Card. Joseph Ratzinger

L’Ecclesiologia del Vaticano II

 

Relazione al Convegno Pastorale

della Diocesi di Aversa,

15 settembre 2001

 

In: L’OSSERVATORE ROMANO 17-18 Settembre 2001

 

Sommario:

                                      & Introduzione

                   

                    &  I – La Chiesa come Corpo di Cristo

          & 1-L’immagine del Corpo Mistico

          & 2-Ecclesiologia Eucaristica

 

                    &  II – Chiesa come popolo di Dio

 

                    &  III – L’Ecclesiologia di comunione

              

By P.S. Pat2001

 

 

 

 

 

 

 

Introduzione

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Subito dopo la prima guerra mondiale Romano Guardini coniò una formula, che divenne poi rapidamente uno slogan nei cattolicesimo tedesco: «Un evento di incalcolabile portata è iniziato: la Chiesa si risveglia nelle anime». Il frutto di que­sto risveglio è stato il Concilio Vaticano II; esso ha espresso noi suoi documenti, e reso cosi patrimonio di tutta la Chiesa, ciò che in quei quattro decenni pieni di fermento e di speranze - dal 1920 al 1960 -  era maturato quanto a cono­scenza attraverso la fede. Per poter comprendere il Vaticano II è dunque necessario gettare uno sguardo a questo periodo e cercare di scoprire, almeno a grandi tratti, le linee e le tendenze, che sono confluite nel Concilio. Procederò pertanto presentando dapprima le idee che furono elaborate in quel periodo, per poi sviluppare gli elementi fonda­mentali della dottrina conciliare sulla Chiesa.

 

 

 

I- La Chiesa come Corpo di Cristo

 

 

1. L’immagine del Corpo Mistico

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La Chiesa si risveglia nelle anime”. Questa frase di Guardini era stata for­mulata molto consapevolmente, perché proprio in essa apparve che la Chiesa era finalmente riconosciuta e sperimen­tata come qualcosa di interiore, che non sta di fronte a noi come un’istituzione qualsiasi, ma che vive in noi stessi.

Se fino ad allora la Chiesa era stata vista soprattutto come struttura e orga­nizzazione, ora finalmente sorse la con­sapevolezza: noi stessi siamo la Chiesa; essa è più di un’organizzazione: essa e organismo dello Spirito Santo, qualco­sa dì vitale, che afferra noi tutti a parti­re dall’intimo. Questa nuova coscienza dì Chiesa trovò la sua espressione lingui­stica nel concetto di «corpo mistico di Cristo». In questa formula si esprime un’esperienza nuova e liberante di Chie­sa, che Guardini, alla fine della sua vita, proprio nell’anno della pubblicazione della costituzione conciliare sulla Chie­sa, descrisse ancora una volta così: la Chiesa “non è un’istituzione immaginata e costruita dagli uomini…ma una realtà vivente… Essa vive ancora attraverso il tempo; si sviluppa come tutte le realtà viventi; muta, eppure essa è, nella sua realtà più profonda, sempre la stessa e il suo nucleo più intimo è Cristo... Finché noi consideriamo la Chiesa solo come un’organizzazione; come un appara­to…; come un’associazione… noi non vi­viamo ancora verso di lei il giusto atteg­giamento. Invece essa è una realtà vi­vente, e il nostro rapporto verso di lei deve essere esso pure vita» (La Chiesa del Signore, Morcelliana, Brescia 1967, p. 160).

E difficile oggi comunicare l’entusia­sino, la gioia che vi fu allora in questa presa di coscienza. Nell’epoca del pen­siero liberale, fino alla prima guerra mondiale, la Chiesa cattolica era stata vista come un apparato fossilizzato, che si contrapponeva tenacemente alle con­quiste dell’epoca moderna. Nella teolo­gia la questione del Primato era stata posta talmente in primo piano, da far apparire la Chiesa essenzialmente come una istituzione centralisticamente articolata, che uno difendeva tenacemente, ma di fronte a cui tuttavia ci si poneva in qualche modo solo dall’esterno. Ora diveniva di nuovo chiaro che la Chiesa è qualcosa di più, che noi tutti la portia­mo avanti nella fede in modo vitale, così come essa porta noi. Era divenuto chia­ro che essa vive una crescita organica attraverso i secoli, che continua anche oggi. Era divenuto chiaro che attraverso di essa rimane attuale il mistero dell’in­carnazione: Cristo cammina ancora at­traverso i tempi. Sicché, se noi ci chie­diamo quali elementi restano acquisiti da questo primo punto di partenza e quali siano rifluiti nel Vaticano II, pos­siamo rispondere così: il primo aspetto è la definizione cristologica del concetto di Chiesa. J.A. Mohler, il grande rinno­vatore della teologia cattolica dopo la desolazione dell’illuminismo, disse una volta: una certa erronea teologia potreb­be essere caricaturalmente sintetizzata in questa frase: «All’inizio Cristo ha fon­dato la gerarchia e con ciò ha provvedu­to a sufficienza per la Chiesa fino alla fi­ne dei tempi». Ma a ciò va contrapposto che la Chiesa è Corpo mistico, cioè che Cristo è il suo fondamento non passato ma sempre nuovo; che Egli non è mai in essa solo il passato, ma sempre e so­prattutto il presente e il futuro. La Chie­sa è la presenza di Cristo: la nostra con­temporaneità con Lui e la Sua contem­poraneità con noi. Essa vive di questo: del fatto che Cristo è presente nei cuori; è di là che egli forma la Sua Chiesa. Perciò la prima parola della Chiesa è Cristo e non se stessa; essa è sana nella misura in cui tutta la sua attenzione e rivolta a Lui. Il Vaticano II ha collocato questa concezione in modo così grandio­so al vertice delle sue considerazioni, che il testo fondamentale sulla Chiesa comincia proprio con le parole: Lumen Gentium cum sit Chtistus: poiché Cri­sto è la luce del mondo, per questo esi­ste uno specchio della Sua gloria, la Chiesa, che trasmette il suo splendore. Se uno vuole comprendere rettamente il Vaticano II, deve sempre di nuovo co­minciare da questa frase iniziale...

In secondo luogo, a partire da questo punto di partenza, si deve stabilire l’a­spetto dell’interiorità e quello della natu­ra comunitaria della Chiesa. La Chiesa cresce dall’interno all’esterno e non vi­ceversa. Essa significa anzitutto la più intima comunione con Cristo; essa si forma nella vita della preghiera, nella vi­ta sacramentale, negli atteggiamenti fon­damentali della fede, della speranza e dell’amore. Così, se qualcuno chiede: cosa devo fare per diventare Chiesa e crescere come Chiesa, la risposta non può che essere: devi cercare prima di tutto di diventare uno che vive la fede, la speranza, la carità. Ciò che costruisce la Chiesa sono la preghiera e la comu­nione ai sacramenti, nei quali la pre­ghiera stessa della Chiesa ci viene incon­tro.

 Quest’estate ho incontrato un par­roco il quale mi ha raccontato che già da molti anni non era più sorta nessuna vocazione sacerdotale dalla sua comuni­tà. Che cosa avrebbe dovuto dunque fa­re? Le vocazioni uno non può fabbricar­le; solo il Signore può concederle. Tutta­via dovremmo noi restare con le mani in mano? Egli decise di recarsi ogni an­no, con un pellegrinaggio lungo e fatico­so, al santuario mariano di Altotting con questa intenzione di preghiera e di invi­tare tutti coloro che condividevano que­sta intenzione, al pellegrinaggio e alla preghiera comune. Anno dopo anno i partecipanti crebbero di numero e que­st’anno, finalmente, essi hanno potuto festeggiare, con immensa gioia di tutto il villaggio, la prima S. Messa, a memo­ria d’uomo, di un sacerdote del loro paese...

La Chiesa cresce dal di dentro: questo vuoi dirci l’espressione «Corpo di Cri­sto»; tuttavia ciò implica immediatamen­te anche questo altro elemento: Cristo si è costruito un Corpo; se voglio trovarlo e farlo mio io sono chiamato a farne parte come un umile membro ma in maniera completa, poiché io sono dive­nuto addirittura un suo membro, un suo organo in questo mondo e di conse­guenza per l’eternità. L’idea della teolo­gia liberale per cui Gesù sarebbe interes­sante, mentre la Chiesa sarebbe una mi­sera realtà, si differenzia completamente da questa presa di coscienza. Cristo si dà solo nel suo Corpo e mai in un mero ideale, Ciò vuol dire: si dà insieme con gli altri, nella ininterrotta comunione che attraversa i tempi, la quale è questo Suo Corpo. La Chiesa non è un’idea ma un Corpo, e lo scandalo del farsi carne, in cui inciamparono tanti con­temporanei di Gesù, continua nella scandalosità della Chiesa: tuttavia anche a questo proposito vale il detto: Beato chi non si scandalizza di me.

Questo carattere comunitario della Chiesa significa poi necessariamente il suo carattere di “noi”: essa non è da qualche parte, ma siamo noi stessi a co­stituirla. Certo, nessuno può dire “io so­no la Chiesa»; ognuno può e deve dire: noi siamo la Chiesa. E questo «noi» non è, a sua volta, un gruppo che si isola, ma che sì mantiene piuttosto all’interno della comunità intera di tutti i membri di Cristo, quelli viventi e quelli morti. Ed è così che un gruppo può davvero dire: noi siamo Chiesa. La Chiesa è qui, in questo “noi” aperto, che apre frontie­re (sociali e politiche, ma anche le fron­tiere tra cielo e terra). Noi siamo la Chiesa: da questo crebbe corresponsabi­lità, ma anche la possibilità di collabora­re in prima persona; da ciò risultò an­che, di conseguenza, un diritto alla criti­ca, la quale però deve sempre essere prima di tutto autocritica. La Chiesa in­fatti, ripetiamolo, non è “da qualche parte”, non è qualcun altro: noi stessi la costituiamo. Anche queste idee sono ma­turate sino a giungere direttamente nel Concilio; tutto ciò che fu detto circa la comune responsabilità dei laici e tutto ciò che fu istituito, quanto a forme giu­ridiche, per una sua sensata realizzazio­ne è derivato da qui.

Rientra infine in questo tema l’idea dello sviluppo e perciò della dinamica storica della Chiesa. Un corpo rimane identico a se stesso proprio per il fatto che nel processo della vita diventa conti­nuamente nuovo, Per il grande Cardina­le inglese Newman l’idea dello sviluppo fu il vero e proprio ponte della sua con­versione al cattolicesimo. Credo in effet­ti che l’idea di sviluppo faccia parte del numero di concetti fondamentali del Cattolicesimo, che sono ancora ben lun­gi dall’esser stati sufficientemente presi in considerazione; ancora una volta spetta al Vaticano II il merito di aver per la prima volta solennemente formu­lato quest’idea in un documento magi­steriale. Chi infatti si vuole aggrappare solo al valore letterale della Scrittura o alle forme della Chiesa dei Padri, costui esilia Cristo nello «ieri». La conseguenza è allora o una fede del tutto sterile, che non ha niente da dire all’oggi, oppure una potestà in proprio, che salta d’un colpo duemila anni di storia, gettandoli nel bidone di rifiuti delle cose sbagliate, e cerca ora di escogitare come il Cristia­nesimo dovrebbe propriamente apparire secondo la Scrittura o secondo Gesù. Ma ciò che ne salta fuori può essere solo un prodotto artificiale del nostro proprio fare, che non ha in sé consistenza alcuna. Una reale identità con l’origine c’è solo laddove allo stesso tempo c’è quella vivente continuità che sviluppò l’origine e, proprio così, la custodisce.

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2. Ecclesiologia eucaristica

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Ma adesso dobbiamo tornare di nuovo agli sviluppi del tempo pre-conciliare. La prima fase della riscoperta interiore della Chiesa si era raccolta, come abbia mo detto, attorno al concetto di Corpo Mistico di Cristo, che fu sviluppato a partire da san Paolo e che porta in primo piano le idee della presenza di Cristo e della dinamica propria di ciò che è vivente. Ricerche ulteriori condussero a nuova presa di coscienza, Soprattutto il grande teologo Francese Henri de Lubac, in un’opera grandiosa pieni di ampia erudizione, ha chiarito che i termine «corpus mysticum» originariamente contrassegna la SS. Eucaristia e che, per Paolo come per i Padri della Chiesa, l’idea della Chiesa come Corpo di Cristo è stata inseparabilmente collegata con l’idea dell’Eucaristia, in cui il Signore è presente corporalmente e dà a noi il suo corpo come cibo. Ebbe così origine un’ecclesiologia eucaristica.

Ora, che cosa si intende con questa parola: ecclesiologia eucaristica? Cerco molto in breve di accennare ad alcuni punti fondamentali. Il primo è che l’Ultima Cena di Gesù diventa riconoscibile come il vero e proprio atto di fondazione della Chiesa: Gesù dona ai suoi questa Liturgia della morte e della sua resurrezione e dona così ad essi la festa della vita. Egli ripete nell’ultima Cena il Patto del Sinai, o meglio: ciò che là era stato solo un presagio nel segno diventa ora completamente realtà: la comunione di sangue e di vita tra Dio e l’uomo. Di­cendo questo, è chiaro che l’Ultima Cena anticipa croce e resurrezione e, allo stesso tempo, necessariamente le pre­suppone, perché altrimenti tutto rimar­rebbe gesto vuoto. Per questo i Padri della Chiesa poterono dire, con una Im­magine molto bella, che la Chiesa è sca­turita dal fianco squarciato del Signore, da cui uscirono sangue e acqua. Quan­do io affermo che l’Ultima Cena è l’ini­zio della Chiesa, in realtà dico la stessa cosa, benché da un altro punto di vista. Anche questa formula infatti significa che l’Eucaristia lega degli uomini tra loro, e non soltanto fra di loro, ma con Cristo; e in tal modo li rende Chiesa. Allo stesso tempo è già data con questo anche la fondamentale costituzione della Chiesa: la Chiesa “vive in comunità euca­ristiche. La sua Messa è la sua costitu­zione, poiché essa stessa è, nella sua es­senza, Messa, servizio di Dio e perciò servizio agli uomini, servizio della tra­sformazione del mondo.

La Messa è la sua forma: questo signi­fica che in essa si attua un rapporto del tutto originale, e che non esiste in nes­sun altro posto, di molteplicità e unità, In ogni celebrazione dell’Eucaristia il Si­gnore è realmente presente, Egli è infat­ti risorto, e più non muore; dunque non lo si può neppure più dividere in parti. Egli si dà sempre intero e indiviso. Per  questo il Concilio dice: «La Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le comunità locali di fedeli conformi al diritto, le quali, nel Nuovo Testamento, vengono chiamate esse stesse chiese, nell’unione coi loro pastori. Esse sono infatti nel loro luogo, in Spirito Santo e con grande fiducia (cfr 1Tess 1, 5), il nuovo popolo convocato da Dio. In queste comunità, anche se spesso sono piccole e povere o vivono nella diaspo­ra è presente Cristo, attraverso la cui forza viene unificata la Chiesa una, san­ta, cattolica e apostolica» (LG 26). One­sto significa: dall’impostazione dell’ec­clesiologia eucaristica consegue quell’ec­clesiologia delle Chiese locali; che è tipi­ca del Vaticano II e che rappresenta il fondamento interiore, sacramentale, del­la dottrina della collegialità, di cui dob­biamo ancora parlare.

Prima però dobbiamo vedere ancor più precisamente la formulazione del Concilio, per comprendere il suo inse­gnamento in modo corretto. In questo punto, infatti, il Valicano II si incontra allo stesso tempo con sollecitazioni pro­venienti dalla teologia ortodossa e da quella protestante, che però integra in una più ampia concezione cattolica. L’i­dea dell’ecclesiologia eucaristica era sta­ta infatti espressa per la prima volta nel­la teologia ortodossa dei teologi russi dell’esilio e contrapposta al presunto centralismo romano: ogni comunità eu­caristica, fu detto, è già del tutto Chie­sa, poiché ha interamente Cristo. Di conseguenza l’unità esteriore con le al­tre comunità non è costitutiva per la Chiesa; perciò, si concluse, l’unità con Roma può non essere costitutiva per la Chiesa. Tale unità è bella, giacché rap­presenta la pienezza di Cristo verso l’e­sterno, ma non appartiene propriamente all’essenza della Chiesa, poiché alla tota­lità di Cristo non si può aggiungere nul­la. Dall’altro punto di partenza, la rappresentazione protestante della Chiesa tendeva nella stessa direzione. Lutero non poteva più riconoscere nella Chiesa universale lo Spirito di Cristo, anzi egli la vedeva addirittura come strumento dell’Anticristo. Anche le chiese di stato protestanti, che sorsero dalla Riforma, egli non le poteva considerare Chiesa: in senso vero e proprio erano solo necessari apparati sociologico-politici in vista di un determinato fine, posti sotto la guida delle potestà politiche, ma niente di più. La Chiesa si ritrasse per lui nella comunità: solo l’assemblea che ascolta la Parola di Dio in un determinato luogo è Chiesa. Perciò egli ha completamente sostituito il termine «Chiesa» col termine «Comunità» (Gemeinde): Chiesa divenne un concetto negativo.

Se ritorniamo ora al testo del Conci­lio, ci risultano evidenti alcune sfumatu­re. Esso infatti non dice semplicemente «La Chiesa è completamente presente in ogni comunità che celebra l’Eucaristia», ma formula invece: «La Chiesa è real­mente presente in tutte le comunità lo­cali di fedeli conformi al diritto, che in unione coi loro pastori.., si chiamano chiese». Due elementi sono qui impor­tanti: la comunità deve essere «confor­me al diritto» per essere Chiesa, ed essa è conforme al diritto “in unione coi pa­stori». Che significa ciò? Significa in pri­mo luogo: nessuno può farsi Chiesa da sé. Non può semplicemente un gruppo radunarsi, leggere il Nuovo Testamento e dire: Noi ora siamo Chiesa, poiché il Signore è là dove due o tre si riuniscono nel suo nome. Alla Chiesa appartiene es­senzialmente l’elemento del «ricevere», così come la fede deriva dall’ascolto e non è prodotto di proprie decisioni o riflessioni. La fede infatti è incontro con ciò che io non posso escogitare o produrre con i miei sforzi, ma che mi deve invece venire incontro. Questa struttura del ricevere, dell’incontrare, la chiamiamo «Sacramento». E appunto per que­sto rientra ancora nella forma fonda­mentale del Sacramento il fatto che esso viene ricevuto e che nessuno se lo può conferire da solo. Nessuno si può bat­tezzare da sé; nessuno può attribuirsi da sé l’ordinazione sacerdotale; nessuno può, da sé, assolversi dai propri peccati. Da questa struttura di incontro dipende anche il fatto che un pentimento perfetto, per sua stessa essenza­, non può restare interiore, ma urge verso la forma di incontro del Sacramento. Perciò non è semplicemente un’infrazione contro prescrizioni esteriori del diritto canonico se ci si porge da sé l’Eucaristia e la si prende da sé, ma è una ferita della più intima struttura del Sacramento. Il fatto che in quest’unico Sacramento il prete possa egli stesso somministrarsi il Sacro Dono rinvia al «mysterium tremendum» al quale è esposto nell’Eucaristia; agire «in persona Christi» e così, nello stesso tempo, rappresentarlo ed essere un uo­mo peccatore, che vive completamente dall’accogliere il Suo Dono.

La Chiesa non la si può fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla da dove essa è già, da dove essa è realmente presente: dalla comunità sacramentale del suo Corpo che attraversa la storia. Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa, che ci aiuta a comprendere questo difficile ter­mine «comunità conformi al diritto»: Cristo è dovunque intero. Questa è la prima importantissima cosa che il Con­cilio ha formulato, in unità coi Fratelli ortodossi. Ma egli è dovunque anche uno solo, e perciò io posso avere l’unico Signore solo nell’unità che egli stesso è, nell’unità con gli altri che sono anche essi il suo Corpo e che, nell’Eucaristia, lo devono sempre di nuovo diventare. Perciò l’unità reciproca delle comunità che celebrano l’Eucaristia non è una ag­giunta esteriore all’ecclesiologia eucari­stica, bensì la sua condizione interna: solo nell’unità c’è l’uno. Per questo il Concilio richiama la responsabilità pro­pria delle comunità, ma esclude ogni lo­ro autosufficienza. Esso porta avanti un’ecclesiologia per la quale l’esser cat­tolico, cioè la comunione dei credenti di tutti i luoghi e di tutti i tempi, non è un elemento esteriore di tipo organizzativo, ma grazia proveniente dall’interno e, al­lo stesso tempo, segno visibile della gra­zia del Signore, il quale solamente può dare unità superando frontiere così nu­merose.

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II- Chiesa come popolo di Dio

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Dopo il primo entusiasmo della sco­perta dell’idea di Corpo di Cristo, si giunse poco a poco ad approfondimenti e correzioni in una doppia direzione. La prima correzione l’abbiamo già vista: essa si trova soprattutto nei lavori di Henri de Lubac, che concretizza l’idea di Corpo di Cristo in direzione dell’ec­clesiologia eucaristica e l’apre in tal mo­do alle concrete questioni dell’ordina­mento giuridico della Chiesa e della re­ciproca ordinazione di Chiesa locale e Chiesa universale. L’altra forma di cor­rezione iniziò alla fine degli anni Trenta in Germania, dove diversi teologi critica­rono il fatto che con l’idea di Corpo Mi­stico rimaneva non chiarito il rapporto tra elemento visibile e invisibile, tra di­ritto e grazia, tra ordine e vita. Essi proposero perciò il concetto, fornito soprat­tutto dall’Antico Testamento, di «popolo di Dio» come la descrizione più ampia di Chiesa, che del resto si lascia anche più facilmente mediare con categorie so­ciologiche e giuridiche, mentre Corpo di Cristo rimarrebbe una “immagine” cer­tamente importante, ma che non sareb­be da sola sufficiente, proprio per la pretesa della teologia di esprimersi me­diante “concetti”.

Questa critica, all’inizio piuttosto su­perficiale, all’idea di Corpo di Cristo fu poi approfondita a partire da aspetti di­versi, dai quali si sviluppò il contenuto positivo, con cui il concetto di popolo di Dio è entrato nell’ecclesiologia concilia­re. Ci si chiese se l’immagine di Corpo mistico non fosse troppo ristretta come punto di partenza per definire le molte­plici forme di appartenenza alla Chiesa, che nell’intrico della storia umana ora­mai ci sono. L’immagine di corpo offre per il problema dell’appartenenza solo la forma di rappresentazione del «mem­bro»; membri o lo si è o non lo sì è, non ci sono mezzi termini. Ma - ci si chiese - non è forse un po’ troppo stretto proprio il punto di partenza dell’immagine, giacché ci sono nella realtà manifestamente dei gradi intermedi? Così ci si imbatté nel concetto di «popolo di Dio», che, sotto questo punto di vista, è assai più ampio e più mobile. La costi­tuzione ecclesiale lo ha assunto proprio con questo impiego, quando esso descri­ve il rapporto dei cristiani non cattolici verso la Chiesa cattolica col concetto di «collegamento» e quello dei non cristiani col termine «ordinazione», ove entrambe le volte ci si appoggia all’idea di popolo di Dio (nn. 15 e 16).

Così possiamo dire che il concetto di «popolo di Dio» è stato introdotto dal Concilio soprattutto come ponte ecumenico. Questo vale del resto anche sotto un’altra prospettiva. La riscoperta della Chiesa dopo la prima guerra mondiale era stata dapprima un fenomeno comune a cattolici e protestanti; anche il mo­vimento liturgico non si limitava in al­cun modo alla Chiesa cattolica, Ma pro­prio questa comunanza portò con se an­che una reciproca critica. L’idea di Cor­po di Cristo fu sviluppata nella Chiesa cattolica nel senso che la Chiesa venne indicata volentieri come il «Cristo che continua a vivere sulla terra», la Chiesa fu descritta come l’incarnazione del Fi­glio, che continua fino alla fine dei tem­pi. Questa idea provocò l’opposizione dei Protestanti, che videro in ciò un’in­sopportabile identificazione di sé con Cristo da parte della Chiesa, identifica­zione nella quale la Chiesa per così dire, secondo loro, adorava se stessa e si po­neva come infallibile. A poco a poco pe­rò anche pensatori cattolici trovarono, pur senza andare così in là, che con questa formula veniva attribuito ad ogni dire e operare ministeriale della Chiesa una definitività che faceva apparire ogni critica come un attacco a Cristo stesso e dimenticava semplicemente l’elemento umano, fin troppo umano nella Chiesa. Doveva, così si disse, di nuovo venir chiaramente evidenziata la differenza cristologica: la Chiesa non è identica con Cristo, ma gli sta di fronte, Essa è Chiesa di peccatori, che abbisogna sem­pre nuovamente di purificazione e di rinnovamento, sempre nuovamente deve diventare Chiesa. Così l’idea di riforma divenne un elemento decisivo del con­cetto di popolo di Dio, che dall’idea di Corpo di Cristo non si lasciava invece sviluppare così facilmente.

Tocchiamo qui un terzo aspetto, che giocò a favore dell’idea di popolo di Dio. L’esegeta evangelico Ernst Kase­mann, nel 1939, aveva dato alla sua mo­nografia sulla Lettera agli Ebrei il titolo 1l popolo di Dio pellegrinante. Questo titolo divenne, nell’ambiente dei dibattiti conciliari, addirittura uno slogan, poiché faceva risuonare qualcosa che, nel corso del dibattito circa la Costituzione sulla Chiesa, era divenuto sempre più chiara­mente conscio: la Chiesa non è ancora giunta alla sua meta. Essa ha la sua ve­ra e propria speranza ancora davanti a sé. Il momento «escatologico» del concetto di Chiesa diventò chiaro. Soprat­tutto si poté, in questa maniera, esprimere l’unità della storia della salvezza che comprende insieme Israele e la Chiesa, nella via del suo pellegrinaggio. Si poté così esprimere la storicità della Chiesa, che è in cammino e che sarà completamente se stessa solo allorché le strade del tempo saranno state percorse e sfoceranno nelle mani di Dio. Si potè anche esprimere l’unità interna del po­polo di Dio stesso, nel quale, come in ogni popolo, ci sono diversi ministeri e servizi, ma nel quale quasi di traverso e al dì sopra di tutte queste distinzioni, tutti sono pellegrini nell’unica comunio­ne del popolo di Dio pellegrinante. Se dunque, per sommi capi, si vuol riassu­mere quali siano gli elementi rilevanti del concetto di Popolo di Dio che per il Concilio furono importanti, si potrebbe dire che qui diventa chiaro il carattere storico della Chiesa, l’unità della storia di Dio con gli uomini, l’unità interna del popolo di Dio al di là anche delle fron­tiere degli stati di vita sacramentali, la dinamica escatologica, la provvisorietà e frammentarietà della Chiesa sempre bi­sognosa di rinnovamento e infine anche la dimensione ecumenica, cioè le diverse maniere nelle quali collegamento e ordi­nazione alla Chiesa sono possibili e rea­li, anche al di là dei confini della Chiesa cattolica.

Il  concetto di popolo di Dio tuttavia fu compreso assai presto totalmente a partire dall’uso linguistico politico gene­rale della parola popolo; nell’ambito del­la teologia della liberazione fu compreso con l’uso della parola marxista di popo­lo come contrapposizione alle classi dominanti e più in generale ancora più ampiamente nel senso della sovranità del popolo, che ora finalmente sarebbe da applicare anche alla Chiesa. Ciò a sua volta diede occasione ad ampi dibat­titi sulle strutture, nei quali fu interpre­tato a seconda della situazione in modo più occidentale come «democratizzazio­ne» ovvero più nel senso delle cosiddette «Democrazie popolari» orientali. Lenta­mente questo «fuoco d’artificio di paro­le» (N. Lohfink) intorno al concetto di popolo di Dio sì è andato spegnendo, da una parte e principalmente perché que­sti giochi di parole si sono svuotati da se stessi e dovevano lasciare il posto al lavoro ordinario nei consigli parrocchia­li, dall’altra però anche, perché un soli­do lavoro teologico ha mostrato in mo­do incontrovertibile l’insostenibilità di tali politicizzazioni di un concetto di per sé proveniente da un ambito totalmente diverso. Come risultato di analisi esege­tiche accurate l’esegeta di Bochum Wer­ner Berg ad esempio afferma: «Malgra­do l’esiguo numero di passi, che conten­gono l’espressione “popolo di Dio” - da questo punto di vista “popolo di Dio” è un concetto biblico piuttosto raro - può nondimeno rilevarsi qualcosa di co­mune: l’espressione “popolo di Dio” esprime la ‘parentela con Dio, la rela­zione con Dio, il legame fra Dio e quello che è designato come “popolo di Dio”, quindi una ”direzione verticale”. L’e­spressione si presta meno a descrivere la struttura gerarchica di questa comunità, soprattutto se il “popolo di Dio” viene descritto come “controparte dei mini­stri”. A partire dal suo significato bibli­co l’espressione non si presta neppure ad un grido di protesta contro i ministri: “Noi siamo il popolo di Dio”. Il profes­sore di teologia fondamentale di Pader­horn Josef Meyer zu Schlochtern con­clude la rassegna sulla discussione intor­no al concetto di popolo di Dio con l’os­servazione che la Costituzione sulla Chiesa del Vaticano II termina il capito­lo relativo in modo tale da «designare la struttura trinitaria come fondamento dell’ultima determinazione della Chie­sa... ». Così la discussione è ricondotta al punto essenziale: la Chiesa non esiste per se stessa, ma dovrebbe essere lo strumento dì Dio, per radunare gli uo­mini a lui, per preparare il momento, in cui «Dio sarà tutto in tutto» (1 Cor 15, 28). Proprio il concetto di Dio era stato lasciato da parte nel «fuoco d’artificio» intorno a questa espressione e in tal mo­do era stato privato del suo significato. Infatti una Chiesa, che esiste solo per se stessa, sarebbe superflua. E la gente lo nota subito. La crisi della Chiesa, come essa si rispecchia nel concetto di popolo di Dio, è «crisi di Dio»; essa risulta dall’abbandono dell’essenziale. Ciò che re­sta, è ormai solo una lotta per il potere. Di questa ve ne è abbastanza altrove nel mondo, per questa non c’è bisogno del­la Chiesa.

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III- LEcclesiologia di comunione

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Si può certamente dire che all’incirca a partire dal Sinodo straordinario del 1985, che doveva tentare una specie di bilancio di vent’anni di post-concilio, un nuovo tentativo si va diffondendo, quel­lo di riassumere l’insieme dell’ecclesiolo­gia conciliare in un concetto base: ‘ec­clesiologia di comunione’. Ho accolto con gioia questo nuovo ricentramento della ecclesiologia ed ho anche cercato secondo le mie capacità di prepararlo. Si deve comunque innanzitutto ricono­scere che la parola “communio” nel Concilio non ha una posizione centrale. Nondimeno, compresa rettamente, essa può servire come sintesi per gli elementi essenziali dell’ecclesiologia conciliare. Tutti gli elementi essenziali del concetto cristiano di «communio» si trovano riu­niti nel famoso passo di I Giov 1, 3, che si può considerare come il criterio di ri­ferimento per ogni corretta comprensio­ne cristiana della “communio”: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo an­nunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra Comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta». Qui emerge in primo piano il punto di partenza della “communio”: l’incontro con il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che nell’annuncio della Chiesa viene agli uomini. Cosi nasce la comunione degli uomini fra di loro, che a sua volta si fonda sulla comunione con il Dio uno e trino. Alla comunione con Dio si ha accesso tramite quella realizzazione della comunione di Dio con l’uomo, che è Cristo in per­sona; l’incontro con Cristo crea comu­nione con lui stesso e quindi con il Pa­dre nello Spirito Santo; e a partire da qui unisce gli uomini fra di loro. Tutto questo ha come fine la gioia piena: la Chiesa porta in sé una dinamica escatologica. Nell’espressione gioia piena si avverte il riferimento ai discorsi d’addio di Gesù, quindi al mistero pasquale ed al ritorno del Signore nelle apparizioni pa­squa!i, che tende al suo pieno ritorno nel nuovo mondo: «Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia... vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà... Chiedete e otterre­te, perché la vostra gioia sia piena» (Gv16, 20.22.24). Se si confronta l’ultimi frase citata con Lc 11, 13 - l’invito alla preghiera in Luca - appare chiaramente che «gioia» e «Spirito Santo» si equivalgono e che dietro la parola gioia si nasconde in I Giov 1, 3 lo Spirito Santo qui non espressamente menziona­to. La parola «communio» ha quindi a partire da questo ambito biblico un carattere teologico, cristologico, soteriologico ed ecclesiologico. Porta quindi in sé anche la dimensione sacramentale, che in Paolo appare in modo del tutto espli­cito: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un so­lo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo.» (ICor10,16s). L’ecc­lesiologia di comunione è fin dal suo intimo una ecclesiologia eucaristica. Es­sa si colloca così assai vicino all’ecclesio­logia eucaristica, che  teologi ortodossi hanno sviluppato in modo convincente nel nostro secolo. In essa come ab­biamo già visto l’ecclesiologia divie­ne più concreta e rimane nondimeno al­lo stesso tempo totalmente spirituale, trascendente ed escatologica. Nell’Euca­ristia Cristo, presente nel pane e nel vi­no e donandosi sempre nuovamente edifica la Chiesa come suo corpo e per mezzo del suo corpo di risurrezione ci unisce al Dio uno e trino e fra di noi. L’Eucaristia si celebra nei diversi luoghi e tuttavia è allo stesso tempo sempre universale, perché esiste un solo Cristo e un solo corpo di Cristo. L’Eucaristia include il servizio sacerdotale della «re­praesentatio Christi» e quindi la rete del servizio, la sintesi di unità e molteplici­tà, che si palesa giù nella parola «Com­munio». Si può così senza dubbio dire che questo concetto porta in sé una sin­tesi ecclesiologica, che unisce il discorso della Chiesa al discorso di Dio ed alla vi­ta da Dio e con Dio, una sintesi, che ri­prende tutte le intenzioni essenziali del­l’ecclesiologia del Vaticano II e le colle­ga fra di loro nel modo giusto.

Per tutti questi motivi ero grato e contento, quando il Sinodo del 1985 ri­portò al centro della riflessione il con­cetto di «communio». Ma gli anni suc­cessivi mostrarono che nessuna parola è protetta dai malintesi, neppure la mi­gliore e la più profonda. Nella misura in cui «communio» divenne un facile slo­gan, essa fu appiattita e travisata. Come per il concetto di popolo di Dio cosi si doveva anche qui rilevare una progressi­va orizzontalizzazione, l’abbandono del concetto di Dio. L’ecclesiologia di co­munione cominciò a ridursi alla tematica della relazione fra Chiesa locale e Chiesa universale, che a sua volta ricad­de sempre più nel problema della divi­sione di competenze fra luna e l’altra. Naturalmente si diffuse nuovamente il motivo egualitaristico, secondo cui molta «communio» potrebbe esservi solo piena uguaglianza. Si è così arrivati di nuovo esattamente alla discussione dei discepo­li su chi fosse il più grande, che eviden­temente in nessuna generazione intende placarsi. Marco ne riferisce con maggio­re insistenza. Nel cammino verso Geru­salemme Gesù aveva parlato per la terza volta ai discepoli della sua prossima pas­sione. Arrivati a Cafarnao egli chiese lo­ro di che cosa avevamo discusso fra di loro lungo la via. «Ma essi tacevano», peirhé avevano discusso su chi di loro fosse il più grande - una specie di di­scussione sul primato (Mc 9, 33-37). Non è così anche oggi? Mentre il Signo­re va verso la sua passione, mentre la Chiesa e in essa egli stesso soffre, noi ci soffermiamo sul nostro tema preferito, sulla discussione circa i nostri diritti di precedenza. E se egli venisse fra di noi e ci chiedesse di che cosa abbiamo parlato, quanto dovremmo arrossire e tacere.

Questo non vuol dire che nella Chiesa non si debba anche discutere sul retto ordinamento e sulla assegnazione delle responsabilità. E certamente vi saranno sempre squilibri, che esigono correzioni. Naturalmente può verificarsi un centrali­smo romano esorbitante, che come tale deve poi essere evidenziato e purificato. Ma tali questioni non possono distrarre dal vero e proprio compito della Chiesa: la Chiesa non deve parlare primariamente di se stessa, ma di Dio, e solo perché questo avvenga in modo puro, vi sono allora anche rimproveri intra-ecclesiali, per i quali la correlazione del di­scorso su Dio e sul servizio comune de­ve dare la direzione. In conclusione non a caso ritorna nella tradizione evangeli­ca in diversi contesti la parola di Gesù secondo cui l’ultimo diverrà il primo ed il primo l’ultimo - come uno specchio, che riguarda sempre tutti.

Di fronte alla riduzione, che a riguardo del concetto di «communio» si verifi­cò negli anni dopo il 1985, la Congrega­zione per la Dottrina della Fede ritenne opportuno preparare una «Lettera ai Ve­scovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione», che fu pubblicata con la data del 28 giugno 1992. Poiché oggi per teo­logi, che tengono alla propria rinoma­zione, sembra essere divenuto un dovere dare una valutazione negativa dei do­cumenti della Congregazione per la Do­ttrina della Fede, su questo testo cadde una gragnola di critiche, da cui ben po­co riuscì a salvarsi. Soprattutto fu criti­cata la frase, che la Chiesa universale sarebbe nel suo mistero essenziale una realtà, che ontologicamente e temporal­mente precede le singole Chiese partico­lari, Questo nel testo era brevemente fondato con il richiamo al fatto che se­condo i padri l’una e singola Chiesa pre­cede la creazione e partorisce le Chiese particolari I padri continuano così una teologia rabbinica, che aveva concepito come preesistenti la Thora ed Israele: la creazione sarebbe stata concepita, per­ché in essa vi fosse uno spazio per la vo­lontà di Dio; questa volontà però aveva bisogno di un popolo, che vive per la volontà di Dio e ne fa la luce del mon­do. Poiché i padri erano convinti dell’i­dentità ultima fra Chiesa ed Israele, essi non potevano vedere nella Chiesa qual­cosa dì casuale sorto all’ultima ora ma riconoscevano in questa riunione dei po­poli sotto la volontà di Dio la teleologia interna della creazione. A partire dalla cristologia l’immagine si allarga e si ap­profondisce: la storia - di nuovo in re­azione con l’Antico Testamento - vie­ne spiegata come storia d’amore fra Dio e l’uomo. Dio trova e si prepara la spo­sa del Figlio, l’unica sposa, che è l’unica Chiesa. A partire dalla parola della Ge­nesi, che uomo e donna diverranno «due in una carne sola» (Gen 2, 24), l’immagine della sposa si fuse con l’idea della Chiesa come corpo di Cristo, me­tafora che a sua volta deriva dalla Litur­gia eucaristica. L’unico corpo di Cristo viene preparato; Cristo e la Chiesa sa­ranno “due in una sola carne”, un cor­po, e così «Dio sarà tutto in tutto». Que­sta precedenza ontologica della Chiesa universale, dell’unica Chiesa e dell’unico corpo, dell’unica sposa, rispetto alle rea­lizzazioni empiriche concrete nelle sin­gole Chiese particolari mi sembra così evidente, che mi riesce difficile comprendere le obiezioni ad essa. Mi sem­brano in realtà essere possibili solo se non si vuole e non si riesce più a vedere la grande Chiesa ideata da Dio - forse per disperazione a motivo della sua insufficienza terrena - ; essa appare ora come una fantasticheria teologica, e rimane quindi solo immagine empirica delle Chiese nella loro relazione recipro­ca e nella loro conflittualità. Questo pe­rò significa che la Chiesa come tema teologico viene cancellato. Se si può ve­dere la Chiesa ormai solo nelle organiz­zazioni umane, allora in realtà rimane solo desolazione. Ma allora non si è ab­bandonato solo l’ecclesiologia dei padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e la concezione di Israele dell’Antico Te­stamento. Nel Nuovo Testamento del resto non è necessario attendere le episto­le deutero-paoline e l’Apocalisse per riscontrare la priorità ontologica riaf­fermata dalla Congregazione per la Dot­trina della Fede - della Chiesa univer­sale rispetto alle Chiese particolari. Nel cuore delle grandi Lettere paoline, nella Lettera ai Galati, l’Apostolo ci parla della Gerusalemme celeste e non come di una grandezza escatologica ma come una realtà che ci precede: “Questa Ge­rusalemme è la nostra madre” (Gal 4, 26). Al riguardo H. Schlier  rileva che poi Paolo come per la tradizione giudai­ca cui si ispira la Gerusalemme di lassù è il nuovo eone. Per l’apostolo però que­sto nuovo eone è già presente “nella Chiesa cristiana. Questa è per lui la Ge­rusalemme celeste nei suoi figli»

Arrivo alla conclusione. Chi vuol com­prendere l’orientamento dell’ecclesiolo­gia conciliare, non può tralasciare i ca­pitoli 4-7 della Costituzione nei quali si parla dei laici, della vocazione universa­le alla santità, dei religiosi e dell’orienta­mento escatologico della Chiesa. In que­sti capitoli torna ancora una volta in pri­mo piano lo scopo intrinseco della Chie­sa, ciò che è più essenziale alla sua esi­stenza: si tratta cioè della santità, della conformità a Dio - che nel mondo vi sia spazio per Dio, che egli possa abitare in esso e così il mondo divenga il suo “regno”. Santità è qualcosa di più che una qualità morale. Essa è il dimorare di Dio con gli uomini, degli uomini con Dio, la “tenda” di Dio fra di noi ed in mezzo a noi (Giov 1, 14). Si tratta della nuova nascita - non da carne e san­gue, ma da Dio (Gìov 1, 13). L’orienta­mento alla santità è identico con l’orien­tamento escatologico e di fatto ora esso a partire dal messaggio di Gesù è fonda­mentale per la Chiesa. La Chiesa esiste, perché divenga dimora di Dio nel mon­do e così sia «santità»: per questo si do­vrebbe competere nella Chiesa, non su un più o un meno in diritti di preceden­za, sull’occupazione dei primi posti. Tut­to questo è poi ancora una volta ripreso e sintetizzato nell’ultimo capitolo della Costituzione sulla Chiesa, che tratta del­la Madre del Signore.

La questione se non le si dovesse de­dicare un testo proprio fu, come è noto, ampiamente dibattuta. Io penso che in ogni caso sia stata una buona disposizio­ne che l’elemento mariano sia entrato direttamente nella dottrina della Chiesa. Infatti così diventa ancora una volta visibile il punto di partenza da cui abbia­mo preso le mosse: la Chiesa non è ap­parato, non è semplicemente istituzione non è nemmeno una delle tante entità sociologiche; essa è persona. Essa è una donna. Essa è madre. Essa è vivente. La comprensione mariana della Chiesa è la più decisa contrapposizione ad un con­cetto di Chiesa meramente organizzativo e burocratico. La Chiesa noi non la pos­siamo fare, dobbiamo esserla. E solo nella misura in cui la Fede, al di là del nostro fare, forgia il nostro essere, sia­mo Chiesa, la Chiesa è in noi. Solo nel­lessere mariano noi diventiamo Chiesa. Anche all’origine la Chiesa non fu fatta, ma generata. Essa fu generata allorché nell’anima di Maria si destò il Fiat. Que­sta è la più profonda volontà del Conci­lio: che la Chiesa si desti nelle nostre anime. Maria ci mostra la via.

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