcuno che prepara un brutto colpo e cerca di addormentarmi con modi zuccherosi”.

Quante volte abbiamo fatto esperienza di questo. Ricordo l’anno scorso, c’era una di quelle sorelle, le Apostole, credo Maria Grazia, che raccontò come ad un certo punto, non più bambina, cominciò a vergognarsi del padre che la benediceva e diceva delle preghiere sopra di lei.

Ecco cosa intendo per discrezione. Non possiamo parlare ai nostri figli della preghierina quando cominciano ad avere 17-18 anni, dobbiamo usare un altro linguaggio ed essere più rispettosi. Spesso, se i nostri figli se ne vanno è perché noi non sappiamo parlare il linguaggio dell’immediatezza, non sappiamo parlare di Dio e di Gesù senza nominarlo, ma questo credo sia il segreto della testimonianza.

  AL SOMMARIO

 

 

l’intervento del patriarca - 2

S.E. Card. Angelo Scola

 

IL GUSTO DI CAMMINARE INSIEME

Cerco di aggiungere qualche frammento, ben consapevole che di frammento si tratta, ma questo non mi preoccupa perché a tema è la vita della nostra comunità che è più potente e più ricca di ogni nostra riflessione e ha un suo ritmo, si snoda nel tempo.

Importante è che sia chiaro il soggetto che vive e il cammino che sta percorrendo, perché l’uomo cammina deciso quando sa bene dove andare. Allora, siccome nel nostro patriarcato questo soggetto ecclesiale c’è (la “pastorale” tra virgolette) ed  è tracciato un cammino ormai da tanti anni, quel che non si può dire oggi, lo si recupererà domani, quel che oggi non è chiaro, diventerà più chiaro domani.

Se non abbiamo l’ossessione di essere completi nei discorsi e abbiamo piuttosto il desiderio, la preoccupazione di volerci bene al punto da essere fedeli al “noi” ecclesiale, attraverso le mille forme mediante le quali esso ci raggiunge (la parrocchia, il gruppo degli sposi, l’associazione, il gruppo, il movimento), possiamo camminare sereni, perché quel che non ci è dato oggi, certamente ci sarà dato domani.

Questo per dire che è assolutamente normale lasciare un gesto assembleare come questo, con una certa fame e una certa sete di un di più. Anzi starei per dire che se non si finisce col desiderio che non tutto sia esaurito, se non avvertiamo ancora fame e sete che il grande avvenimento di Gesù accada, allora c’è il pericolo di cadere nella noia e nel “doverismo” che voi avete richiamato, a cui possiamo aggiungere anche il bigottismo e l’ipocrisia che avete identificato come malanni di ogni categoria umana e quindi anche ecclesiale.

Poiché siamo tutti poveri uomini, non dobbiamo poi scandalizzarci tanto. Mi metto un po’ nei panni dei miei preti, i quali, con il tipo di vita che fanno, se penso al ritmo che hanno e a quel che danno pur con i tanti difetti, devono essere aiutati a correggersi e tra loro mi ci metto anch’io; magari qualche volta siamo poco disponibili, come può succedere tra i gli uomini, forse succede anche a qualche sposato, ma non è agevole né facile il nostro compito oggi.

Quindi, per metterci tutti sereni, non abbiamo bisogno di una completezza formale, ma di rinnovare qui il gusto del camminare insieme, perché convocati dal Signore dentro un’esperienza che vale la pena, perché ogni giorno in più rivela la sua bellezza, nonostante le prove, le fatiche, le difficoltà, le tribolazioni, le sofferenze, anche le ingiustizie, ma che è piena anche di tante cose belle, come avete voi stessi documentato.

IL CRISTIANESIMO NON È UNA VERNICE

Ritorno al tema da cui sono partito prima, per riprendere la giusta preoccupazione di Luca, emersa in quasi tutti gli interventi che ho sentito oggi, compreso il richiamo finale di Daniele.

Il cristianesimo, l’avvenimento di Gesù Cristo, che uomini e donne seguono da 2000 anni senza soluzione di continuità, è al cuore dell’umano, è la pienezza dell’umano, è la verità dell’esperienza elementare dell’uomo. Non è un’aggiunta esteriore, non è un di più, non è una vernice che qualcuno vuole mettere sull’uomo. Gesù non è un’aggiunta all’uomo, è la pienezza dell’uomo.

Quando il Padre, in seno alla Trinità, decide di creare l’uomo, ha in mente come modello, come silhouette Gesù Cristo, morto e risorto. Ecco perché al n. 22 di “Gaudium et Spes” si dice che in Cristo trova la sua piena luce l’uomo e moltissime lettere del Nuovo Testamento dicono che la creazione è in Cristo, mentre in Apocalisse troviamo che Cristo è il principio e la fine, l’alfa e l’omega.

Da questo punto di vista, Adamo è dopo Cristo, la verità di Adamo è in Gesù Cristo che è il primo e l’ultimo. Il cristianesimo, quindi, non è un’aggiunta, ma l’esplicitarsi pieno dell’uomo, cosicché la Trinità è il nome proprio del mistero, non un corollario. È come se col dire “tu sei uomo”, divento più preciso quando dico «tu sei Paolo», perché per strada non trovo l’uomo, ma Paolo, Giovanni, Pina, Pietro e Francesco. La Trinità è il mistero svelato, Gesù Cristo è l’uomo pieno.

UN INCONTRO PREPOTENTE CON DIO AMORE

Questo voi lo avete espresso con precisione millimetrica dicendo che l’incontro più prepotente con Dio amore, con Colui che amandomi, è morto in croce e ha dato per noi la vita, avviene attraverso l’esperienza dell’amore tra l’uomo e la donna, cioè l’amore come realizzazione del desiderio di pienezza che si compie nel dono di me stesso, aperto alla vita.

Quindi è giustissima l’affermazione che nell’esperienza elementare del rapporto autentico tra l’uomo e la donna è già lì l’evento cristiano come tale, ma c’è una differenza tra il saperlo, l’esplicitarlo e il non esplicitarlo. La stessa differenza che c’è nel rivolgermi a te dicendo, uomo, o dicendo Paolo. Ecco perché vale la pena che sia esplicitato.

Ecco il senso della missione cristiana che non violenta la libertà di nessuno, perché si struttura sul modello di Gesù che è di per sé proposta di libertà. E ciò si vede dal fatto che si è fatto crocifiggere proprio dalla libertà dell’uomo: più proposta la libertà di così! Allora, se ti propongo di amarti in Cristo sacramento, è perché mi sta a cuore il tuo amore.

La prima conseguenza di ciò è che la primaria, la vera missione della parrocchia consiste nell’accompagnare il battezzato dal giorno in cui riceve il Battesimo fino alla morte, nel trasfigurare gli affetti, per cui la parrocchia non può non accompagnare gli sposi.

Il motivo della latitanza dei giovani sposi giovani risiede nel fatto che essi non vedono, come è stato detto, la con-venienza (nel senso profondo e giusto della parola) ad aderire alla proposta cristiana e questo ci interroga circa il modo con cui lo facciamo.

Per fare un esempio, la proposta cristiana è un puro doverismo, come è stato detto da Roberto di Catene? Evidentemente sì se non ne viene mostrata la bellezza, non attraverso i discorsi, ma soprattutto attraverso la testimonianza, uno stile di relazione, una comunione vissuta che si snoda a rete, che raggiunge l’uno e l’altro a seconda delle circostanze e delle situazioni; se non faccio capire ad un ragazzo e una ragazza che convivono, che aspettare il matrimonio è un di più e non un di meno; se mi limito a dire tu non devi; se non dai le ragioni, se non convinci.

Quindi né doverismi, né astrazioni, ma comunione: aiutiamoci. In questo senso non sottovaluterei nulla, neanche i consigli pastorali

Adesso non ne abbiamo tempo, ma una volta dovremo parlare di cosa vuol dire decidere insieme nella Chiesa, perché su questo circola molta confusione. Tutti credono che il problema si risolverebbe trasferendo i metodi della società civile alla Chiesa, ma non è così semplice perché la Chiesa non è una democrazia, è molto di più di una democrazia, è una comunione.

Quando vado a celebrare il sabato e la domenica nelle parrocchie per le cresime, ma anche in generale, una delle cose che più mi addolorano è constatare (con le eccezioni che sono sempre possibili) la relativa latitanza delle generazioni tra i 25 e i 40 anni. Non credo che queste persone siano pre-concette o contrarie alla vita cristiana; secondo me sono così affaticate dal ritmo dell’esistenza e così artificiosa la nostra testimonianza, la nostra proposta cristiana rispetto a loro, che non ce la fanno, non gli entra dentro; o non gli interessa e qui c’è un grande lavoro da fare.

DILATARE LE ESPERIENZE

Ma se la parrocchia lascia cadere tanti orpelli, tante cose un po’ inutili e si concentra sull’esperienza elementare di accompagnare il fedele a trasfigurare gli affetti e il lavoro, secondo me le strade si faranno più chiare. Però in questo dobbiamo aiutarci, non facciamo il gioco di darci colpe reciproche, perché qualche volta è anche giusto riprenderci con vigore, pungolarci, ma è ancora più giusto e più autenticamente umano e quindi cristiano, cercare le vie insieme.

Allora ci possono aiutare i gruppi familiari, la catechesi piccola dei fanciulli, la valorizzazione delle nostre scuole materne, l’utilizzo intelligente dei patronati, la centralità del gioco di equilibrio tra gli affetti e il lavoro che è il riposo, lo stare insieme a tavola. Si tratta di dilatare, ancora di più in semplicità, esperienze già fatte, senza inventare grandi cose.

Quindi, voglio dire a quanti hanno parlato nel primo giro di interventi, che ci sono proprio tra di voi oggi le premesse per venire incontro alle loro sacrosante esigenze, se voi avrete quella discrezione nel senso equilibrato del termine, che non è vergogna, non è nascondersi (le cose che ha detto Daniele in questo senso sono importanti), e l’umiltà di imparare, di prendere sul serio, di immedesimarci nelle proposte che vengono fatte.

Il passo che il Patriarcato sta facendo, va proprio in quella direzione.

La realtà che avevo in mente quando ho scritto quell’istruzione sulla parrocchia di cui ho già parlato prima, siete proprio voi, a partire dall’Assemblea dell’anno scorso. E voi siete i primi che devono prendere sul serio quelle cose, altrimenti come fa la parrocchia a modularsi nella direzione di trasfigurare gli affetti se non ci sono i soggetti che lo fanno?

IL POSSESSO NEL DISTACCO

Questo mi permette di entrare nella seconda parte degli interventi, su temi molto centrali. Dalla  domanda di Nadia: su come si fa a tentare di amare come ama Dio i nostri figli che scoprono l’amore, all’intervento di Ferruccio sul rapporto amore, preghiera, esperienza della sofferenza, dal discorso del dolore per i figli che anziché approfondire l’appartenenza alla Chiesa sembrano tentati di smarrirla alla domanda frontale di Rita sul tema del possesso nel distacco e che inoltre chiedeva a che titolo io che non sono sposato parlo di matrimonio.

Tentando di rispondere sinteticamente su tutti questi temi, senza la pretesa di dare una risposta esauriente, comincio da quest’ultima richiesta di chiarimento.

Possedere nel distacco è la migliore definizione che abbia mai incontrato dell’amore: l’amore è un possesso nel distacco. È talmente vera questa definizione che si impone da sé. Non c’è nessun  atto di amore, di qualunque natura, dall’amore tra l’uomo e la donna, all’amore verso il padre e la madre, dall’amore tra gli amici all’amore per i fratelli, dall’amore di Dio all’amore di Gesù Cristo, che di fatto non metta in gioco un possesso, nel distacco.

L’avete detto, in molti, prima, parlando delle fatiche, delle difficoltà all’interno della coppia, perché non esiste atto di libertà, il più semplice di questo mondo, che non sia una sintesi di spontaneità, di iniziativa, e di dipendenza e di obbedienza. Scegliere di venire oggi a dialogare con voi è un atto di libertà, la vostra scelta di venire qui oggi è un atto di libertà, spostare questo bicchiere è un atto di libertà.

Per porre questo atto di libertà, io devo compiere una sintesi tra due elementi:

-       prendere un’iniziativa, e ciò viene da me,

-       aderire alla situazione contingente.

Riprendendo l’esempio del bicchiere, l’espressione di una mia scelta è l’esito di un atto spontaneo, ma dopo, se il bicchiere ha questa forma, su questo tavolo, se è pieno o se è vuoto, impone, a sua volta, la sua legge, e se io non aderisco a questa sua configurazione, non riesco a porre l’atto, non conseguo l’atto che voglio porre.

Questo avviene per ogni atto di libertà, è sempre nell’uomo, perché l’uomo è contingente, limitato, una sintesi di spontaneità e di dipendenza, di iniziativa e di obbedienza. Ogni atto parte da me ma per compiersi deve uscire da me e far spazio all’altro. Questa è l’origine delle origini dell’amore, per questo l’amore  è l’essenza di tutto, perché senza far spazio all’altro non mi compio, non vivo.

Per amare mio padre o mia madre, per amare Dio, per amare il marito, il figlio, il prossimo, secondo la modalità più naturale di amore, o secondo la modalità più perfetta di abnegazione come quella di Gesù sulla Croce, devo possedere, ma nel momento in cui mi nuovo verso il possesso devo accettare il contraccolpo dell’altro, che mi resta tale, e accettare un elemento di distacco da me per fare spazio a lui.

Questo è l’amore: possesso nel distacco  

Gesù, nella sua vita terrena, nella sua morte, ha vissuto al vertice questo possesso nel distacco. Ha amato in profondità; pensate al vangelo di oggi, questo verbo secco usato in questo dialogo straordinario con quel tale che ferma Gesù mentre viaggia, lo blocca e gli dice: «Maestro, cosa devo fare?». Sappiamo cosa gli risponde Gesù, ed ad un certo punto l’evangelista annota “lo amò”. Cioè si spalancò a lui e gli fece la proposta più profonda e più bella, quella della sequela. Ma l’altro, troppo ricco, non ce la fa. Come noi siamo spesso troppo ricchi di noi stessi, quel tale fu incapace di possesso nel distacco. Di fronte alla prospettiva affascinante di seguire Gesù che pure aveva desiderato con tutto il suo cuore, quando Gesù lo invita al sacrificio del distacco, non ce la fa e questo lo sperimentiamo noi tutti i giorni.

OGNI TIPO DI AMORE È NUZIALE

La forma concreta con cui Gesù è vissuto si chiama verginità e la verginità, in questo senso, è un possesso nel distacco in senso letterale, ma questo tipo di possesso nel distacco è richiesto a tutti. In  questo senso, la verginità, in senso lato, non di chiamata ad uno stato di vita, ma la verginità nel senso profondo, è chiesta a tutti i cristiani. Forse che tu non passi tutta una vita per educarti a lasciare andare davanti a Dio tuo marito o tua moglie prima di te? Non è un distacco quello lì? Forse che tu non concepisci i figli e li tiri su per lasciarli andare al loro destino? Forse che tu, giovane moglie, appena sposata, quando vedi tuo marito uscire per quattro, cinque giorni perché il lavoro lo chiama fuori, non vivi dentro di te un distacco?

Non si può possedere se non nel distacco. Ed è per questo che Gesù trasfigura gli affetti: per educarci a possedere nel distacco. «Padre, se è possibile tirami via questo calice di dolore, però non la mia, ma la tua volontà». Dà la vita innocente sul palo terribile della croce, riservato ai delinquenti.

La verginità è quindi la vocazione piena all’amore, ma la verginità in senso lato, tant’è vero che ogni tipo di amore è per sua natura nuziale! Persino l’amore della Trinità, l’amore con cui si amano i Tre in Dio è nuziale. Ecco l’importanza della vostra vocazione ed ecco la circolarità dei due stati di vita nella Chiesa.

Nuziale vuol dire che in ogni tipo di amore sono in gioco inscindibilmente tre fattori: la differenza, il dono di sé e la fecondità. Nella Trinità c’è la differenza tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo; c’è il dono di sé espresso dal Padre che dà tutta la sua divinità al Figlio; questi gliela restituisce subito. Questo dono è così perfetto da essere non solo il nesso tra i due, ma da generare una persona, lo Spirito Santo è il frutto.

La stessa cosa avviene in una famiglia naturale, anche se in maniera infinitamente più indebolita: una donna ama un uomo nella differenza, che diventa visibile nella radice sessuale, si donano uno all’altro e questo dono si compie nel frutto. Che la scienza e la tecnica abbiano potuto separare questi tre elementi, non vuole dire che questi tre elementi non siano oggettivamente inseparabili. Ogni amore è nuziale, anche l’amore verginale: forse che noi, chiamati alla verginità, non realizziamo la nuzialità dell’amore? La realizziamo anche noi, ed è questa nuzialità dell’amore che ci abilita a parlare agli sposi così come è l’esperienza specifica della verginità che ci fa fare quell’esperienza profonda dell’amore come possesso nel distacco che anche voi fate. Nella Chiesa si compie così questa comunicazione profonda: ogni stato di vita comunica  all’altro.

Attraverso la ricchezza della vostra esperienza quotidiana nel ritmo di crescita degli affetti, della sponsalità, della paternità, della maternità, voi insegnate a chi è chiamato alla verginità in senso specifico cosa significa essere padri della comunità, cosa vuol dire essere fratelli in Cristo. Attraverso l’esperienza in senso letterale della verginità, che realizza l’amore come possesso nel distacco secondo la forma di Cristo, noi possiamo aiutare voi a capire come si deve vivere il possesso nel distacco anche nel matrimonio, come si deve domandare tutti i giorni la grazia di perdonare, come si deve tutti i giorni rinunziare a quella terribile forma di potere e di violenza che è la violenza degli affetti, che quasi sempre è una violenza mascherata, di forza, di seduzione, di raggiro, di non detto, di semi detto.

Ecco perché la familiarità della carne e del sangue è chiamata a trasfigurarsi nella familiarità nuova in Cristo; ecco perché la casa della famiglia ha necessità della dimora che è la parrocchia la quale  impara dai ritmi della famiglia. A sua volta la famiglia impara dai ritmi del sacramento della comunità, della parola di Dio. C’è qualcosa di più bello di questo?

Non abbiamo avuto il tempo di accennare alla dimensione del lavoro, dentro la quale si innesta e si incontra tutta la comunità, tutta la società nella sua complessità, nei suoi problemi, ma penso di avere già abusato del vostro tempo e mi devo fermare qui.

INVENTATE FORME DIVERSE DI COMUNICAZIONE

Ringraziando tutti quanti, soprattutto don Silvio con tutta la Commissione e quanti anche quest’anno hanno organizzato questa giornata preziosissima, voglio dirvi ancora questo.

Inventate tutte le forme che volete, con realismo, perché uno dei difetti di fondo, questo è vero, è che spesso ci può essere veramente un errore di prospettiva di noi sacerdoti, che, senza rendercene conto, moduliamo la proposta concreta di vita cristiana sull’età giovanile, cosa che non si può fare per gli sposati. Sbagliamo in questo, quindi aiutiamoci.

Inventate delle forme diverse di comunicazione tra vicariati, tra parrocchie. Sarebbe bello comunicare le esperienze che sono già in atto in maniera viva e vitale, però piuttosto di niente facciamolo per iscritto. Se in una parrocchia ci sono dieci gruppi, piuttosto che non sapere niente, sarebbe bello che, magari tra un mese, ricevessimo una lettera o potessimo leggere su un bollettino su come vivono questi gruppi, non sarà bello come ascoltarli dal vivo, però è meglio che niente. Quindi scambiamoci tutte le esperienze, costruiamo cose nuove ma soprattutto camminate in questa direzione, con umiltà, con tenacia, anche con una certa baldanza nel senso bello e nobile della parola, sereni nella proposta che è sempre fatta alla libertà di un altro.

Noi proponiamo alla libertà e aperti ad accogliere tutti: come avete detto, l’accoglienza è sostanziale nella vita di famiglia. Del resto una nuova parentela nasce dall’accoglienza, come sotto la Croce di Gesù, quando dice alla Madonna «Ecco tuo figlio» e a Giovanni «Ecco tua madre».

La cosa interessante è che lì ce il principio dell’accoglienza perché l’evangelista annota: “il discepolo la prese in casa sua”. L’accoglienza è sostanziale.

TESTIMONIARE LA BELLEZZA DELLA VERITÀ

Un’ultima cosa parola voglio aggiungere sulla situazione di ferita che vivono le famiglie, le coppie, le fatiche dei nostri figli, le convivenze anticipate che fanno soffrire molto perché sono un di meno, ma un di meno per loro.

Il problema non è scandalizzarsi di questo, non è far discorsi moralistici ma è testimoniare la bellezza della verità in questo. Noi abbiamo una sola carta, convincere, e per convincere c’è un solo nodo: esporsi, testimoniare. Perché questo papa è una quercia? Perché è un testimone, perché si vede che è un uomo riuscito. Quindi, se gli sposi sono riusciti i figli cambieranno e chi è ferito accoglierà con gioia la medicina. Ci vuole solo l’umiltà di imparare, non pensare che la verità la produco io con il mio ragionamento; se l’atto della libertà non è compiuto, se non è una sintesi di spontaneità e di obbedienza, non si cresce. Del resto, cosa facciamo con i nostri bambini? Perché i bambini sono splendidi, perché dobbiamo diventare come bambini? Perché sono innocenti e l’innocenza è la sintesi tra lo stupore e la serietà, cosa di cui noi adulti non siamo più capaci.. Noi, per esser seri diventiamo noiosi e per stupirci non siamo capaci di dovere.

Noi siamo i primi ad opporre il volere al dovere, ad opporre il desiderio al compito e poi ci meravigliamo se i nostri figlioli dividono le due cose: si dice che un dovere non realizza il desiderio e che il compito va contro il volere. Ma non è vero.

Quindi, coraggio e buon cammino.

AL SOMMARIO  

ALL'ELENCO DELLE ULTIME ASSEMBLEE



[1] Responsabile Diocesano della Pastorale degli Sposi e della Famiglia

[2] Coppia moderatrice, membri della Commissione Diocesana della Pastorale degli Sposi e della Famiglia.

[3] La meditazione di Daniele Garota è stata riveduta e corretta dall’autore

[4] Vicario Episcopale per l’Evangelizzazione

[5] Coppia della Parrocchia della Risurrezione del Vicariato di Marghera

[6] Coppia della Commissione Diocesana della Pastorale degli Sposi e della Famiglia

[7] Con la moglie Daniela, coppia coordinatrice della Commissione. L’intervento è stato riveduto e   corretto dall’autore

[8] Gli interventi del Patriarca sono stati riveduti e corretti dall’autore.

[9] A questo punto il Patriarca ha obiettato su chi Luca intendesse come Chiesa, aggiungendo che era importante intendersi su un aspetto fondamentale, e cioè che Luca si sentisse comunque parte della Chiesa.  

[10] Laura di Chirignago

[11] K. Wojtyla , Spazio interiore in Pellegrinaggio ai luoghi santi, in Id ., Tutte le opere letterarie, Bompiani, Milano 2001, 189.

[12] «La Chiesa stessa è un movimento e soprattutto è un mistero, il mistero dell’eterno amore del Padre, del Suo cuore paterno dal quale prendono inizio la missione del Figlio e la missione dello Spirito Santo. La Chiesa nata da questa missione si trova in ‘statu missionis’, essa è un movimento e penetra nei cuori e nelle coscienze», Giovanni Paolo II, La Messa per i partecipanti al Convegno Movimenti nella Chiesa, in Id ., Insegnamenti IV/2 (1981) 305.

[13] C. Ruini , Prolusione al Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, 22 settembre 2003, n. 4.

[14] cfr “Il volto missionario della parrocchia”

[15] H. U., von Balthasar Gloria I, Milano 1975, 18-19

ALL'ELENCO DELLE ULTIME ASSEMBLEE