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    Le prime notizie di quella che sarà la famiglia "Galilei" risalgono a poco dopo l'epoca di Dante; verso la fine del '300 abbiamo notizie di Giovanni Bonaiuti, il cui figlio Tommaso ricoprì la carica di "priore" della repubblica fiorentina. Anche il figlio di quest'ultimo, Giovanni, fu priore e diede i natali a quel Tommaso Bonaiuti che fu padre di Galileo Bonaiuti(1370 ~ 1445), medico di fama, ufficiale presso l'università, priore della repubblica e gonfaloniere di giustizia, il cui figlio Michele, attorno al 1450, mutò il cognome in "Galilei" in onore del padre.
    Vincenzo Galilei, pronipote di Michele e padre di Galileo Galilei, era nato a Firenze nel 1520, da giovane si era guadagnata una certa fama come musicista di talento, al punto che Giovanni Maria Bardi, (1533 ~ 1612) dei conti di Vernio e guida della "Camerata Fiorentina" o "Camerata de' Bardi", gli offrì quella che oggi definiremmo "una borsa di studio" per frequentare i corsi di musica di Gioseffo Zarlino (1517 ~ 1590) a Venezia, il quale fu tra gli ultimi maestri di musica ad interpretare l'armonia musicale in base a precise proporzioni numeriche, rifacendosi alle idee dei pitagorici. Più tardi Vincenzo, che sappiamo essere stato persona di vasta cultura, contestò severamente le idee del maestro nel suo "Dialogo della musica antica e della moderna" con cui contribuì notevolmente a riformare il tradizionale concetto di "armonia". Evidentemente non sarà Galileo il primo contestatore in famiglia!
    E' chiaro che la famiglia Galilei, benché un po' decaduta, poteva contare su di una buona posizione sociale, anche se, a quanto è dato sapere era tutt'altro che ricca, al punto che Vincenzo non poté limitarsi alla sua attività di erudito musicista, ma dovette intraprendere anche la via degli affari, (commercio di tessuti) purtroppo con scarso successo. Probabilmente fu proprio per affari che si trasferì a Pisa, dove nel 1562 sposò Giulia Ammannati, (1538 ~ 1620) figlia di Cosimo Ammannati da Pescia, il quale come uomo d'affari sicuramente era più abile di Vincenzo, anche lui trasferito a Pisa per lavoro, dove era nata Giulia.
    Al momento del matrimonio, Giulia aveva 24 anni e Vincenzo 42, ma la differenza di età non era il guaio più grosso; Giulia era una ragazza viziata, abituata a vivere bene senza svolgere nessuna attività, convinta che tutto gli sia dovuto senza sentirsi in obbligo verso nessuno, nemmeno verso i figli, e quando Vincenzo verrà a mancare continuerà a pretendere di vivere bene a spese del maggiore dei figli, lamentandosi del fatto che Galileo si sia dato alle matematiche invece che a far soldi.
     Il primogenito della coppia, Galileo Galilei, nacque a Pisa il 15 febbraio 1564. Vincenzo gli insegnò a suonare il liuto fin dalla più tenera età, e per Galileo la musica sarà una vera valvola di sfogo per l'intera vita. A Pisa l'istruzione del giovane fu affidata a Jacopo Borghini da Dicomano, di cui non si sa quasi nulla, ma stando a quanto ci sarà riferito più tardi, la preparazione umanistica di Galileo, senza essere eccezionale, non fu assolutamente scadente; secondo l'uso dei tempi, oltre al greco e al latino studiò matematica e disegno.
    Per un certo periodo a Pisa Vincenzo Galilei fu socio in affari di Tedaldi Muzio, funzionario di dogana che più tardi sposerà Bartolomea Ammannati, sorella o cugina di Giulia. I rapporti fra le famiglie Tedaldi e Galilei probabilmente erano abbastanza stretti e non si limitavano ai soli affari, infatti da alcune lettere dell'inizio del 1574 scritte dal Tedaldi a Vincenzo siamo a conoscenza che mentre Vincenzo era tornato a Firenze, Giulia e Galileo erano rimasti a Pisa.
    Poco dopo essere rientrato con tutta la famiglia a Firenze, Galileo entrò, probabilmente come novizio, nel monastero camaldolese di S. Maria di Vallombrosa. Il padre Vincenzo sembra non gradisse molto l'idea che Galileo diventasse monaco, perciò con la scusa di curare i difetti alla vista di cui soffriva, ben presto lo trasferì da quel monastero ad un altro che gli stessi monaci avevano in Firenze, ma questa volta senza farne un novizio.
    Gli studi seguiti presso il monastero da Galileo furono i normali studi a cui venivano indirizzati i giovani del tempo, cioè grammatica, logica e retorica.
    Probabilmente memore del glorioso antenato che aveva stabilito per la famiglia il cognome "Galilei", Vincenzo decise che il suo primogenito sarebbe diventato medico, perciò essendo, come sempre, afflitto da problemi economici, cercò di ottenere per il figlio, non ancora quindicenne, un posto nel "Collegio della Sapienza" di Pisa, dove quaranta giovani potevano studiare a spese dello stato. Ma anche allora le borse di studio non sempre venivano assegnate esclusivamente in base ai meriti, e per essere finalmente ammesso al collegio, Galileo dovrà aspettare ancora tre anni, il ché significa fino al 1581 quando ormai aveva diciassette anni.
    E' sempre nel corso del 1581 che suo padre da alle stampe il
"Dialogo della musica antica e della moderna" in cui troviamo fra l'altro, un'affermazione che vale la pena di riportare:

    ...Mi pare che facciano cosa ridicola quelli che per prova di qual si sia conclusione loro, vogliono che si creda senz'altro alla semplice autorità, senza addurre di esse ragioni che valide siano...

    Questo, e altri discorsi simili, danno una chiara idea del modo di pensare in casa Galilei.
     L'insegnamento della medicina presso l'università di Pisa era basato sui testi di Galeno (129/30 ~ 199 d.C.) e sulle opere di scienze naturali di Aristotele(384 - 322 a.C.), anche se già da cinquant'anni presso l'università di Padova la medicina si stava pian piano affrancando dagli autori classici. Ben presto Galileo si guadagnò presso i docenti la qualifica di "contestatore rompiscatole", evidentemente l'insegnamento impartitogli era tutt'altro che gradito, senza contare che la sua tendenza a non accettare principi che si rifacessero solo all'autorità, lo portava già allora a cercare verifiche sperimentali che spesso mettevano in difficoltà gli insegnanti. In una nota scritta molti anni dopo, Galileo riferirà come già allora, osservando la grandine, avesse constatato che i chicchi più grandi arrivavano al suolo contemporaneamente a quelli più piccoli, smentendo la teoria di Aristotele che presupponeva che i corpi più pesanti dovessero cadere più velocemente.

    Secondo una consuetudine adottata da anni, la corte dei granduchi di Toscana, durante i mesi tra Natale e Pasqua si trasferiva a Pisa.
    Nel 1583, al seguito della corte, c'era Ostilio Ricci, (1540 1603) ex allievo del matematico bresciano Niccolò Fontana, (1500 1557) più noto come Tartaglia per la sua balbuzie, il quale nel 1543 aveva tradotto in italiano "Gli Elementi" di Euclide. Il Tartaglia occupandosi di balistica su base matematica, probabilmente era stato autore del primo tentativo di descrivere il moto mediante espressioni matematiche. Ricci, che più tardi diventerà matematico del granduca, tra i suoi compiti aveva quello di istruire il personale di corte, e per rendere più accessibili le sue lezioni invece del latino, lingua ufficiale dei docenti, usava la lingua italiana. A Pisa Ricci fece conoscenza con il giovane Galileo, e a quanto pare i due divennero amici.
    Stando a quanto riportato da Vincenzo Viviani (1622 ~ 1703), uno degli ultimi discepoli e primo biografo di Galileo, sembra che il giovane Galilei, recandosi a far visita al nuovo amico, lo abbia trovato mentre teneva lezione su Euclide ai paggi di corte, e per non disturbare si sedesse in disparte ad ascoltare, trovando la lezione molto interessante. Non risulta che prima di allora Galileo avesse manifestato particolare interesse per la matematica, ma in seguito a quella prima lezione accidentale prese l'abitudine di seguire, ogni volta che poteva, le lezioni del Ricci. Stimolato da quanto stava apprendendo, incominciò lo studio di Euclide per conto suo, e ben presto prese a sottoporre al Ricci i suoi quesiti e le sue osservazioni. Il Ricci, che ignorava il fatto che Galileo seguisse le sue lezioni, gli chiese chi fosse il suo insegnante, al che Galileo dovette confessare come di nascosto seguisse le lezioni tenute dallo stesso per i dipendenti della corte medicea.
    Durante il periodo estivo dello stesso anno, Galileo rintracciò il Ricci a Firenze e lo presentò a suo padre. Poiché anche Vincenzo Galilei, a quanto è dato sapere, in campo matematico non era certo uno sprovveduto, i due divennero ben presto amici, e dopo poco tempo Ricci informò Vincenzo che il figlio preferiva nettamente la matematica alla medicina, chiedendo nel contempo di poterne curare la preparazione. Anche se la notizia non fu particolarmente gradita al padre di Galileo, non ci fu una vera opposizione da parte sua, solo pretese, almeno formalmente, che il figlio non trascurasse gli studi già avviati, e che il tempo impegnato nella matematica non andasse a scapito di quello dedicato alla medicina. Comunque una cosa è certa: durante l'estate del 1583 Galileo non dedicò molto tempo allo studio di Galeno!
   Sicuramente Ricci avviò Galileo allo studio delle opere di Archimede tramite la traduzione del Tartaglia stampata a Venezia nel 1543 che comprendeva le opere del grande siracusano sull'equilibrio dei piani e quelle sui corpi in acqua. Nell'autunno del 1583 Galileo ritornò a Pisa, ma trascurò quasi del tutto gli studi di medicina, applicandosi invece con diligenza agli studi di matematica e filosofia. Sempre secondo il Viviani, fu in questo periodo che scoprì la legge dell'isocronismo del pendolo osservando la famosa lampada nel duomo di Pisa, ma è molto più probabile che tale scoperta risalga ad un periodo posteriore, come si vedrà più avanti.
    All'inizio del 1584 Vincenzo Galilei fu informato che il figlio trascurava i suoi studi di medicina e rischiava di essere bocciato. Di corsa si recò a Pisa, dove tramite il Tedaldi, scoprì, con sua somma sorpresa, che Galileo non trascurava per niente gli studi, ma era fin troppo assiduo. In breve la verità venne a galla, e Vincenzo alquanto deluso dal fatto che il figlio trascurasse di frequentare medicina per seguire gli studi di matematica e i corsi del fisico Francesco Bonamici che trascriveva meticolosamente, minacciò di tagliargli i fondi. Ma ormai la frittata era fatta! Al termine dell'anno accademico 84/85 Galileo perse il diritto a rimanere nel "collegio della Sapienza" e ritornò a Firenze senza essersi laureato, e senza troppi rimpianti. Qui riprese i contatti con il Ricci che al momento teneva dei corsi di architettura e meccanica presso l'Accademia del Disegno, scuola istituita nel 1563 ed elevata al rango di università dal granduca Cosimo I.
    E' di questo periodo la prima opera manoscritta di Galileo nota come "Iuvenilia", che con tutta probabilità non è altro che il riassunto delle lezioni del Bonamici che lui aveva seguito a Pisa. In quest'opera aristotelico- tolemaica si accenna alla teoria copernicana solo per rifiutarla, ma sono citati anche i "Doctores parisienses" del XIV° secolo, che, in contrasto con le teorie aristoteliche sul moto, avevano introdotto la "teoria dell'impeto" la cui evoluzione porterà molto più tardi al concetto di inerzia.
   Galileo aveva quasi ventidue anni, poiché la famiglia non sguazzava certo nell'oro, comprese che era ora di incominciare a guadagnarsi da vivere. Come la stragrande maggioranza dei giovani era ambizioso, forse anche troppo, e per farsi notare curava attentamente le relazioni sociali cercando di pubblicare qualche lavoro. Nel volger di un anno scrisse "La Bilancetta" in cui, sulle orme di Archimede, descriveva la tecnica costruttiva e il modo d'impiego di una bilancia idonea a determinare i pesi specifici dei corpi a cui aveva apportato alcuni perfezionamenti pratici. Non poteva rivendicarne la paternità; apparecchi simili probabilmente erano già usati dagli orefici da molto tempo, ed essendo senza soldi, non poteva nemmeno darlo alle stampe, ma con la diffusione del manoscritto riuscì ad attirare l'attenzione su di sé di diversi personaggi. Per vivere impartiva lezioni private, ma è chiaro che si stava dando da fare per trovare un "posto fisso".
    Sempre tra il 1586/87 si applicò alla determinazione del baricentro dei corpi, elaborando alcuni teoremi in merito, facendoli poi circolare come manoscritti presso diversi personaggi, tra i quali Cristoforo Clavio (Schlüssel Christoph, 1537 - 1612), gesuita e docente presso il "Collegio Romano" ( in pratica l'università del Vaticano) con il quale avrà in seguito una lunga e franca corrispondenza di carattere scientifico. 
    Altro personaggio a cui Galileo inviò i suoi lavori sul baricentro dei corpi fu Gidobaldo Dal Monte (1545 - 1607), matematico già affermato, di famiglia nobile, che prese immediatamente sotto la sua protezione il giovane Galileo, e, oltre a stimolarlo nelle sue indagini, da quel momento cercherà di aiutarlo in tutti i modi.
    Nel 1587 Galileo apprese che la cattedra di matematica all'università di Bologna è vacante fin dal lontano 1583, quando Egnazio Danti, una delle anime della riforma gregoriana del calendario, era stato nominato vescovo di Alatri. Propose immediatamente la sua candidatura, e nell'archivio dello studio felsineo è rimasto il seguente documento:

"1587. Mathematico fiorentino raccomandato dal sr. Artani.
M. Galileo Galilei nobile fiorentino, giovane di anni 26 incirca, è istruitissimo in tutte le Scienze Matematiche, ed è allievo di M. Ostilio Ricci, Huomo segnalatissimo, e provvisionato dal Gran Duca Francesco di felice memoria, del quale ci sono anco fedi in commendazione del valor di questo giovane. Fu condotto alla lettura pubblica di Matematica in Siena: s'è esercitato assai privatamente e ha letto a moltissimi gentiluomini e in Firenze e in Siena. E' di grandissimo giudizio in questo e in molte altre cose nelle quali ha posto studio, come in particolare nell'umanità e nella filosofia e in altre belle qualità. Al presente domanda e desidera la lettura di Matematica in questa città: offrendosi prontamente a concorrere nel merito con qual si voglia altro di questa professione in qualunque modo bisognerà"

    In realtà nel 1587 Galileo ha solo 23 anni, compirà i 24 nel febbraio successivo; e benché dalla sua corrispondenza risulti essere stato qualche volta a Siena non è rimasta testimonianza di un suo periodo di insegnamento in quella città. Comunque si mise all'opera per cercare appoggi alla sua candidatura; verso la fine dell'anno compì un viaggio a Roma, dove fra l'altro incontrò personalmente il Clavio.
    Il risultato del suo viaggio fu una lettera di sostegno alla sua candidatura indirizzata dal cardinale Enrico Gaetani, probabilmente su richiesta di Guidobaldo dal Monte, al Senato di Bologna e datata 10 febbraio 1588.
    Galileo era anche riuscito a crearsi una certa notorietà con le letture all'Accademia Fiorentina "Intorno alla figura, sito e grandezza dell'Inferno di Dante Alighieri" argomento oggetto di disputa fra gli accademici e altri letterati. Queste letture avevano portato in primo piano di fronte alla classe colta fiorentina, le sue acute capacità di analisi.
    Purtroppo, nonostante tutto il suo impegno, l'università di Bologna il 4 agosto 1588  preferì assegnare la cattedra di matematica al padovano Antonio Magini (1555 ~ 1617) di qualche anno più anziano e che aveva all'attivo alcune pubblicazioni di carattere astronomico.
    Nel 1588 Gioseffo Zarlino, pubblicando i suoi "Supplementi Musicali", aveva attaccato le teorie di Vincenzo Galilei, sostenendo tra l'altro, in base ad astratti concetti matematici di armonia, che il semitono non poteva essere diviso in due parti uguali. 
    Secondo Vincenzo Galilei, il moderno concetto di armonia doveva basarsi sulla capacità dell'orecchio dei musicisti di afferrare la consonanza, e rendeva necessaria tale divisione. Vincenzo, buon matematico e dotato di quella mentalità razionale che aveva inculcato anche nel figlio, eseguì una serie di esperimenti con corde sottoposte alla stessa tensione e di lunghezza diversa. Galileo certamente partecipò agli esperimenti del padre; e poiché per mantenere corde di varie lunghezze alla stessa tensione si usava lo stesso peso, è verosimile che nel corso di questi esperimenti osservasse l'isocronismo del pendolo e la dipendenza del periodo di oscillazione dalla lunghezza della corda. Infatti in una nota della fine 1588 o inizio 1589 contenuta in alcuni scritti, tesi trasformare il suo incompiuto "dialogo sul moto" in un trattato, troviamo i suoi primi cenni circa le leggi del pendolo, che oltretutto erano già state osservate dagli arabi, ma questo Galileo non poteva saperlo.
    Nel marzo del 1588 era morto a Padova Giuseppe Moletti, docente di matematica presso quella università. Avutane notizia, subito Galileo si attivò per porre la sua candidatura; ma la Repubblica di Venezia non aveva nessuna fretta di sostituire l'illustre Moletti, perciò Galileo puntò sulla cattedra di Pisa. 
    Filippo Fantoni che "leggeva" matematica a Pisa lasciò vacante la cattedra verso la metà del 1589, grazie ai buoni uffici di Guidobaldo dal Monte e del fratello di questi, il cardinale Francesco, Galileo ottenne il suo primo incarico presso l'università di Pisa.
    Probabilmente ebbe un certo peso anche la sua consulenza, fornita al granduca Ferdinando, circa una draga che Giovanni de Medici, figlio naturale del precedente granduca Cosimo I°, aveva fatto costruire per dragare il porto di Livorno. Galileo dopo aver visto il modellino aveva dichiarato che non avrebbe funzionato. Naturalmente con la classica arroganza dei potenti, Giovanni de Medici aveva voluto portare a termine il progetto, con l'ovvio risultato fallimentare e quel che è peggio coprendosi di ridicolo, cosa che per un politico è ben peggiore di qualsiasi scandalo. Inevitabilmente da allora in poi, Galileo ebbe un potente nemico in più.
    Finalmente nel Luglio 1589 ottenne la nomina di "Lettore delle matematiche" a Pisa, e il 12 novembre tenne la sua prolusione. La facoltà di matematica non era certo considerata fra le più importanti, e lo stipendio di Galileo lo era ancora meno; in tutto Galileo riceveva 60 scudi all'anno, esattamente la metà di quanti ne percepiva il suo predecessore, praticamente uno stipendio da fame che veniva decurtato in base al numero di assenze; Galileo, non avendo al momento nessuno a carico, si accontentò, anche se doveva arrotondare i suoi magri introiti continuando a dare lezioni private. Inoltre aveva bisogno di farsi un nome per mirare più in alto; non avendo per niente abbandonato le sue mire alla cattedra di Padova!
    E' a Pisa che Galileo incominciò a dare forma organica ai suoi studi. L'ambiente universitario era profondamente tradizionalista, ma non mancavano docenti più aperti. Nello stesso periodo in cui aveva assunto l'incarico, era arrivato a Pisa Jacopo Mazzoni docente di filosofia e vecchio amico del padre, la cui compagnia era invidiata anche da Guidobaldo dal Monte; e fra gli altri c'erano il matematico Luca Valerio uno dei pionieri del calcolo infinitesimale, e il più anziano filosofo, docente di medicina, Girolamo Mercuriale,che percepiva la stratosferica cifra di 2000 scudi all'anno, ed era famoso per il suo avveniristico "De arte gymnastica" nel quale attribuiva rilevante importanza all'esercizio fisico per il mantenimento della salute.
    Luca Valerio (1522 ~ 1618) ricordando molto più tardi quegli anni, scriverà: ".
..quando per quelli ameni ed ombrosi prati andavamo, in compagnia d'altri filosofi, bene spesso gridando e disputando insieme...".
    Quasi subito Galileo aveva messo in mostra la sua razionalità, dichiarando chiaramente quale sarebbe stato il suo metodo di insegnamento: 

"Il metodo che seguiremo sarà quello di far dipendere quel che si dice da quel che si è detto, senza mai supporre come vero quello che si deve spiegare. Questo metodo me l'hanno insegnato i miei matematici, mentre non è abbastanza osservato da certi filosofi quando insegnano elementi fisici... Per conseguenza quelli che imparano, non sanno mai le cose dalle loro cause, ma le credono solamente per fede, cioè perché le ha dette Aristotele. Se poi sarà vero quello che ha detto Aristotele, sono pochi quelli che indagano; basta loro essere ritenuti più dotti perché hanno per le mani maggior numero di testi aristotelici."
e conclude:
"che una tesi sia contraria all'opinione di molti, non m'importa affatto, purché corrisponda alla esperienza e alla ragione"

    Con un simile programma pedagogico, era inevitabile,  procurarsi dei nemici nel rigido ambiente universitario. La maggior parte dei docenti, anche se pieni di buona volontà, proveniva da una formazione puramente accademica, a loro era stato inculcato, fin dai primi studi, che nessuno avrebbe mai potuto competere con i grandi del passato. Perciò per questi docenti, che avevano speso l'intera vita sui testi classici, il solo pensare di mettere in dubbio le affermazioni contenute in tali testi costituiva un delitto di "lesa maestà"; ora di punto in bianco arrivava uno squattrinato sbarbatello venticinquenne senza neanche un titolo di studio, che non solo si permetteva di criticare con inaudita arroganza i grandi del passato, ma addirittura pretendeva di dimostrare con esperimenti di aver ragione; mettendo a rischio tutto l'edificio della cultura corrente, e soprattutto quella posizione sociale, e quella sicurezza per cui loro avevano faticato l'intera vita.

"CONTRO IL PORTAR LA TOGA"

Mi fan patir costoro il grande stento,
Che vanno il sommo bene investigando,
E per ancor non v'hanno dato drento.
E mi vo col cervello immaginando,
Che questa cosa solamente avviene
Perchè non è dove lo van cercando.
.....
Credi pur ch'ella sta com'io ti dico,
Che 'l vestir panni e simil fantasie
Son tutte quante invenzion del Nimico;
Come fu quella dell'artiglierie,
E degli altri incantesimi e malie.
.....
Ma ch'io sia per voler portar la toga,
Come s'io fussi qualche Fariseo,
O qualche scriba o archisinagoga,
Non lo pensar; ch'io non son mica Ebreo,
.....
A un che vada in toga non conviene
Il portar un vestito che sia frusto,
.....
E così viene a raddoppiar la spesa;
E questa a chi non ha molti quattrini
È una dura e faticosa impresa.
.....
Sappi che questi tratti tutti quanti
Furon trovati da qualcuno astuto,
Per dar canzone e pasto agl'ignoranti,
Che tengon più valente e più saputo
Questo di quel, secondo ch'egli arà
Una toga di rascia o di velluto.
Dio sa poi lui come la cosa sta!
Ma s'io avessi a dire il mio parere,
Questo discorso un tratto non mi va.
Ch'importa aver le vesti rotte o intere,
Che gli uomini sien Turchi o Bergamaschi,
Che se gli dia del Tu o del Messere?
.....
Anzi vo' dirti una mia fantasia,
Che gli uomini son fatti com'i fiaschi.
.....
Guarda que' fiaschi, innanzi che tu bea
Quel che v'è drento; io dico quel vin rosso,
Che fa vergogna al greco e alla verdea:
Tu gli vedrai che non han tanto in dosso,
Che 'l ferravecchio ne dessi un quattrino;
Mostran la carne nuda in sino all'osso:
E poi son pien di sì eccellente vino,
Che miracol non è se le brigate
Gli dan del glorioso e del divino.
Gli altri, ch'han quelle veste delicate,
Se tu gli tasti, o son pieni di vento,
O di belletti o d'acque profumate,
O son fiascacci da pisciarvi drento.

    Ma una cosa è sicura, Galileo non era tipo da ritirarsi in un angolo; oltre alla razionalità del padre, aveva ereditato anche qualche cosa del duro carattere materno, e agli attacchi rispose con quel "Contro il portar la toga" forse di sapore leggermente boccacesco, ma che letto con attenzione, stupisce tuttora per la sua attualità.
    Certo il venticinquenne neo docente non era un esempio di disciplina, ne per i colleghi, e tanto meno per gli allievi. Libero com'era da vincoli familiari amava dedicarsi alle stesse cose che ancor oggi attirano i giovani della sua età: fare la bella vita, baldoria con gli amici, frequentare compagnie femminili disponibili e ogni tanto, una rimpatriata in famiglia.
    Purtroppo i programmi dei suoi corsi non sono stati rinvenuti, ma una cosa è certa: pur dovendo insegnare anche astronomia, per il momento non si occupò in modo approfondito dei cieli; è vero che si documentò sia su Tolomeo che su Copernico, ma i suoi interessi erano rivolti principalmente alla meccanica, e in particolare allo studio del moto.
    L'opera che lo impegnò a lungo durante i tre anni passati a Pisa, fu il suo trattato sul moto: "De Motu Antiquiora", in parte già abbozzato come dialogo negli anni antecedenti al suo periodo di insegnamento. Il "De Motu" costituisce il suo primo lavoro di una certa importanza in campo scientifico. Scritto in latino, lingua accademica, quindi destinato ad uso didattico e, più in generale, al mondo colto dell'epoca, è un tappa fondamentale nell'opera di demolizione dei concetti aristotelici sul movimento, anche se l'autore era ancora fortemente influenzato dalle vecchie idee.
   Secondo Aristotele il moto dei corpi èra dovuto alla "tendenza" dei quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco, a raggiungere il loro "stato naturale"; perciò i corpi erano distinti in leggeri e pesanti, quelli pesanti tendevano naturalmente a muoversi verso il basso, e quelli leggeri verso l'alto. Ne derivava che i corpi più pesanti dovevano cadere più velocemente. Tali spostamenti costituivano i "moti naturali", cioè avvenivano senza che al corpo fosse applicata alcuna forza esterna. I movimenti diversi da quelli naturali erano definiti "violenti" e potevano iniziare e proseguire solo se sul mobile veniva mantenuta una forza in modo continuo, e in caso tale forza venisse a mancare anche il moto doveva aver termine; in pratica: come l'asino smette di tirare, il carro si ferma!
    E' evidente che il concetto di "inerzia" era completamente assente!
    Lo stesso Aristotele non riusciva a spiegarsi come una freccia dopo essere stata scoccata dall'arco potesse proseguire nel suo moto. Il grande filosofo greco nel tentativo di risolvere il problema aveva ipotizzato che a spingere la freccia dopo che si era staccata dall'arco fosse l'aria, ma già nel primo medioevo la sua spiegazione era stata contestata. Nel '300 la scuola di Parigi (
Nicola di Oresme (1320?-1382) Giovanni Buridano (1290?-1358) e Alberto di Sassonia (1313-1390) e altri...) aveva introdotto la “teoria dell’impetus”, secondo la quale un mobile, all'atto del lancio, acquisiva un non meglio specificato "impetus", proporzionale alla velocità, che si esauriva man mano la velocità diminuiva. (Concetto non certo esatto, ma sicuramente meno lontano dall'idea di "energia cinetica", ma alla fine del '500 l'idea di "energia" era di là da venire!...)
   Galileo, che aveva recepito chiaramente l'idea dell'impetus e conservato per il momento la suddivisione fra "moti naturali" e "moti violenti", analizzando i "moti naturali" e tenendo conto del principio di Archimede, giunse alla conclusione che nello stesso mezzo, due corpi dello stesso materiale ma di peso diverso cadendo da pari altezza dovessero acquisire la stessa velocità.
   Il Viviani, riporta testualmente:

        "...allora, con grande sconcerto di tutti i filosofi, furono da esso [Galileo] vinte di falsità per mezzo di esperienze e con salde dimostrazioni e discorsi, moltissime conclusioni dell'istesso Aristotele intorno alla materia del moto, ... 
... mobili dell'istessa materia, disegualmente gravi, movendosi per un istesso mezzo, ...  ... si muovon tutti con pari velocità, dimostrando ciò con replicate esperienze, fatte dall'altezza del Campanile di Pisa con l'intervento delli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca."

   L'episodio riportato, purtroppo fu successivamente abbellito ed infiorato da tanti e tali autori, fino al punto che, in base a queste versioni modificate, viene oggi violentemente contestato. Tuttavia, considerando che allora Galileo trattava esclusivamente di corpi dello stesso materiale, come chiaramente specificato dallo stesso Viviani, e che l'affermazione della presenza di "tutta la scolaresca" sia da interpretare più logicamente come: "tutta la scolaresca... [che voleva assistere]..." un simile evento non è per niente improbabile... Anzi!... Il fatto che lo stesso Galileo non parli mai nei suoi scritti di simili esperimenti è, a mio avviso, dovuto al lunghissimo intervallo di tempo trascorso fra l'esecuzione degli esperimenti e le pubblicazioni dello scienziato sull'argomento.  Non bisogna dimenticare tuttavia che Giovanni Battista Benedetti (1530 ~ 1590), veneziano e allievo del Tartaglia, nel suo trattato Resolutio omnium Euclidis problematum (Venezia, 1553) aveva affermato lo stesso concetto, e il fiammingo Simon Stevin (1548 ~ 1620) aveva eseguito alcuni anni prima vari esperimenti dello stesso genere.
   Analizzando la classificazione dei moti, pur attenendosi ai tradizionali concetti di "moti naturali" e "moti violenti" Galileo introdusse un'idea originale: quella di "moto neutro", riferito al moto di rotazione di una sfera omogenea attorno al proprio centro, moto che non si avvicina e nemmeno si allontana dal centro. E' abbastanza probabile che proprio partendo da questa idea incominciasse a prendere in considerazione il moto di rotazione diurno della terra.
    In un'altra parte del
"De Motu" giunge ad affermare che:

"Un mobile che non subisce alcuna resistenza esterna può essere mosso, su un piano che non tenda né verso l'alto né verso il basso, da una forza inferiore a una qualsiasi forza data.

    Non siamo ancora al concetto di "inerzia", ma siamo certamente sulla buona strada!
   Nello stesso trattato, iniziava ad affrontare il problema della velocità dei corpi lungo i piani inclinati che più tardi lo terrà a lungo impegnato negli anni che passerà a Padova, e, pur non giungendo ad una chiara soluzione, mostrava come la sua indagine fosse costantemente basata su metodi sperimentali.
    Probabilmente lo stesso Galileo ritenne il suo dialogo sul moto ancora troppo legato alla tradizione accademica, e non solo non lo completò, ma tanto meno lo diede alle stampe. In questo dialogo accennava alla prossima pubblicazione dei suoi commentari all'Almagesto di cui si è persa ogni traccia, ma secondo alcuni autori sembra volesse proporre un sistema sul tipo di quello definito "ticonico", e che, essendo più tardi venuto a conoscenza che tale sistema era gia stato introdotto, abbia abbandonato l'idea.
    Purtroppo il 2 luglio 1591 moriva a Firenze Vincenzo Galilei. La perdita del padre obbligò Galileo ad assumersi il mantenimento della famiglia, e considerato il suo striminzito stipendio, la cosa gli risultò alquanto difficile nonostante si desse da fare con lezioni private. Con tutta probabilità il suo insegnamento ricco di contenuti antiaristotelici, peggiorò non poco la sua posizione nei confronti delle autorità e dei colleghi. Questi, sostenuti da quel Giovanni De Medici che Galileo aveva messo in ridicolo, iniziarono a manovrare affinché alla scadenza del contratto l'incarico non gli fosse rinnovato.
    Da una lettera di Guidobaldo Del Monte, datata 21 febbraio 1592 risulta evidente come la situazione di Galileo stesse precipitando, per fortuna il suo benefattore non era rimasto con le mani in mano...

...Mi dispiace ancora di veder che V. S. non sia trattata second'i meriti suoi, e molto più mi dispiace che ella non habbi buona speranza. Et s'ella vorrà andar a Venetia questa state, io l'invito a passar di qua, che non mancarò dal canto mio di far ogni opera per aiutarla e servirla; chè certo io non la posso veder in questo modo. Le mie forze sono deboli, ma, come saranno, io le spenderò tutte in suo servitio. ...

   Forse fu proprio con questa lettera che prese corpo l'operazione "Conquista di Padova" peraltro mai completamente abbandonata fin dalla morte del Moletti. Con la poco allettante prospettiva di trovarsi letteralmente sul lastrico, Galileo incominciò a muovere tutte le pedine di cui disponeva, e bisogna dire che questa volta le utilizzò nel miglior modo possibile.
   In agosto del 1592 si recò a Pesaro a far visita a Giudobaldo Dal Monte, questi gli suggerì di recarsi immediatamente a Padova da quel Gianvincenzo Pinelli (1535 ~ 1601) che pur essendo nato a Napoli da famiglia genovese, fin dal 1558 aveva eletto Padova a sua stabile residenza.
    Personaggio di agiata famiglia, di vasta cultura, e abile diplomatico , Pinelli aveva pian piano trasformato la sua casa in una specie di accademia che accoglieva quotidianamente i personaggi più in vista e studiosi di ogni campo. Per Galileo era il sostegno che ci voleva! Per prima cosa Pinelli lo presentò ai vari notabili e docenti di Padova, quindi gli suggerì di recarsi a Venezia dove risiedevano i tre Riformatori, responsabili della gestione dello studio padovano, consiglio che Galileo non perse tempo a seguire trasferendosi nella città lagunare presso l'ambasciatore del granduca di Toscana.
    Uno dei tre Riformatori, Giovanni Michiel, in quel periodo era a Padova per lavoro, e il Pinelli se lo manovrò talmente bene al punto da contrattare perfino lo stipendio annuo di Galileo. Nell'avvertire Galileo del risultato del suo lavoro, Pinelli lo informò che il Magini, già suo rivale al tempo della domanda per la cattedra di Bologna, aveva posto la propria candidatura per la stessa cattedra a Padova, ed era sostenuto da un'altro Riformatore, Zaccaria Contarini.
    Galileo reagì abilmente stringendo amicizia con Benedetto Zorzi, figlio di Alvise, terzo ed ultimo riformatore dello studio patavino. Ormai due riformatori su tre sono dalla sua parte, ma per maggior sicurezza continuò a frequentare vari personaggi della buona società, tra i quali il generale Dal Monte, cugino di Giudobaldo. Galileo pur non presentandosi come persona facoltosa, sapeva imporsi grazie alla sua personalità e alla sicurezza che ostentava. In un mese stravinse la sua battaglia, anche perché il Magini aveva incautamente chiesto troppo, così a fine settembre il Senato approvò la delibera della sua nomina con 149 voti favorevoli, otto contrari e tre astenuti.
    Lo stipendio, 180 fiorini all'anno, non era gran ché, tenuto conto del cambio corrente superava quello che riceveva a Pisa più o meno del trenta/quaranta per cento, ma a parte il fatto che Galileo al momento non aveva molte alternative, la cattedra di Padova era famosa in tutta Europa, gli studenti numerosi, quindi pensava di poter contare su un buon gettito per le sue lezioni private. Inoltre confidava in possibili futuri aumenti!
    Fresco di nomina, rientrò velocemente a Firenze per chiedere al granduca il permesso per espatriare, voleva essere lui a comunicarlo al principe per mantenere buone relazioni per il futuro e non chiudersi alcuna porta alle spalle.

  Alla fine del '500 l'università di Padova vantava, giustamente, una lunga tradizione, ed era famosa a livello internazionale. Fondata nel lontano 1222 da un gruppo di studenti scissionisti provenienti dalla altrettanto famosa università di Bologna, aveva mantenuto a lungo l'antica struttura, che attribuiva ampi poteri, massima libertà e autonomia agli studenti, i quali, fra l'altro come d'uso a quei tempi, sceglievano e pagavano da soli gli insegnanti. L'annessione della città alla Repubblica di Venezia (1405) aveva portato ad una progressiva erosione del potere degli studenti che era culminata nel 1517, quando l'università era diventata statale, e nel 1528 anno in cui, dopo un periodo di crisi, Venezia aveva istituito la Magistratura dei Riformatori dello studio, incaricata di scegliere i docenti.
    Di fatto all'epoca Venezia e il Granducato di toscana erano gli unici stati indipendenti della penisola. I Medici purtroppo per mantenere la loro indipendenza dovevano barcamenarsi fra Francia, Spagna e papato; mentre invece la repubblica veneta (che in realtà più che una repubblica era un'oligarchia plutocratica) poteva ancora lottare alla pari con gli altri stati europei. La tolleranza della Serenissima nei confronti degli studenti era giunta al punto che nel 1587, in pieno periodo di controriforma, fu loro garantita "l'immunità dalle molestie del clero", qui l'inquisizione non riuscirà mai a prendere piede, a dispetto dei vari tentativi dei gesuiti; unico vincolo tassativo: gli studenti non dovevano immischiarsi nella politica!  A Padova la libertà di religione non era un insieme di vuote parole, al punto che era stato istituito il "Collegio Veneto", ufficialmente per accogliere gli studenti poveri, ma in realtà per esentare i non cattolici dal giurare fedeltà al cattolicesimo presso il vescovo. Esempio eclatante è il fatto che in quel periodo gli ebrei d'Europa  solo a Padova potevano ottenere una laurea! Già da molti anni il metodo sperimentale, soprattutto in campo medico, veniva considerato il miglior metodo di insegnamento, al punto che oggi dobbiamo riconoscere come la medicina scientifica sia nata a Padova.

    L'anno accademico iniziava ufficialmente il 18 ottobre con le tradizionali cerimonie, le lezioni prendevano avvio il successivo 3 novembre, dopo che gli studenti, sempre secondo la tradizione, si erano organizzati in "nazioni". Galileo iniziò il suo insegnamento il 7 dicembre 1592; purtroppo la sua prolusione non ci è pervenuta, ma i commenti sulla stessa che ci sono giunti parlano di un esordio eccellente. A definire la prolusione di Galileo con le parole: "Exordium erat splendidum..." in una missiva ad uno sconosciuto amico tedesco, fu Gellio Sasceride, ex allievo di Tycho, il quale nel 1590 gli aveva inviato l'unica copia che raggiunse l'Italia di un suo libro in cui illustrava il sistema geoeliocentrico. Galileo, che come già detto, forse sperava di ottenere fama e ricchezza con un'idea abbastanza simile, abbandonò ogni velleità in campo astronomico.
    Molto tempo dopo, lo stesso Galileo definirà, probabilmente con piena ragione, gli anni trascorsi a Padova come "i migliori anni della mia vita". Quando a Padova iniziò la sua carriera di docente non aveva ancora 29 anni, aveva tante idee in testa, molta voglia di divertirsi, e soprattutto era ben cosciente dei suoi mezzi e mirava ad una rapida carriera. Già il primo anno, oltre a frequentare le giuste amicizie e le allegre brigate, passò molto tempo all'arsenale, che all'epoca era una struttura tecnologica d'avanguardia.
   A Galileo fu subito concesso il privilegio di insegnare "ad libitum", ma per il momento si mantenne ancora nei binari dell'ortodossia; i rotoli che contengono i programmi didattici dei suoi primi anni di insegnamento parlano di corsi sui testi Euclide; sulla "Sfera" del Scrobosco, (John of Holywood
[oggi Halifax], York, Inghilterra, fine secolo XII - Parigi 1246 o 1256) che da secoli costituiva il testo più usato nell'insegnamento dell'astronomia, oltre a corsi sull'almagesto di Tolomeo e le questioni meccaniche di Aristotele.
   I primi tempi sembra abbia alloggiato presso il Pinelli, ma ben presto affittò una piccola casa in proprio arredata con mobili usati che gli erano stati donati da un amico. Successivamente si trasferì in una casa più ampia in cui, oltre ad installare una piccola officina/laboratorio, poteva, secondo gli usi dell'epoca, ospitare studenti ai quali oltre a dare lezioni private forniva vitto e alloggio. Non smise per questo di frequentare il suo protettore; anzi, fu proprio in casa di Pinelli che Galileo incontrò Paolo Sarpi (1552 ~ 1623) teologo, già procuratore dell'ordine dei serviti, e successivamente rappresentante della Repubblica Serenissima nella disputa con il papato che porterà all'espulsione dei gesuiti; più tardi nella stessa casa fece la conoscenza con quel cardinale Roberto Bellarmino, oggi santo e dottore della chiesa, che avrà un peso determinante nella seconda parte della sua vita.
   L'attività scientifica di Galileo durante i primi anni padovani, fu quasi completamente assorbita da problemi tecnico/pratici. Probabilmente pressato dal desiderio e dalla necessità di far carriera, cercava di mettersi in mostra con le autorità della repubblica veneta. Già nel marzo del 1593 fu interpellato da Giacomo Contarini, provveditore all'arsenale, sull'utilità o meno di porre gli scalmi dei remi delle galere all'esterno delle fiancate. Dopo aver analizzato il remo come una leva il cui fulcro non era lo scalmo ma il mare, stabilì che la posizione degli scalmi non era rilevante, e l'unico vantaggio circa il porre i remi fuori dalle fiancate sarebbe stato il maggior spazio disponibile all'interno.
  
Nel frattempo aveva lavorato ad una serie di dispense per lezioni private ai suoi studenti: "Le Meccaniche", in cui analizzava i principi di quelle che oggi vengono definite le macchine semplici, la leva, l'argano, le carrucole, la vite, la coclea, e "la forza della percossa". In questo opuscolo, discutendo sull'equilibrio dei corpi, introduceva alcune idee di base che anticipavano, in forma embrionale, il principio di conservazione dell'energia, sostenendo che le macchine non aumentano il lavoro dell'uomo, ma possono soltanto diluirlo nel tempo.
    Redatto in una prima versione nel 1593, "Le meccaniche" fu ampliato e  riveduto l'anno successivo, ma la versione definitiva probabilmente non è anteriore al 1600. In questo testo, più tecnico che scientifico, si evidenzia chiaramente il metodo di indagine di Galileo, il quale non sarà mai uno scienziato teorico, ovvero la sua indagine sui principi e sulle cause inerenti i fenomeni naturali, avrà sempre come punto di partenza l'analisi di fatti tangibili e verificabili.
    Mentre l'altro grande contemporaneo,
Giovanni Keplero, spendeva gran parte della sua vita nel ricercare le leggi su cui si reggeva l'universo partendo da presupposti mistici o armonico-fantastici, Galileo rimarrà costantemente con i piedi ben piantati per terra!
    Nello stesso periodo in cui procedeva alla stesura delle "Meccaniche" si occupava anche di architettura militare con due piccoli trattati.
    Come già detto, per arrotondare i suoi magri guadagni Galileo ospitava, a pagamento, diversi studenti, ma i soldi non bastavano mai. Dalla morte del padre doveva occuparsi dell'intera famiglia; la sorella Virginia nel frattempo era andata sposa ad un tal Benedetto Landucci nel 1591 e, in seguito alla morte del genitore, Galileo aveva dovuto assumersi l'onere del saldo della dote. Già in una lettera datata 29 maggio 1593, a soli sei mesi dalla sua prolusione, la madre, venuta a conoscenza delle intenzioni di Galileo di tornare a Firenze per le vacanze al termine dell'anno accademico,  gli scriveva:

...al quel che io intendo, volete venir qua quest'altro mese, harò caro e mi sarà contento grandissimo; ma venite provisto, perchè, a quel io vedo, Benedetto vole il suo, ciò quel che gli avete promisso, e minaccia fortemente di farvi pigliare subito che arriverete qua. Per quel che io intendo, esendo di patti e così obbligato, debbe potere; però sarà persona per farlo: però vi fo avisato, perché a me non sarà altro che dispiacere. ...

   Nel frattempo aveva dovuto aiutare il fratello Michelangelo partito per la Polonia dove Galileo gli aveva trovato un posto di musicista presso il nobile palatino Cristoforo Radziwill, posto che purtroppo non conserverà! Livia, la sorella più giovane, entrerà a spese del fratello nel convento di S. Giuliano che lascerà nel 1600 chiedendogli di fornirle la dote per maritarsi. Il promesso sposo, Pompeo Baldi, non avrà le simpatie di Galileo, e Livia andrà sposa a Taddeo Galletti l'anno successivo.
    Nel settembre del '93 Guidobaldo Del Monte, che stava scrivendo un trattato sulla prospettiva, invitò Galileo a fargli visita; infatti l'estate successiva Galileo, che aveva ottenuto dalla Serenissima un brevetto per un impianto di sollevamento delle acque, si recò dall'amico benefattore, ed è probabile che i due oltre a parlare della coclea su cui Guidobaldo successivamente scriverà un trattato, abbiano discusso di ottica, argomento di rilevante importanza per la prospettiva.
   Nei taccuini di Paolo Sarpi del 1595 è registrata, in forma molto sintetica, una nuova teoria sulle maree che lo stesso Sarpi non rivendicherà mai. Quasi certamente l'idea era di Galileo che in seguito la sviluppò notevolmente, anzi, sarà una di quelle speculazioni
[errate] di cui andrà particolarmente fiero. La teoria in questione, come vedremo più avanti, presupponeva la completa accettazione del sistema copernicano. Per quanto ne sappiamo, allora Galileo si occupava solo marginalmente di astronomia, quindi per il momento preferì tenerla per sé; ne scriverà solo molto più tardi, quando ormai si sarà pubblicamente dichiarato seguace di Copernico. Infatti nel suo "Trattato della Sfera ovvero Cosmografia" le cui bozze probabilmente sono anteriori al periodo pisano, ma del quale rimangono solo poche copie risalenti al 1602/1606 dichiara ancora che sebbene molti (!) grandi matematici e astronomi abbiano attribuito dei movimenti alla terra, lui si atterrà all'opinione corrente.

    Nel 1596 Galileo scrisse il suo primo trattato sulla valutazione delle distanze e delle altezze mediante uno attrezzo di puntamento che lui stesso aveva realizzato nei due anni precedenti sull'orma di due strumenti simili, ma alquanto primitivi, realizzati dal Tartaglia e usati: uno per valutare l'alzo dei cannoni, l'altro per stabilire la distanza e il dislivello del bersaglio. L'invenzione di Galileo rielaborata profondamente negli anni successivi diventerà quel "compasso geometrico militare" che gli porterà un certo successo.
    L'insegnamento a Padova, all'inizio era limitato a sole due ore alla settimana, perciò Galileo, scapolo trentenne, disponeva di parecchio tempo libero utilizzato non solo per i suoi studi, ma anche per coltivare utili relazioni e darsi alla vita gaudente. Non disponendo di molti quattrini, supplisce con un notevole fascino personale che sa usare al meglio. Venezia è ad un tiro di schioppo, e non perde occasione per arrivarci e frequentare sia le persone che contano che le allegre comitive. In particolare, fin dal 1597, s'era fatto amico di Francesco Sagredo, intelligente e facoltoso suo allievo, questi, più giovane del maestro di soli sette anni, verrà immortalato nel "dialogo". Sagredo stesso si autodefinisce in questi termini:

"Io son gentiluomo veneziano, nè spesi mai nome di letterato; portai ben affetto e tenni sempre la protezione dei letterati, nè intendo avvantaggiar le mie fortune, acquistarmi lodi e riputazione dalla fama della intelligenza della filosofia e matematica, ma piuttosto dalla integrità e buona amministrazione de' magistrati, e nel governo della Repubblica, al quale nella mia gioventù mi applicai, seguendo la consuetudine de' miei maggiori, che tutti in quella si sono invecchiati e consumati. Versano i miei studi circa la cognizione delle cose che come cristiano devo a Dio, come cittadino alla patria, come nobile alla mia casa, come sociabile agli amici, e come galantuomo e vero filosofo a me stesso. Spendo il mio tempo in servire a Dio e alla patria, ed essendo libero dalle cure familiari, ne consumo buona parte nella conversazione, servizio e soddisfazione degli amici, e tutto il resto lo dedico alla comodità e gusti miei; e se talvolta mi do alla speculazione delle scienze, non creda V. S. ch'io mi presuma concorrente co' professori di quelle, indagando liberamente, sciolto da ogni obbligazione ed affetto, la verità di alcuna proposizione che sia di mio gusto."

   I due, oltre all'affinità in campo intellettuale, sono uniti anche nell'escogitare burle e scherzi memorabili; famosa la burla a scorno dei gesuiti di Ferrara: in cui spacciandosi per una ricca vedova scrivono ai religiosi una serie di pie lettere nelle quali, oltre a chiedere consigli di carattere religioso, chiedono suggerimenti su come far testamento e, ovviamente, ricevono regolari risposte... La cosa si trascinerà per diversi mesi!  In un'altra occasione inviano una lettera a diversi matematici chiedendo suggerimenti su come risolvere un problema tranello, inducendo i supposti esperti a madornali errori.
    Arriviamo così al 1597; in quel periodo Jacopo Mazzoni, filosofo, amico ed ex collega di Galileo a Pisa, aveva scritto un testo in cui confrontando le filosofie di Platone e Aristotele aveva espresso quella che secondo lui era una dimostrazione che la teoria di Copernico era sbagliata. Galileo in una diplomatica risposta, datata 30 maggio 1597, arrivò ad esprimersi in questi termini:

   "... Ma, per dir la verità, quanto nelle altre conclusioni restai baldanzoso, tanto rimasi nel primo affronto, confuso e timido, vedendo V. S. Eccellentissima tanto resoluta e francamente impugnare la opinione de i Pitagorici e del Copernico circa il moto e sito della terra; la quale sendo stata da me tenuta per assai più probabile  dell'altra di Aristotele e di Tolomeo,  ..."

    E' questo il primo scritto in cui Galileo si dichiara apertamente e pubblicamente copernicano, ma stava scrivendo ad un amico, ed era sicuro che certe sue opinioni non sarebbero state messe in piazza.
    Nel frattempo un altro giovane transalpino, sette anni più giovane, e alquanto più squattrinato e derelitto dello stesso Galileo, ma dotato di pari se non maggior intelligenza e fantasia, aveva dato corpo a certe sue elucubrazioni mistico/scientifiche in un volumetto in cui sosteneva senza mezze misure la teoria di Copernico. Keplero aveva pubblicato il suo "
Prodromus dissertationum cosmographicarum continens Mysterium Cosmographicum" e ne aveva inviato un paio di coppie in Italia tramite Paul Hamberger. Queste copie finirono nelle mani di Galileo, il quale dopo una sommaria occhiata alla prima parte, si affrettò a rispondere al giovane insegnante di Graz in termini entusiastici. E' bene ricordare che la prima parte del "Mysterium Cosmographicum" rappresentava il miglior sostegno mai scritto fino a quel momento sulla teoria di Copernico. Fra l'altro, sempre nella prima parte, Keplero affermava giustamente che gli epicicli dei pianeti superiori, Marte, Giove e Saturno, non erano altro che la proiezione dell'orbita terrestre vista dai medesimi pianeti.
    La Lettera di Galileo a Keplero, scritta in ringraziamento del gradito dono del "Mysterium" su pressione dello stesso Hamberger che doveva ritornare in patria al più presto, porta la data del 4 agosto 1597; prima di allora nessuno dei due era a conoscenza dell'esistenza dell'altro, anche se entrambi erano, più o meno privatamente, convinti della superiorità del sistema copernicano su quello tolemaico. In questa lettera Galileo dopo essersi dichiarato copernicano convinto da molti anni e felice di aver trovato un compagno di idee affermava:

Di questa lettera, scritta in latino, ho scelto un brano da una traduzione che, a mio giudizio, sembra avvicinarsi maggiormente al reale pensiero dell'originale.
I commenti in corsivo sono personali!
Riporto di seguito il testo originale dal Vol X° dell'edizione nazionale delle opere a cura di A. Favaro.
Librum tuum, doctissime vir, a Paulo Ambergero ad me missum, accepi non quidem diebus, sed paucis abhinc horis: cumque idem Paulus de suo reditu in Germaniam mecum verba faceret, ingrati profecto animi futurum esse existimavi, nisi hisce literis tibi de munere accepto gratias agerem. Ago igitur, et rursus quam maximas ago, quod me tali argumento in tuam amicitiam convocare sis dignatus.
Ex libro nihil adhuc vidi nisi praefationem, ex qua tamen quantulumcunque tuam percepi intentionem: et profecto summopere gratulor, tantum me in indaganda veritate socium habere, adeoque ipsius veritatis amicum. Miserabile enim est, adeo raros esse veritatis studiosos, et qui non perversam philosophandi rationem prosequantur. At quia non deplorandi nostri saeculi miserias hic locus est, sed tecum congratulandi de pulcherrimis in veritatis confirmationem inventis, ideo hoc tantum addam, et pollicebor me aequo animo librum tuum perlecturum esse, cum certus sim me pulcherrima in ipso esse reperturum. Id autem eo libentius faciam, quod in Copernici sententiam multis abhinc annis venerim, ac ex tali positione multorum etiam naturalium effectuum caussae sint a me adinventae, quae dubio procul per comunem hypothesim inexplicabiles sunt. Multas conscripsi et rationes et argumentorum in contrarium eversiones, quas tamen in lucem hucusque proferre non sum ausus, fortuna ipsius Copernici, praeceptoris nostri, perterritus, qui, licet sibi apud aliquos immortalem famam paraverit, apud infinitos tamen (tantus enim est stultorum numerus) ridendus et explodendus prodiit. Auderem profecto meas cogitationes promere, si plures, qualis tu es, exstarent: at cum non sint, huiusmodi negotio supersedebo.
Temporis angustia et studio librum tuum legendi vexor: quare huic finem imponens, tui me amantissimum atque in omnibus pro tuo servitio paratissimum exibeo. Vale, et ad me iucundissimas tuas mittere ne graveris.
Dabam Patavii, pridie nonis Augusti 1597.
Honoris et nominis tui amicissimus
Galileus Galileus
in Academia Pat.na Mat.cus

"... e da tale posizione (copernicanesimo) ho scoperto anche le cause di molti effetti naturali che senza dubbio sono inspiegabili per mezzo delle ipotesi comuni (tolemaiche). Ho scritto molte ragioni e confutazioni degli argomenti contrari (probabilmente si riferisce ai suoi "commentari sull'almagesto di Tolomeo" purtroppo perduti...), che tuttavia fino ad ora ho preferito non pubblicare spaventato dalla fortuna del nostro maestro Copernico, il quale, benché abbia acquistato fama immortale presso alcuni, è tuttavia deriso e disapprovato da infiniti (tale è infatti il numero degli stolti). ..."

  Appare evidente e incontestabile la fede copernicana di Galileo già nel 1597, ma altrettanto evidente è la preoccupazione di non sbandierare ai sette venti le sue convinzioni. All'epoca era docente di matematica a Padova da meno di cinque anni, e il suo incarico era in scadenza, per cui non aveva nessuna intenzione di rischiare il posto assumendo atteggiamenti contrari al senso comune e soprattutto inconcepibili per i suoi datori di lavoro, perciò ne parlò solo con un amico e con un giovane straniero, all'epoca perfettamente sconosciuto. Inoltre per il momento non si interessava di astronomia in modo approfondito, i suoi interessi principali convergono quasi esclusivamente sulla meccanica e non aveva tempo da dedicare ad altri problemi.
    Probabilmente e inevitabilmente, il "Mysterium" non piacque per niente a Galileo, troppe ipotesi mistiche, troppi discorsi neoplatonici e teologici, e pochi esperimenti pratici.
Ciò non gli impedirà di utilizzarne alcuni dati per un tentativo di valutazione delle distanze dei pianeti, e, molti anni dopo in una lettera al successore  di Paolo Sarpi,
Fulgenzio Micanzio (1570 ~ 1654) datata: Arcetri, 19 novembre 1634, di giudicare il Kelero, quando questi era già morto da tre anni e quindi non c'erano motivi di rivalità o interesse, in questi termini:

"...ho stimato sempre il Keplero per ingegno libero (e forse troppo) e sottile, ma che il mio filosofare è diversissimo dal suo, e che può essere che scrivendo delle medesime materie, solamente però circa i movimenti celesti, habbiamo talvolta incontrato in qualche concetto simile, se ben pochi, onde habbiamo assegnato di alcuno effetto vero la medesima ragion vera; ma questo non si verificherà di uno per cento dei miei pensieri. ..."

    Insomma, secondo Galileo, Keplero guarda talmente in alto ed è talmente impegnato a cercare un'armonia universale da non vedere il sentiero su cui sta camminando; perciò pur rispettandolo, preferirà sempre, mantenere una certa distanza. I due sono troppo diversi, Keplero era un introspettivo idealista, Galileo era un arrivista e un uomo essenzialmente pratico. Gli scritti del primo erano talmente introversi da risultare di difficile comprensione anche per gli addetti ai lavori, mentre il secondo era un divulgatore eccezionale e riusciva a farsi capire benissimo anche da chi non era un esperto.
    Due mesi dopo Keplero rispose a Galileo chiedendo, fra l'altro, se disponeva di uno strumento atto a superare in precisione 1' di arco nelle misure degli angoli, probabilmente cercava di misurare la parallasse annuale di qualche stella per avere la prova inconfutabile del sistema copernicano; ma Galileo allora non si occupava gran ché di Astronomia, perciò lasciò cadere il discorso, e per dodici anni i due non avranno più contatti; soprattutto per l'intero periodo Galileo si occuperà di astronomia solo in rare occasioni e più su questioni di metodo che altro.
   Secondo quanto lo stesso Galileo scriverà molti anni più tardi, fu durante le sue escursioni in battello da Padova a Venezia che notò come l'acqua che impregnava la sabbia trasportata sui barconi, quando i natanti rallentavano si accumulava a prua e quando gli stessi acceleravano si accumulava a poppa. Partendo da questa constatazione e dalla teoria copernicana del moto terrestre attorno al sole e di rotazione attorno al suo asse polare, ideò la sua teoria delle maree. In pratica Galileo aveva applicato il principio di inerzia senza definirlo chiaramente, e pur adottando lo stesso principio più volte nel corso delle sue indagini scientifiche non arriverà mai a formalizzarlo in modo completo. Combinando i moti di rotazione e di rivoluzione della terra, stabilì che
la velocità di un punto sulla superfice terrestre era massima in MG e minima in in MN, per cui da MG a MN l'acqua tendeva a portarsi in avanti rispetto alla rotazione terrestre, mentre il contrario avveniva quando la terra ruotava da MN a MG. Ovvio che in questo modo si avrebbero una sola alta marea e una sola bassa marea al giorno, ma è altrettanto chiaro il tentativo di spiegare il fenomeno in base a chiare esperienze fisiche.
    Nel frattempo Galileo aveva realizzato il suo "Compasso Geometrico Militare" anche se continuerà a migliorarlo (la versione definitiva risale all'anno successivo); perciò spese gran parte del 1598 a redigerne il manuale per l'uso. L'attrezzo in questione del compasso aveva solo la forma e oggi verrebbe probabilmente definito come "un regolo calcolatore multiuso". Forse fu proprio per avviare una "produzione commerciale" del compasso che nel luglio del 1589 prese presso di sé Marcantonio Mazzoleni, un abile artigiano che già da tempo svolgeva per lui diversi lavori e al quale Galileo oltre a fornire vitto e alloggio per lui e famiglia elargiva un piccolo compenso annuale in aggiunta ad una quota su ogni compasso prodotto. A conti fatti il "compasso" non doveva fruttare gran ché sul piano economico, ciò che sicuramente portò un certo vantaggio, furono le lezioni private sull'uso dello strumento che Galileo impartì negli anni seguenti ad un certo numero di studenti interessati, ai quali naturalmente  forniva anche vitto e alloggio.
    L'incarico di docente era scaduto a settembre 1598, ma probabilmente i notabili veneziani non avevano alcuna fretta di rinnovarlo, visto che al momento Galileo era un ottimo professore a basso costo. Nel corso del 1599 Galileo mosse mari e monti per ottenere la conferma dell'incarico e un sostanzioso aumento di stipendio, al punto che in ottobre ottenne la sospirata conferma con uno stipendio di 320 fiorini, quasi il doppio dello stipendio precedente. In proposito esiste un aneddoto abbastanza curioso che vale la pena di ricordare, se non altro per mostrare quale fosse il grado di tolleranza della repubblica veneta nei confronti dei suoi dipendenti. Un collega o concorrente di Galileo cercò di osteggiarne il reincarico adducendo come pretesto il fatto che questi avesse un'amante. Gli fu risposto che proprio per tale motivo, dovendo il Galileo provvedere ad una donna necessitava di un stipendio più elevato.
    L'amante in questione era Marina Gamba figlia di Antonio da Venezia. Marina, donna semplice e di umili origini, viene in genere presentata come procace, appariscente  e dotata di calda sensualità, per Galileo fu forse la compagna ideale. La relazione tra i due non sfocerà mai nel matrimonio, lui non ne voleva sapere, ma pur non coabitando resteranno uniti fino a quando Galileo non lascerà Padova per Firenze nel 1610. In questo periodo Marina darà a Galileo tre figli, Virginia nel 1600, Livia nel 1601 e Vincenzo nel 1606.
    Il 13 gennaio 1600 Tycho
Brahe scrisse a Pinelli nel tentativo di entrare in corrispondenza con Galileo, e lo informò dell'arrivo a Padova del suo giovane assistente e futuro genero Francis Tengnagel. Nello stesso periodo Tycho, che dopo la sua cacciata/fuga dall'isola di Hveen e alcuni anni di vagabondaggio attraverso l'Europa, aveva trovato sistemazione presso Rodolfo II° a Praga, aveva scritto anche a Keplero invitandolo a raggiungerlo, cosa che Keplero stava già facendo senza aver ricevuto la lettera in questione, in quanto disoccupato e ed espulso dalla Stiria perché protestante, e quindi alla disperata ricerca di una sistemazione.
    A quanto pare ne il grande Tycho, e tanto meno lo junker Tengnagel, conquistarono la simpatia di Galileo, al punto che Tengnagel si rivolse al Magini a Bologna. Tycho non si arrese, e il 4 maggio scrisse direttamente a Galileo, ma questi non era certo nelle condizioni quasi disperate di Keplero e soprattutto era di tutt'altra tempra, per cui trascurò completamente gli inviti del danese.
   Nonostante l'aumento di stipendio ottenuto in seguito al reincarico, negli anni successivi al 1600 Galileo incontrò varie difficoltà economiche, quasi tutte causate dai suoi familiari. In una lettera inviata alla madre il 25 agosto 1600, spiega come dovendo aiutare il fratello Michelangelo a tornare in Polonia, non può al momento soddisfare le pretese della sorella Livia, la quale desidera che il il fratello le fornisca una congrua dote al fine di permetterle di uscire dal convento e maritarsi. L'anno successivo, Livia si sposò in pompa magna con con
Taddeo Galletti a spese del fratello maggiore. Le spese per il matrimonio e la forse troppo generosa dote fornita a Livia (1800 scudi, 800 subito e il resto a rate) prosciugarono letteralmente le finanze di Galileo, al punto che il fratello Michelangelo arrivò a scrivergli:

... Bisognava dar la dote alle sorelle non conforme al vostro animo solamente, ma ancora conforme alla mia borsa. ...

    Ma ormai non restava che onorare gli impegni.
   Molto probabilmente Galileo credeva all'astrologia solo quando gli faceva comodo o era afflitto da qualche disturbo al quale i medici di allora non sapevano porre rimedio; non c'è quindi da meravigliarsi troppo se parecchi dei suoi oroscopi (... a pagamento!...) risalgono a questo periodo. Nel contempo incrementò notevolmente i suoi corsi privati sulle "Fortificazioni", l'uso del suo compasso e la Cosmografia; ma non riuscì a coprire i suoi debiti, al punto che da una sua lettera ai provveditori dello studio patavino risalente al maggio 1602, apprendiamo come fosse costretto a richiedere due anni di stipendio anticipato al fine di far fronte agli impegni più immediati. Sempre nel corso del 1602 elaborò l'ultima versione delle sue "Meccaniche" che dimostrano come i suoi studi sul moto non erano mai stati abbandonati.
    Da alcuni fogli risalenti a quel periodo, si evidenzia come si fosse proposto di valutare la possibilità che i pianeti conservassero lo stesso momento nel loro percorso intorno al sole. Probabilmente l'idea gli era venuta dal capitolo del "Mysterium" di Keplero in cui questi ipotizzava che la velocità dei pianeti attorno al sole fosse inversamente proporzionale alla distanza dallo stesso. Certamente Galileo parlò della sua idea agli amici e conoscenti. Uno di questi, Edmondo Bruce, gentiluomo inglese amico di Keplero, si affrettò a scrivere all'autore del Mysterium per informarlo, erroneamente, che Galileo stava spacciando per proprie le sue idee. (In realtà Keplero parlava di distanze, Galileo di "momenti") - Comunque Galileo si accorse ben presto che i conti non quadravano e abbandonò, temporaneamente, le sue teorie.
    Secondo Stillman Drake, docente di "Storia della scienza" a Toronto e, a mio parere, uno dei migliori studiosi dell'opera di Galileo, è a questo periodo che risale il primo risultato teorico corretto circa i moti accelerati, Stilmann definisce questo risultato, probabilmente con piena ragione, "Il teorema di Galileo". Si tratta della constatazione che, trascurando gli attriti, il tempo impiegato da un mobile a percorrere un certo spazio lungo un piano inclinato è identico al tempo che un corpo in caduta libera impiega a percorrere verticalmente l'ipotenusa di un triangolo rettangolo avente come cateto lo spazio percorso dal mobile sul piano inclinato, cioè,  facendo riferimento alla figura a lato, un mobile libero da vincoli, percorre la verticale AB e gli spazi AD o AC in tempi uguali. Questo "teorema", che quasi certamente era il risultato di una lunga serie di esperimenti, è contenuto in una lettera datata 29 novembre 1602 indirizzata da Galileo a Guidobaldo dal Monte e che comprende anche una chiara enunciazione della legge del pendolo, (...non la dimostrazione...) mostra come già prima della fine del 1602 le indagini di Galileo sui piani inclinati e sulla caduta dei gravi fossero in fase avanzata, anche se ancora non era giunto alla legge generale e ancora prendeva in considerazione la velocità e non l'accelerazione.
   Gli anni 1603/4 probabilmente furono gli anni cruciali per l'indagine sul moto dei corpi in caduta libera. Nonostante i numerosi fogli di appunti che Galileo ci ha lasciato, fogli sparsi e purtroppo non datati, è difficile ricostruirne l'evoluzione delle indagini e degli esperimenti che lo stesso svolse in quel periodo. E' certo che la mole di esperimenti realizzati per indagare le leggi del moto fu veramente enorme, e la cura e la precisione nell'esecuzione degli stessi fu oltremodo eccezionale per l'epoca. Per prima cosa Galileo aveva introdotto delle unità di lunghezza, tempo e peso, da lui stesso definite "Punti" , "Tempi" e "Grani", per poter effettuare esperimenti confrontabili, quindi aveva pian piano realizzato diversi "orologi ad acqua" sempre più precisi che gli permettevano di raggiungere una eccellente precisione nella misura delle durate.
    Altro passo fondamentale era stato quello di mettere in discussione l'idea, allora corrente, secondo cui l'accelerazione dei corpi in caduta libera cessasse quando il grave raggiungeva una certa velocità, sostenendo correttamente che l'accelerazione durava per tutto il tempo di caduta.
    Già il 16 ottobre 1604 in una lettera a Paolo Sarpi fra le altre cose Galileo affermava testualmente:

  Ripensando circa le cose del moto, nelle quali, per dimostrare li accidenti da me osservati, mi mancava principio totalmente indubitabile da poter porlo per assioma, mi son ridotto ad una proposizione la quale ha molto del naturale et dell'evidente; et questa supposta, dimostro poi il resto, cioè gli spazzii passati dal moto naturale esser in proporzione doppia dei tempi, et per conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come i numeri impari ab unitate, et le altre cose. ...

   Questo enunciato, perfettamente corretto, contenuto nella prima parte della lettera, lascerebbe intendere quindi che Galileo fosse già arrivato ad una chiara definizione della legge sulla caduta dei gravi; ma nella stessa lettera, passando ad analizzare il variare della velocità, prosegue:

   Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto; come, v. g., cadendo il grave dal termine a per la linea abcd, suppongo che il grado di velocità che ha in c al grado di velocità che hebbe in b esser come la distanza ca alla distanza ba, et così conseguentemente in d haver grado di velocità maggiore che in c secondo che la distanza da è maggiore della ca. ...

  Recentemente, (vedi “Le Scienze” N°415 - marzo 2003) un metodo di analisi non distruttivo degli inchiostri, ha permesso di correlare gli appunti scientifici di Galileo alle sue “note di spesa” scritte con lo stesso inchiostro. Queste regolarmente datate, forse permetteranno di stabilire un corretta cronologia e ricostruire l’evoluzione del pensiero sulle leggi del moto del grande pisano.

   Cioè afferma che la velocità del mobile in caduta libera è proporzionale agli spazi percorsi. Affermazione inequivocabilmente sbagliata! Come oggi sappiamo, la velocità è proporzionale al tempo, o, volendo esprimerla in funzione dello spazio, la velocità risulta proporzionale alla radice quadrata dello stesso. Questo tuttavia nulla toglie alla validità dell'enunciato che gli spazi percorsi sono proporzionali al quadrato dei tempi (...cioè gli spazzii passati dal moto naturale esser in proporzione doppia dei tempi...). Evidentemente Galileo basandosi sui suoi ripetuti esperimenti corretti, era inevitabilmente giunto alla giusta conclusione. I numerosissimi appunti su fogli sparsi lasciano solo intravedere l'enorme mole di prove e verifiche cui era ricorso per ricavare sia il principio errato che la legge giusta.
    Nel 1603 fu colpito, a quanto ne sappiamo per la prima volta, da quei dolori artritici che non lo abbandoneranno per tutta la vita. La primavera successiva ricevette una delle solite visite della madre, con tutta probabilità calata a Padova per "batter cassa".
    L'assidua presenza di Marina Gamba con le figlie in casa Galilei, deve aver peggiorato non poco il già pessimo carattere di Giulia, al punto che il 21 aprile, sotto le feste pasquali, al tribunale patavino del Sant'ufficio, pervenne una denuncia contro "el signore Galileo Galilei mathematico pubblico nel studio di Padova" . Benché le accuse fossero abbastanza vuote nel contenuto, (Galileo era imputato di fare oroscopi a pagamento e di condurre una vita privata non proprio edificante) avrebbero potuto creare a chiunque seri problemi in uno stato meno tollerante della Repubblica Serenissima. Certamente il fatto che l'accusatore, tale Silvestro Pagnoni, affermasse che il mandato di spiare Galileo gli venisse dalla madre di quest'ultimo, Giulia Ammanati, non contribuì ad alleggerire la situazione.
   Probabilmente quando nel 1604, ai primi di ottobre apparve una nuova stella molto luminosa nella costellazione di Ofiuco, pochi si ricordavano della "stella nova" annunciata da Tycho nel lontano 1572. E' vero che qualche anno prima, nel 1586, David Fabricius (1564 ~ 1617) aveva annunciato l'apparizione di una nuova stella nella costellazione della Balena, (in realtà si trattava di "Mira Ceti" una stella variabile tra la terza e la nona magnitudine, che quindi é spesso al di sotto del limite di visibilità ad occhio nudo, questo Fabricius non poteva saperlo!) ma si trattava di una stellina poco appariscente, quindi non aveva sollevato molto scalpore.
    La nuova stella del 1604 (oggi nota come "la supernova di Keplero"... e purtroppo fino ad ora risulta essere anche l'ultima supernova galattica!...), se era veramente una stella, rappresentava un ulteriore colpo alla tradizionale teoria aristotelica della perfezione e immutabilità dei cieli; quindi non furono pochi coloro che, ancora una volta, non ritennero il nuovo astro un oggetto celeste ma un fenomeno atmosferico.
    A quanto è dato sapere, la "nova stella" era stata osservata a Padova il dieci ottobre da Simon Marius (Simon Mayr 1573 ~ 1624) (personaggio che ritroveremo ancora) e dal suo allievo Baldassar Capra. Le osservazioni incrociate, eseguite a Padova e a Verona, permisero di stabilire la mancanza di parallasse e quindi che la "nova" era sicuramente più lontana della luna, probabilmente lontana almeno quanto Giove o Saturno se non di più. Come si può facilmente intuire, il fatto sollevò un notevole scalpore, e sull'argomento Galileo tenne tre pubbliche lezioni, delle quali non è rimasto che qualche piccolo frammento. Cesare Cremonini (1550 ~ 1631) docente di filosofia, amico di Galileo (i due a suo tempo si erano reciprocamente prestati del denaro!) e illustre arciconvinto aristotelico, rifiutò categoricamente di credere che la nuova stella fosse posizionata oltre l'orbita della luna e chiese a Galileo di spiegagli in che cosa consistesse la parallasse poiché intendeva screditarne il concetto per mezzo di un trattato! (Confutare un argomento di cui non si sa nulla!... Al giorno d'oggi  se il Cremonini si desse alla politica avrebbe innanzi a sé una luminosa carriera!...). Verso metà novembre la nuova stella si era a trovata in congiunzione con il sole, e quindi divenne inosservabile.
    Quando, sotto Natale, ridivenne visibile, la sua luminosità era diminuita notevolmente. Galileo ritenne che la riduzione della luminosità dipendesse da un aumento della distanza fra la terra e la stella causato, a suo parere, dal fatto che la stella si stava allontanando dalla terra, probabimente per effetto del moto di rivoluzione della terra attorno al sole. Questo discorso supponeva che la luminosità della stella fosse costante, cosa niente affatto provata, ma fino ad allora nessuno aveva mai accennato a stelle di luminosità variabile. Ad ogni modo l'ipotesi che la stella si stesse allontanando per moto proprio o che l'allontanamento della stessa fosse dovuto al moto terrestre, fece nascere in Galileo l'idea, peraltro non nuova, di misurare la parallasse della stella a sei mesi di distanza. L'idea in sé era buona e il metodo proposto perfettamente razionale, ma le distanze in gioco erano infinitamente più grandi di quanto Galileo potesse supporre, e con i primitivi mezzi di cui disponeva evidentemente era impossibile ottenere delle misure sufficientemente precise.
    Intanto nel gennaio 1605 Antonio Lorenzini (1540 ~ ?)  amico del Cremonini, aveva pubblicato un "Discorso" sulla nuova stella in cui esaminava le divergenze fra "Filosofi" e "Matematici", i cui rappresentanti più in vista a Padova erano, manco a dirlo,  Cremonini e Galileo. Il Lorenzini naturalmente si schierava dalla parte dei "Filosofi", anzi, sembra addirittura che qualche capitolo del "Discorso" in questione fosse scritto direttamente dal Cremonini.
    Con ogni probabilità questa volta a Galileo saltò letteralmente "la mosca al naso"; tramite un suo allievo, il benedettino Girolamo Spinelli (1580 ~ 1647) rispose con un libello in dialetto padovano, quindi indirizzato esclusivamente ai suoi concittadini, il "Dialogo de Cecco di Ronchini da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova". Nel "Dialogo" due contadini, Matteo per i matematici e Natale per i filosofi, discutono della questione.
Alle osservazioni del filosofo Natale, secondo il quale i matematici non potevano arrogarsi il diritto di collocare la nuova stella  accanto alle altre nei cieli perfetti e immutabili, il matematico Matteo risponde in gergo dialettale, mettendo in ridicolo la pretesa dei filosofi di risolvere problemi astronomici facendo ricorso alla metafisica, e arriva ad affermare: "...é un filosofo?... Ebbene, che c'entra la sua filosofia col misurare?..."; quando Natale osserva che secondo la filosofia corrente, è basilare  ritenere che i cieli siano immutabili e incorruttibili, e quindi il nuovo oggetto non può essere parte degli stessi, Matteo risponde che ai matematici non importa se i cieli siano corruttibili o no, se anche la nuova stella fosse fatta di polenta, loro potrebbero benissimo misurarne la posizione, e a rincarare la dose aggiunge:"mi fa proprio ridere con queste sue ciarle!", in risposta Natale osservava che se le misure dimostrassero che veramente il nuovo oggetto é una stella, allora "tutta la filosofia sarebbe una baia!" Naturalmente Matteo non si lascia sfuggire l'occasione per osservare sarcasticamente: "Cànchero, l'ha avuto torto questa stella a rovinare così la filosofia di costoro".
    Nella prima versione di questo dialogo, pubblicata a Padova nel mese di febbraio, erano contenute due postille a sostegno del copernicanesimo; quando, dopo alcuni mesi, ne venne stampata a Verona una nuova edizione, queste postille divennero sarcasmi contro gli stessi copernicani. Sembrerebbe abbastanza logico pensare che il mancato ritorno della della stella alla luminosità originale e l'impossibilità di misurarne la parallasse abbiano indotto Galileo a ripiegare, almeno per il momento, sul sistema ticonico; ma non è impossibile che le postille, o almeno la revisione delle stesse, siano commenti personali dello Spinelli.
    Verso la fine del 1605, Ludovico Delle Colombe (1565 ~ 1615?) filosofo e poeta dell'Accademia Fiorentina, pubblicò un "Discorso" in cui affermava che esistevano innumerevoli stelle troppo deboli per essere viste, e che la "nuova stella" non era per niente "nuova", ma era sempre stata dove era apparsa ed era stata resa visibile dal fatto che una qualche "sfera eterea" presentava un leggero rigonfiamento facente funzione di lente. Nel giugno successivo fu stampato a Firenze un opuscolo piuttosto sarcastico, in risposta al "Discorso" del Delle Colombe; le "Considerazioni di Alimberto Mauri sopra alcuni luoghi del discorso di Ludovico Delle Colombe intorno alla stella apparita nel 1604" in cui si dimostrava che un'eventuale "lente eterea" avrebbe reso visibile la nuova stella per decine di anni e non soltanto due; e poiché il Delle Colombe aveva sostenuto che gli epicicli in realtà non esistevano, si burlavano i filosofi, i quali quando aveva fatto loro comodo li avevano accettati, e ora li rifiutavano senza preoccuparsi di spiegare i moti a volte diretti e a volte retrogradi dei pianeti. Il povero Delle Colombe per più di un anno cercò di rintracciare quel Mauri senza cavare un ragno dal buco, anche se sospettava, quasi certamente con piena ragione, che l'autore in questione fosse Galileo. In effetti lo stile e il metodo razionale di analizzare la questione sono tipicamente galileani, anche se non c'è alcuna prova, oggi la stragrande maggioranza degli esperti concorda nell'attribuire le "Considerazioni" a Galileo. Probabilmente la miglior conferma ci viene da una lettera del Delle Colombe a Galileo datata 24 giugno 1607, che superficialmente potrebbe essere intesa come lettera di scuse. In essa si legge:

È vero che ne' primi giorni, che uscì fuora l'invettiva fatta dal Mauri contro il mio Discorso, io sospettai, per certo romore e conghietture che poi riusciron vane, che V. S. havesse parte in quella con esso lui; ma l'Eccellente Sig.r Gio, Bat.a Amadori, per sua grazia, mi accertò, dal detto di V. S. non esser così in modo veruno: di che io rimasi appagato molto, sapendo lui non esser men veritiero, che amico a V. S. e a me. Hora, perchè egli m'ha fatto veder una lettera, dove ella mostra esserle venuto avviso che ho risposto e fatto menzion di lei come d'uno degli avversari, perciò le scrivo questi quattro versi, dicendole che per niuna maniera creda questo di me, sì come io feci di lei alla testimonianza del Sig.r Amadori, stimando che ella, come gentile, dotta e prudente, non potesse haver posto le mani in simil pasta: ma, essendo occorso che io risponda a certe poche dubitazioni che pareano al Mauri far contro di me, già stampate da Cecco di Ronchitti contro il Sig.r Lorenzini, delle quali è stata creduta da alcuni il vero autore, perciò, havendo reputato le mie risposte esser rivolte ancora a lei, le ne hanno dato sentore. Assicurisi adunque di me, sì come gli stessi avversari, che io non ho passato i termini dell'huomo da bene, quantunque, secondo l'occasion datami, habbia ribattuto le morsicature, perchè l'ho fatto con piacevolezze e motti e facezie, senza animosità veruna. Anzi ne ringrazio gli avversari, che nel medesirno tempo mi hanno sollecitato negli studi e aperta la strada a offerirmele per servi[r]la, come che altro essi ne sperassero. Io me le profferisco con ogni affetto, aspettando occasion da lei di mostrarlo con l'effetto, e le bacio la mano.

   Durante le ferie estive del 1605, a Firenze Galileo, per la prima volta, ebbe come allievo il futuro granduca di Toscana Cosimo II (1590 ~ 1621) figlio di Ferdinando I e della granduchessa Cristina di Lorena, evidentemente con somma soddisfazione del giovane e della madre. Questo lo portò negli anni successivi ad intrattenere rapporti sempre più stretti con i sovrani di Toscana, come risulta da diverse lettere di funzionari e degli stessi signori, che oltre ad invitarlo a ritornare a Firenze per continuare l'insegnamento, a più riprese raccomandavano a Galileo vari personaggi e gli concedevano compensi di varia natura.
    Le ottime relazioni di Galileo con la famiglia De Medici gli fruttarono, nel 1606, grazie all'intervento del granduca Ferdinando, un sostanzioso aumento di stipendio da 320 a 520 fiorini l'anno.
    Quando, nello stesso anno, Galileo diede alle stampe il manuale del suo "compasso..." dedicato a Cosimo de Medici, già da qualche tempo era venuto a conoscenza del fatto che un allievo di
Simon Mayr , tale Baldassar Capra, (quello della "nuova stella") se ne  era attribuito l'invenzione. Questi non solo aveva scopiazzato malamente il suo manuale, ma aveva lanciato pesanti accuse di plagio. A quanto è dato sapere, l'anima dell'imbroglio era in realtà lo stesso Simon Mayr . La reazione di Galileo fu più che decisa, anzi quasi spropositata. Nel 1607 trascinò in tribunale lo sprovveduto Capra e naturalmente stravinse la causa, non solo, ma la sentenza fu diffusa "... a suon di tromba nell'ora di maggior frequenza..." dell'ateneo. Non ancora soddisfatto, diede alle stampe una feroce cronaca circa le "... imposture di Baldassar Capra...". Ancora una volta era emersa l'influenza del pessimo carattere materno!
    Nel frattempo aveva continuato i suoi studi sul moto; dai suoi fogli emerge un progressivo miglioramento degli esperimenti eseguiti. Da vari appunti, sempre sui suoi famosi fogli, purtroppo non datati, che Galileo aggiornava anche a distanza di anni, risulta risalire a questo periodo l'enunciazione chiara e definitiva della legge della caduta dei gravi. In questi appunti Galileo analizza i concetti "più veloce" e "meno veloce", definisce il concetto di velocità istantanea, il variare in modo continuo della velocità durante la caduta dei gravi e la proporzionalità della stessa alla radice quadrata degli spazi percorsi
. Il foglio classificato come 164-6  riporta testualmente:

Momenta velocitatum cadentis ex sublimi sunt inter se ut radices distantiarum peractarum, nempe in subduplicata ratione illarum.

I momenti della velocità di un mobile cadente dall'alto stanno tra di loro come le radici delle distanze percorse, cioè in subduplicata proporzione alle distanze.

E' evidente come per "Momenta velocitatum" Galileo intendesse "velocità istantanea", concetto completamente nuovo, che verrà introdotto solo molti anni più tardi.
   Sempre in base ad accurati esperimenti, poco tempo dopo arrivava a definire correttamente le traiettorie paraboliche dei proiettili. Nonostante ricorrenti attacchi febbrili, probabilmente di origine reumatica, fino alla metà del 1609 Galileo continuò i suoi esperimenti sul moto impiegando vari piani inclinati e migliorando costantemente i metodi di indagine. E' opportuno ricordare che Galileo nei suoi calcoli non usava equazioni, l'uso delle equazioni era una novità introdotta a metà degli anni 80 del ciquecento, perciò lui usava soltanto proporzioni, ma poichè secondo Euclide le proporzioni potevano essere usate soltanto fra grandezze omogenee dovette incontrare non poche difficoltà concettuali nel creare una proporzionalità fra spazi, tempi e velocità.

     Verso la metà di luglio  di quello stesso 1609, un evento fortuito apparentemente di nessuna rilevanza cambiò radicalmente la sua vita. Ma procediamo con ordine...
    All'epoca Galileo aveva 45 anni, come professore godeva di una buona considerazione ma la sua notorietà era limitata all'ambiente veneto/padovano o al massimo ad alcune università italiane; i suoi studi, benché di eccellente livello, non gli avevanono portato ne fama ne ricchezza, per cui era ancora afflitto da problemi economici; sopratutto le sue indagini erano indirizzate essenzialmente allo studio del moto, studi in cui aveva raggiunto, secondo molti, l'apice della sua attività di scienziato. Nonostante le acute analisi svolte in occasione della supernova del 1604, l'astronomia era un interesse secondario e probabilmente considerato di poca utilità, serviva principalmente per fare qualche oroscopo a  pagamento allo scopo di aumentare i suoi sempre scarsi guadagni. Già durante l'anno precedente aveva chiesto e ottenuto ancora una volta, un anno di stipendio anticipato, e nei primi mesi di quello corrente aveva saggiato il terreno in merito alla possibilità di ottenere un incarico migliore presso l'università di Ferrara oppure un ulteriore aumento di stipendio, purtroppo (...o per fortuna...) con risultati deludenti.

   L'estate del 1609 Galileo non si recò a Firenze, uno dei suoi studenti che aveva ospitato per quattro anni, doveva essere preparato alla laurea. Poco prima della fine di luglio, durante una breve visita a Venezia sentì parlare per la prima volta di un occhiale olandese che permetteva di vedere gli oggetti lontani come se fossero vicini, e probabilmente pensò subito a come tale attrezzo avrebbe potuto essergli utile per aumentare i suoi introiti.
    L'occhiale in questione non era proprio una novità. Della Porta ne aveva scritto fin dal lontano 1589 e si hanno notizie di un "occhiale" italiano recante la data 1590, a Parigi primitivi strumenti del genere erano in commercio dal 1601; ai primi di ottobre del 1608, tale Lipperhey di Middleburg, che fin dalla fine del 1600 costruiva simili strumenti, aveva cercato di brevettarlo ottenendo solo una commessa per costruire altri occhiali per il governo a condizione che il segreto non fosse rivelato. Il nuovo occhiale successivamente fu mostrato a qualche diplomatico in visita e ad almeno un generale spagnolo; sempre in ottobre del 1608 all'Aia era stato stampato e fatto circolare un articolo informativo che illustrava la nuova invenzione. Sappiamo che a novembre del 1608 una copia di questo opuscolo era in possesso di fra Paolo Sarpi il quale alla fine del marzo successivo scriveva a Jacques Badovere, (1575 ~ 1620?) diplomatico francese ex allievo di Galileo, chiedendo notizie in merito.
    Mentre Galileo a fine luglio 1609 era a Venezia, arrivò a Padova un non meglio identificato straniero, in possesso di un occhiale che intendeva vendere ai governanti veneti per l'astronomica cifra di mille zecchini. Sarpi, interpellato dai notabili in merito all'acquisto dello strumento, diede parere sfavorevole, confidando che il suo amico Galileo sarebbe stato capace in poco tempo di realizzare uno strumento simile a costi notevolmente inferiori.
   Non è improbabile che Galileo, a fine luglio 1609, durante la sua visita a Venezia abbia visto, in casa di Paolo Sarpi, sia l'opuscolo che illustrava l'occhiale che la risposta di Badovere; ai primi di agosto ritornò a Padova e si mise al lavoro. Dopo pochi giorni il primo rozzo cannocchiale era pronto; costituito da un tubo di piombo con alle estremità due comuni lenti per occhiali, aveva un potere di ingrandimento di tre volte, praticamente un'inezia. Subito riprese il lavoro per migliorarlo e grazie a lenti migliori, fatte costruire espressamente, in capo ad una decina di giorni completò uno strumento nettamente superiore in grado di realizzare un ingrandimento di 8-9 diametri.
    Poco dopo ferragosto, probabilmente il 21, Galileo trascinò letteralmente i nobili governanti veneti sulla cima del campanile di S. Marco, e mostrò loro il suo strumento; fu un successo! Anche se la supposta lettera al cognato Landucci, datata 29 agosto, che riassume gli avvenimenti in questione, molto probabilmente non è autentica, non è impensabile che rappresenti per sommi capi il reale svolgimento delle vicende.
    Con una lettera autografa datata 24 agosto 1609, indirizzata al doge Leonardo Donato, Galileo fece dono alla repubblica del suo cannocchiale, come compenso il suo stipendio venne portato a mille fiorini annui e il suo incarico venne confermato a vita.

   Nella sua lettera al doge Donato, pur non affermandolo esplicitamente di esserne l'inventore, Galileo presentò il cannocchiale come "...un nuovo artifizio di un occhiale cavato dalle più recondite speculazioni di prospettiva..." aggiungendo inoltre: "...Et questo presenta con ogni affetto il detto Galilei alla S. V., come uno de i frutti della scienza che esso, già 17 anni compiti, professa nello Studio di Padova..." Appare abbastanza ovvio come i notabili veneziani meno informati, sul momento fossero indotti a ritener
e lo strumento come una nuova invenzione; perciò quando più tardi si accorsero che il segreto dell'occhiale era un "segreto di Pulcinella", anziché fare buon viso a cattivo gioco, come sarebbe stato opportuno considerando l'enorme divario di qualità fra gli strumenti di Galileo e i giocattoli commerciali, ricorsero a veri mezzucci per rifarsi. Prima di tutto all'atto di redigere il nuovo contratto, stabilirono che l'aumento di stipendio da 520 a 1000 fiorini avrebbe avuto corso solo a partire dal termine delle condizioni in vigore, e, non contenti, misero per iscritto che, vita natural durante, Galileo non avrebbe più potuto ottenere ulteriori aumenti.
    Penso che al giorno d'oggi solo chi sia accecato da pregiudizi o preconcetti, (...e non sono pochi...) possa togliere a Galileo il merito di aver trasformato un giocattolo in uno strumento scientifico, e, cosa ancor più importante, aver saputo utilizzare al meglio tale strumento come mezzo di indagine scientifica.
    Notizie sul cannocchiale erano già circolate in Italia da un po' di tempo, ma quando si diffuse la notizia che Galileo grazie all'occhiale "...aveva buscato mille fiorini in vita..." le invidie e le gelosie uscirono allo scoperto. Già il 28 agosto Della Porta scriveva a Federico Cesi (1585 ~ 1630) fondatore dell'Accademia dei Lincei in questi termini:

... Del secreto dell'occhiale l'ho visto, et è una coglionaria, et è presa dal mio libro 9 De refractione...

    Giovanni Bartoli, ambasciatore toscano a Venezia scriveva il 26 settembre a Belisario Vinta, segretario del Granduca:

....Del secreto o cannone della vista lunga devo dire che veramente si vende in più luoghi, et ogni occhialaro pretende d'haverlo trovato, et ne fanno et vendono; et un Franzese in particolare, che gli fa secretamente, gli vende 3 et 4 zecchini et 2 ancora, et credo manco, secondo di che perfettione...,

    Ma pochi giorni dopo, esattamente il 3 ottobre precisava:

.... aspetto quel che mi si commanderà circa al secreto o cannone della vista lunga; il quale havrei preso et mandato sin hora, s'io non havessi considerato che mi si commandava che io lo pigliassi de i più belli et buoni, et che belli et buoni si dice esser quelli inventati o fatti dal Galilei, dal quale non so se se ne possa havere, havendolo egli dato qua per scereto et dovendone far soli 12 per la S.ria. D'altri, et d'un Franzese in particolare, si veggono et vendono a 2 zecchini et manco et più, secondo la qualità del vetro o cristallo; et ne manderei uno, ma dubito se darò o no sodisfattione. Conforme però a quel che me si dirà con le seguenti, mi governerò...

  Galileo non affermerà mai di aver inventato per primo il cannocchiale; d'altra parte la cosa sarebbe stata alquanto inverosimile, visto che molti padovani e veneziani erano a conoscenza del fatto che uno straniero ne aveva offerto un esemplare alla repubblica prima che i suoi prototipi entrassero in circolazione e che solo pochi giorni dopo simili dispositivi, sia pure di pessima qualità, erano in vendita lungo le calli di Venezia. Ciò che Galileo sosterrà sempre a spada tratta, è che la realizzazione di tale apparecchio da parte sua fu il frutto di un lavoro indipendente, anche se il risultato fu ottenuto grazie a vari tentativi pratici senza ricorrere alle leggi dell'ottica; e su questo non dovrebbero esserci discussioni!

     Forse fu durante il mese di novembre di quello stesso 1609 che per la prima volta puntò il suo occhiale verso il cielo. Anche se non è impossibile che altri prima di lui abbiano fatto la stessa cosa, la superiorità del suo strumento e le osservazioni sistematiche accuratamente annotate, per la prima volta mostrarono all'uomo la vera natura dei cieli.
    Fino ad allora, tutta la scienza, tutti i miti e le religioni che io conosco, vedevano nell'universo solo la sede del capolavoro della creazione, cioè dell'uomo; e questo non era valido solo per la civiltà europea, ma se mai è esistito un principio veramente universale adottato dall'intera umanità è proprio l'antropocentrismo! L'universo era, e per molti purtroppo è tutt'ora, solo la sede dell'uomo, e la sua esistenza ha solo lo scopo di accogliere nel migliore dei modi la nostra specie.
    La cronologia degli eventi è ricavabile da quel capolavoro di divulgazione e razionalità rappresentato dal "Sidereus Nuncius", scritto in latino, quindi indirizzato alla classe colta di tutta Europa. Redatto di getto meno di sei mesi dopo la realizzazione del suo primo cannocchiale, è un testo che merita  di essere analizzato in modo approfondito. Uscito dalle stampe il 12 marzo del 1610, secondo il costume dei tempi, il "Sidereus" è preceduto da una dedica, alquanto stucchevole, ad un personaggio "importante", in questo caso quel Cosimo de Medici, appena diventato Granduca di Toscana, che lo stesso Galileo aveva avuto come allievo per più anni durante le sue "ferie" estive a Firenze. La dedica non sarebbe degna di lettura, (... infatti ho la netta impressione che molti tra gli studiosi di Galilei non l'abbiano degnata di uno sguardo...) se non fosse per quelle poche righe in cui l'autore dichiara apertamente la sua fede copernicana:

"...En igitur quatuor Sidera tuo inclyto nomini reservata, neque illa de gregario ac minus insigni inerrantium numero, sed ex illustri vagantium ordine; quæ quidem disparibus inter se motibus circum Iovis Stellam cæterarum nobilissimam, tanquam germana eius progenies, cursus suos orbesque conficiunt celeritate mirabili, interea dum unanimi concordia circa mundi centrum, circa Solem nempe ipsum, omnia simul duodecimo quoque anno magnas convolutiones absolvunt..."

...Ecco dunque quattro Stelle riservate al vostro inclito nome e non del numero gregario e meno insigne delle fisse, ma dell'ordine illustre dei Pianeti che con moto diverso, attorno a Giove nobilissima Stella, come progenie sua schietta, compiono l'orbita loro con celerità mirabile, e nello stesso tempo con unanime concordia compiono tutte insieme ogni dodici anni grandi rivoluzioni attorno al centro del mondo, cioè al Sole...

   Il testo vero e proprio incomincia con un preambolo che ne elenca i contenuti, quindi passa ad uno stringato resoconto della realizzazione del cannocchiale.

...Circa dieci mesi fa ci giunse notizia che era stato costruito da un certo Fiammingo un occhiale, per mezzo del quale gli oggetti visibili, pur distanti assai dall'occhio di chi guarda, si vedevan distintamente come fossero vicini; e correvan voci su alcune esperienze di questo mirabile effetto, alle quali chi prestava fede, chi no. Questa stessa cosa mi venne confermata pochi giorni dopo per lettera dal nobile francese Iacopo Badovere, da Parigi; e questo fu causa che io mi volgessi tutto a cercar le ragioni e ad escogitare i mezzi per giungere all'invenzione di un simile strumento, che poco dopo conseguii, basandomi sulla dottrina delle rifrazioni....
(In realtà Galileo, pur avendo osservato il comportamento delle lenti, non conosceva, e, a quanto è dato sapere, non arriverà mai ad approfondire le leggi dell'ottica geometrica; il suo cannocchiale fu il risultato di vari tentativi empirici. La corretta spiegazione del funzionamento del cannocchiale era stata parzialmente anticipata da Della Porta, e sarà pubblicata in modo completo e corretto due anni dopo da Keplero, il quale proporrà il tipo di telescopio detto appunto kepleriano, basato su due lenti convergenti che nella sostanza è rimasto invariato fino ai nostri giorni)
...In seguito preparai uno strumento più esatto, che mostrava gli oggetti più di sessanta volte maggiori. E finalmente, non risparmiando fatiche e spese, venni a tanto da costruirmi uno strumento così eccellente, che gli oggetti visti per il suo mezzo appaiono ingranditi quasi mille volte e trenta volte più vicini che visti a occhio nudo...
( normalmente quando Galileo parla di ingrandimenti si riferisce ai volumi, per cui un ingrandimento di 10 diametri viene da lui  interpretato e descritto come un volume 1000 volte maggiore. )
...Ma lasciate le terrestri, mi volsi alle speculazioni del cielo; e primamente vidi la Luna così vicina come distasse appena due raggi terrestri. Dopo questa, con incredibile godimento dell'animo, osservai più volte le stelle sia fisse che erranti; e poiché le vidi assai fitte, cominciai a studiare il modo con cui potessi misurare le loro distanze, e finalmente lo trovai...

   Dopo alcuni consigli pratici su come deve essere il cannocchiale per poter ammirare le stesse cose da lui osservate, Galileo passa ad una nebulosa quanto errata spiegazione del funzionamento dello strumento, probabilmente lui stesso non è soddisfatto di tale spiegazione, tanto che aggiunge: "...in altra occasione esporremo intera la teoria di questo strumento.", ma la cosa non avrà seguito. A questo punto inizia una accurata descrizione delle sue osservazioni lunari, dopo aver ricordato che la presenza di macchie sul disco lunare non è una novità, e che "...Queste macchie alquanto scure e abbastanza ampie, ad ognuno visibili, furono scorte in ogni tempo"... prosegue: "...Da osservazioni più volte ripetute di tali macchie fummo tratti alla convinzione che la superficie della Luna non è levigata, uniforme ed esattamente sferica, come gran numero di filosofi credette di essa e degli altri corpi celesti,...". L'accurata relazione  delle osservazioni da lui effettuate, che fa seguito a queste dichiarazioni, è di gran lunga la peggior mazzata che mai il pensiero aristotelico/scolastico avesse ricevuto; anche coloro che, come vedremo più avanti, in principio rifiuteranno di ammettere l'evidenza dovranno arrendersi in un secondo tempo. Non contento di dimostrare accuratamente che la luna possiede una superficie con vallate e montagne simili a quelle della terra, Galileo elabora e illustra un metodo per misurare l'altezza delle cime lunari; mette in evidenza il fatto che la parte in ombra è debolmente illuminata dalla luce solare riflessa dalla terra e non dalla luce di venere o di altre stelle come si riteneva secondo l'opinione corrente e conclude:

...se ne parlerà più diffusamente nel nostro "Sistema del mondo", ( "De Systemate Mundi", la cui bozza probabilmente fu incorporata nel "Dialogo sui massimi sistemi") dove con molteplici ragionamenti ed esperienze si mostrerà validissima la riflessione della luce solare operata dalla Terra a coloro che van dicendo si debba escluderla dal novero degli astri erranti soprattutto perché non ha moto e luce; e dimostreremo che gira e supera lo splendore della Luna, e non è ricettacolo delle terrestri sordidezze e brutture; questo confermeremo con infinite ragioni naturali. ..

   Terminata la relazione delle sue osservazioni lunari, prima di descrivere come gli altri astri appaiono al cannocchiale, Galileo osserva che:

...è degno di attenzione il fatto che le stelle, sia fisse che erranti, (pianeti) quando si guardano con il cannocchiale, non si vedono ingrandite nella proporzione degli altri oggetti e della stessa Luna, ma l'aumento di grandezza per le stelle appare assai minore...
...La ragione di questo è nel fatto che gli astri, quando si guardano a occhio nudo, non ci appaiono secondo la lor semplice e nuda (per così dire) grandezza, ma irradiati da certi fulgori e come chiomati da raggi splendenti, soprattutto quando la notte è più fonda; per questo paiono assai maggiori che se fossero privi di quei crini acquisiti: perché l'angolo visuale è determinato non dal vero corpuscolo della stella ma da uno splendore largamente diffuso intorno ad essa. ...
...Degna di nota sembra anche la differenza tra l'aspetto dei pianeti e quello delle stelle fisse. I pianeti presentano i loro globi esattamente rotondi e definiti e, come piccole lune luminose perfuse ovunque di luce, appaiono circolari: le stelle fisse invece non si vedon mai terminate da un contorno circolare, ma come fulgori vibranti tutt'attorno i loro raggi e molto scintillanti. ... ...una stella di quinta o sesta grandezza sembra eguagliare Canicola, (Sirio) massima delle stelle fisse. .... Ma oltre le stelle di sesta grandezza si vedrà col cannocchiale un così gran numero di altre, invisibili alla vista naturale, che appena è credibile: se ne possono vedere infatti più di quante ne comprendano le altre sei differenti grandezze; le maggiori di esse, che possiamo chiamare di settima grandezza o prima delle invisibili, con l'aiuto del cannocchiale appaiono più grandi e più luminose che le stelle di seconda grandezza viste a occhio nudo.

  Per meglio illustrare le "stelle invisibili" Galileo ricorre a due asterismi fra i più famosi: la cintura di Orione e le Pleiadi, evidenziando come, nel caso delle Pleiadi, oltre alle sei o sette stelle tradizionalmente dichiarate visibili ad occhio nudo, se ne possono scorgere più di quaranta. La Via Lattea, la cui natura era da sempre oggetto di sterili discussioni filosofiche, si manifesta per ciò che realmente è, "...La GALASSIA infatti non è altro che un ammasso di innumerabili stelle disseminate a mucchi..." ed anche le nebulose si dissolvono in singole stelle, vedi il caso della "testa di Orione" e del "Presepe".
    Finalmente è giunto il momento;

"...Resta ora quello che ci sembra l'argomento più importante di questo trattato: e cioè rivelare e divulgare le notizie intorno a quattro PIANETI non mai dal principio del mondo fino ad oggi veduti...
...Il giorno sette gennaio, dunque, dell'anno milleseicentodieci, a un'ora di notte, mentre col cannocchiale osservavo gli astri mi si presentò Giove; ...
...intorno gli stavano tre stelle piccole ma luminosissime...
...erano in questo ordine:

    Logicamente Galileo considerò questi punti luminosi come stelle fisse,anche se il loro allineamento sembrava alquanto strano.
(In realtà, come hanno dimostrato diverse ricostruzioni, il il vero aspetto avrebbe dovuto essere il seguente:

 

ma il ridotto potere di risoluzione dello strumento di Galileo non permetteva di separare  i due satelliti orientali interni, Io ed Europa). Quando la sera dopo tornò a osservare Giove, la sorpresa fu notevole, il pianeta e le tre stelline avevano questo aspetto:

    Anche questa volta, se Galileo avesse avuto uno strumento decente, avrebbe potuto osservare una quarta "stella" situata a oriente fuori dal campo visivo del suo cannocchiale e anticipare di qualche giorno la scoperta del quarto satellite.
    Fermo nell'idea che le tre stelle fossero fisse, pensò che, contrariamente a quanto indicato sulle tavole astronomiche, Giove avesse un moto diretto e quindi avesse superato le "stelle". Quando il giorno 10 (il nove era stato nuvoloso) poté riosservare Giove, l'aspetto era nuovamente cambiato, e le stelline erano diventate due:

   A questo punto non restava che abbandonare l'idea che quei punti luminosi fossero stelle fisse, e poiché il giorno undici il sistema di Giove appariva nel cannocchiale di Galileo pressoché identico al giorno dieci, unica differenza il satellite più orientale appariva nettamente più luminoso, decise di proseguire più accuratamente le osservazioni misurando anche le distanze angolari fra le stelle incriminate e il pianeta Giove, giungendo alla seguente conclusione:
    "...Stabilii dunque e conclusi fuor d'ogni dubbio che in cielo v'erano stelle vaganti attorno a Giove, come Venere e Mercurio attorno al Sole..."
   Alla prima osservazione del giorno dodici le stelle erano ancora due, ma qualche ora dopo tornarono ad essere tre. Finalmente il giorno 13 riuscì ad osservare tutti e quattro i satelliti così disposti:

   Come già precisato, il "Sidereus Nuncius" uscì dalle stampe il 12 marzo 1610, l'ultima osservazione che riporta risale al 2 dello stesso mese; in pratica dal 7 gennaio al 2 marzo, con la sola eccezione delle serate sfavorevoli, Galileo aveva osservato e accuratamente registrato le posizioni di Giove e dei suoi satelliti ogni sera, e il suo testo le riproduceva con la massima precisione possibile.
   Esaurito l'elenco delle osservazioni, non restava che tirare le somme, e Galileo anche questa volta mette in mostra la sua razionalità non scevra da una punta di arroganza; ma è meglio cedergli la parola e ascoltare quanto dice.

    Queste sono le osservazioni sui quattro Astri Medicei di recente per la prima volta da me scoperti, dalle quali pur non essendo ancora possibile addurre i loro periodi, è lecito dir cose degne di attenzione. In primo luogo, poiché ora seguono, ora precedono Giove ad uguali intervalli e si allontanano da esso solo ben poco spazio ora verso oriente ora verso occidente, e lo accompagnano sia nel moto retrogrado che nel diretto, a nessuno può nascer dubbio che compiano attorno a Giove le loro rivoluzioni, e nello stesso tempo effettuino tutti insieme con periodo dodecennale il lor giro intorno al centro del mondo. ...
    ...Abbiamo dunque un valido ed eccellente argomento per togliere ogni dubbio a coloro che, accettando tranquillamente nel sistema di Copernico la rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, sono tanto turbati dal moto della sola Luna intorno alla Terra, mentre entrambi compiono ogni anno la loro rivoluzione attorno al Sole, da ritenere si debba rigettare come impossibile questa struttura dell'universo. Ora, infatti, non abbiamo un solo pianeta che gira intorno a un altro, mentre entrambi percorrono la grande orbita intorno al Sole, ma la sensata esperienza ci mostra quattro stelle erranti attorno a Giove, così come la Luna attorno alla Terra, mentre tutte insieme con Giove, con periodo di dodici anni si volgono in ampia orbita attorno al Sole....

    Le oltre 500 copie della prima edizione andarono esaurite in meno di dieci giorni; anzi, a Galileo rimasero solo sei copie invece delle trenta che gli sarebbero spettate per contratto, evidentemente l'editore aveva venduto anche quelle. Di colpo la sua notorietà non solo varcò le alpi, ma salì tanto in alto fino a raggiungere gli astri che lui aveva visto per primo.
    Dire che il "Sidereus Nuncius" fosse una vera bomba fatta esplodere sotto tutti gli scranni dei docenti di tutte le università europee è ancora poco. Se trascuriamo la superstizione, da sempre l'uomo era abituato a considerare come reale solo ciò che poteva vedere, toccare, o al massimo ciò che gli era stato rivelato da un Essere Superiore il cui capolavoro era appunto la creazione dell'uomo... (...Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza!... recita testualmente la Bibbia...) ma degli astri che nessuno poteva vedere a cui nessun testo sacro o filosofico aveva mai accennato, non avevano alcun motivo di esistere!
    La cosa più ovvia era ritenere che tali oggetti esistessero solo nel cannocchiale, e tale fu l'atteggiamento iniziale della stragrande maggioranza dei dotti. Primo fra tutti é quel Magini che gia conosciamo, il quale, probabilmente roso dall'invidia e forse aizzato dai gesuiti che qualche anno prima erano stati espulsi dalla repubblica di Venezia, evitando di esporsi in prima persona, mandò avanti un suo allievo, tale Martin Horky, il quale già il 30 marzo scriveva a Keplero denigrando Galileo e le sue scoperte, ma Keplero, pur non avendo ancora aveva visto il "Sidereus" era superiore a certe meschinità. Non contenti Magini e
Horky inondarono mezza Europa con lettere che rasentavano, e spesso superavanono, la diffamazione, al punto che più tardi Giovanni Roffeni, filosofo bolognese ed ex allievo del Magini affermerà che l'Horky "...è un furfante..." e a Firenze Alessandro Sertini sosterrà che una "bestia" come l'Horky meriterebbe un "carico di bastonate!". Anche padre Clavio sul momento non lesinò critiche.
    Il fatto é che i cannocchiali in commercio erano ben lontani dalle prestazioni di quello del Galileo, e per il momento quasi nessuno riuscì a vedere le cose che lui aveva visto; se poi aggiungiamo che lo strumento di Galileo aveva un angolo di visuale molto ridotto, é evidente che senza un'appropriata montatura di sostegno era pressoché impossibile per chi non aveva una certa pratica inquadrare gli oggetti celesti.
    Caso particolare, ma non troppo, fu quello del Cremonini, il quale da perfetto peripatetico per non mettere in dubbio la "sua" filosafia aristotelica  rifiutò categoricamente di guardare nell'occhiale di Galileo.
    Per farsi un'idea di quali fossero i discorsi del momento, vale la pena di leggere una strana lettera inviata il primo marzo 1610 (prima ancora dell'uscita del "Sidereus") da Raffaello Gualtierotti, (1548 ~ 1639) poeta, alchimista e filosofo, che già nel 1604 aveva descritto, senza riconoscerla una macchia solare; ad Alessandro Sertini, il futuro bastonatore del Horky. Dopo varie affermazioni piuttosto fantasiose il Gualtierotti afferma:

....Poi, circa ala luna, non pure io tengo che sia un corpo diseguale, denso e nero, ma che sia alcune volte più denso che una altra, per le esalazioni e vapori ch'ella riceve dala terra: e di ciò me ne è verace testimonio, che l'anno novantotto, interponendosi fra il sole e noi, la luna fece grande oscurazione e generò gran tenebre nel'aere, e si oppose al sole con minor numero di gradi che la non fece l'anno 1604, e nondimeno generò minore oscurazione; e questo non per altro, se non perchè l'anno 1598 la luna era più pregna di esalazioni e di vapori ch'ella non fu l'anno 1604. A questo V. S. mi dirà, che l'esalazioni ch'erono nel'aere erono quelle, ch'essendo maggiori o minori, facevono parere o maggiori o minori le tenebre. Et io rispondo a V. S., che io non niego che ciò non potessi esser vero; ma nientedimeno dico, ciò essere avvenuto per essere la luna più scarica o più carica di vapori ella in sè stessa: e di ciò ne sia vero testimonio, che io ho veduta alcuna volta essa luna rincontrare la stella di Venere, e 'nterponendosi fra l'occhio nostro e Venere, fare ch'essa Venere non si veggia ed oscurarla al tutto, per dir così; alcuna altra volta io ho visto Venere nel mezzo al corpo dela luna così chiaramente risplendere, come se essa luna stata non vi fussi. ...

   Sarebbe interessante poter stabilire ciò che Gualtierotti vide veramente! Circa due mesi dopo, esattamente il 24 aprile, lo stesso Gualtierotti scrisse direttamente a Galileo per rivendicare la priorità dell'invenzione del cannocchiale in questi termini:

... Hora, 12 anni sono, io feci uno strumento, ma non già afine di veder gran lontananze e misurar le stelle, ma per benefizio di un cavaliero in giostra e in guerra, e lo proposi al Ser.mo Gran Ferdinando et insieme al'Ill.mo et Eccel. mo Sig.r Duca di Bracciano, Don Verginio Orsino; ma parendomi debol cosa, lo trascurai. Pure ancor io, sentendo il romore del Fiammingo, presi i miei vetri e i miei cartoni, e li rimesi insieme, e tornai a considerare il loro uficio, e vedi in terra e 'n cielo molte cose molto meglio che non fa l'occhiale di Giovambatista milanese: e tale strumento mi insegnò fare quel foro che V. S. vide circa a trenta anni sono nela camera mia ala Torre al'Isola, dal qual foro io sino da la mia prima fanciullezza inparai a dubitare del modo del vedere, che la terra refletteva i raggi del sole con gran lume e molto regolatamente, e vi imparai molte bagattelle che io haveva letto esser possibile a farsi, e finalmente lo strumento che 12 anni sono io feci; dal quale indotto, 6 anni sono scrivendo sopra la nuova stella, in proposito del modo del vedere io dissi, che chi voleva veder le stelle di giorno, guatasse per una cerbottana. Hora io ho detto tante parole non per contrariare a la gloria di V. S, ma per esservi a parte molto e molto giustamente, poi che a me si deve quella lode che V. S. dà ad uno Belga, quelo che V. S. può dare ala sua patria. Mirabil cosa non mi parrà mai Ciò ch'io dirò deli atti fiorentini. Dio l'ami.


     Nel bel mezzo di tante critiche e contestazioni, come un fulmine a ciel sereno, arrivò per Galileo il miglior sostegno che potesse invocare. Ai primi di aprile Martin Hasdale (1570 ~ ?) ,funzionario imperiale di Rodolfo II, che aveva a lungo soggiornato a Venezia e Padova diventando amico sia del Sarpi che di Galileo, durante un pranzo presso l'ambasciatore spagnolo a Praga, fu testimone della consegna allo stesso ambasciatore di una copia del "Sidereus Nuncius" da parte di del finanziere Marc Welser (1558 ~ 1614) il quale fra l'altro era anche banchiere dei gesuiti. L'ambasciatore, dopo i pareri dei commensali, dichiarò che era necessario sentire cosa ne pensasse il Keplero, allora matematico imperiale di Rodolfo II e quindi considerato il primo astronomo della cristianità. Dopo un'attenta lettura del testo di Galileo, Keplero mise mano alla penna e in pochi giorni compose la "Dissertatio cum nuncio sidereo" lettera inviata Galileo il 19 aprile. Questa lettera, nonostante alcuni velati rimproveri sulla priorità della teoria circa il funzionamento del cannocchiale, é un vero panegirico di Galileo, ciò nonostante non furono pochi i personaggi che cercarono di interpretare tale lettera, probabilmente senza nemmeno averla letta, in modo negativo, spargendo la voce che Keplero aveva smentito Galileo.
    Quasi certamente erano in malafede; e ad ogni modo si sbagliavano di grosso! Nonostante le lettere di Martin Horky e la saccenza di Giorgio Fugger, ambasciatore imperiale a Venezia, che liquidava il "Sidereus Nuncius" come libretto di poca importanza e Galileo come noto imbroglione, Keplero ancora una volta mostrava il suo animo generoso rischiando in prima persona senza ancora aver potuto verificare le osservazioni di Galileo.
    Forse irritato dal comportamento dei maggiorenti veneziani all'atto del rinnovo del suo incarico, e sicuramente ansioso di migliorare la sua posizione ed i suoi introiti sempre insufficienti, già il 13 marzo, il giorno successivo all'uscita del "Sidereus", Galileo scriveva da Venezia a Belisario Vinta, segretario del granduca di Toscana, annunciando personalmente le novità e il proposito di omaggiare sua altezza di una copia del suo "Avviso Astronomico" unitamente allo strumento utilizzato per la scoperta dei nuovi astri; avvertendo contemporaneamente delle difficoltà che un profano avrebbe incontrato nell'uso dello stesso strumento, proponeva, se ritenuta utile, una visita personale presso la corte al fine di illustrare le nuove meraviglie. Il 19 marzo inviò due lettere una direttamente al granduca e una al Vinta.

GALILEO a COSIMO II DE' MEDICI, Granduca di Toscana, [in Firenze].
Padova, 19 marzo 1610.

Ser.mo G. D. et mio Sig.r Col.mo
Mando all'Altezza Vostra Ser.ma il mio Avviso Astronomico, dedicato al suo felicissimo nome. Quello che in esso si contenga et l'occasione dell'inscriverlo a lei, vedrà dalla dedicatoria dell'opera, alla quale mi rimetto per non tediarla due volte: solo con questa con ogni humiltà me l'inchino, et reverentemente gli bacio la vesta, augurandoli da Dio il colmo di felicità.
Di Padova, li 19 di Marzo 1610.
Di V. A. S.
Humiliss.o Servo et Vassallo
Galileo Galilei.

   Della lettera a Belisario Vinta esistono due copie, entrambe autografe, una delle quali probabilmente non è altro che una bozza. Nella missiva Galileo si dilunga in dettagli e complimenti, tanto da far intravedere il mal celato desiderio di ritornare a Firenze, ovviamente a patto che le condizioni siano vantaggiose!
    Probabilmente Il granduca Cosimo II ricordava con molta stima il suo precettore estivo degli anni precedenti, al punto che nello stesso giorno in cui Galileo gli inviava la sua missiva gli rispondeva, tramite il suo segretario Vinta, in questi termini:

BELISARIO VINTA a GALILEO in Padova.
Pisa, 19 marzo 1610.
Ill. et molto Ecc.te S.r mio Oss.mo
   
Havendo ricevuto la copia del suo Avviso Astronomico, l'ho subito fatta vedere a S. A. Ser.ma, alla quale havendo anche letto la lettera di V. S. che l'ha accompagnata, se le è accresciuto di sorte il desiderio di veder quei nuovi pianeti, che per assicurarsi che le riesca, aspetta che V. S. alle prossime vacanze venga con il suo eccellentissimo occhiale a facilitarne ella propria il modo, com'ella ha offerto; et a questo effetto darà a suo tempo l'ordine, che il lunedì della settimana di Passione ella possa trovare in Bologna la lettiga. Et io dovendo così presto, con l'aiuto di Dio, rivederla, con speranza di haverla anche a servire, non le soggiugnerò altro con questa. Et le bacio con tutto l'animo le mani.
Di Pisa, li 19 di Marzo 1609.
Di V. S. Ill. et molto Ecc.te
S.or Galileo Galilei.
Serv.re Aff.mo
Belisario Vinta.

   Quasi certamente era quanto Galileo aspettava. In aprile, con l'occasione delle vacanze pasquali, scese in Toscana dove evidentemente riscosse un notevole successo, tanto che da una lettera datata 18 aprile e indirizzata a Vincenzio Giugni, orefice di corte, da parte di Cristina di Lorena siamo a conoscenza di quanto segue:

Il Granduca vuole che voi facciate fare una catena d'oro di quattrocento scudi, di più la medaglia di S. A. per mettervila, perchè la vuol donare al Galileo, che viene adesso a Fiorenza; et glie la potrete presentare da parte di S. A. Sì che mettetela in ordine subito, mettendola a uscita di donativi.....

   Se ricordiamo che durante il suo insegnamento a Pisa, Galileo percepiva 60 scudi all'anno... Questo dono principesco era un chiaro segno dell'alta considerazione di cui lo stesso Galileo godeva presso la corte del suo ex allievo, ora nuovo granduca di Toscana: Cosimo II.
    Il 24 e il 25 aprile Galileo sostò a Bologna per mostrare le sue scoperte agli astronomi di quello studio, ed in particolare a quel Magini che qualche tempo prima aveva definito i supposti satelliti di Giove "semplicemente ridicoli!...". Stando alle ricostruzioni moderne, le sere del 24/25 aprile erano particolarmente favorevoli per osservare i satelliti in questione, anzi, secondo quanto riportato nell'edizione nazionale delle opere di Galileo curata da Antonio Favaro, lo stesso Galileo annotò più tardi di aver visto due satelliti la sera del 24, e tutti e quattro il 25. Risulta quindi ancor più incomprensibile la lettera inviata da Martino Horky a Keplero il 27 aprile, in base alla quale lo strumento di Galileo pur dimostrandosi eccellente nelle osservazioni terrestri, aveva miseramente fallito in quelle celesti! Anche il Magini, pochi giorni dopo, scriveva a Keplero che ben "venti persone doctissime" non erano riuscite a scorgere in cielo ciò che Galileo diceva di vedere.
   Galileo aveva ormai 46 anni, le sue ambizioni non si erano ancora spente, ma le speranze di
ulteriori promozioni erano svanite con l'ultimo rinnovo del suo incarico, per altro non ancora entrato in vigore, in base al quale gli spettavano si, 1000 fiorini annui per il resto della sua vita, ma gli era inibita ogni possibilità di ulteriori aumenti; per di più le necessità economiche che lo obbligavano a tenere studenti a pensione e l'obbligo di insegnare, pur non eccessivamente gravosi, gli impedivano di dedicare tutto il tempo che avrebbe voluto alle sue ricerche.
   Rientrato a Padova a fine aprile, nei primi giorni di maggio tenne tre pubbliche lezioni sui nuovi "astri medicei" che, stando a quanto riferisce lui stesso, convinsero anche gli avversari più recalcitranti. Con ogni probabilità, in quegli stessi giorni ebbe occasione di meditare sulle offerte, più o meno velate, ricevute durante la sua vista in Toscana. Finalmente il 7 maggio 1610, forte anche della fama internazionale recentemente acquisita,  usci allo scoperto con una lettera indirizzata a Belisario Vinta, ma con l'evidente intenzione di rivolgersi al granduca Cosimo.
    Dopo aver sparso una buona dose di incenso per preparare il terreno, Galileo parlava chiaro:

...desidero grandemente la resoluzione dell'altro negozio, statomi più volte accennato, ma particolarmente da V. S. Ill.ma ultimamente in Pisa: perchè sono in tutti i modi resoluto, vedendo che ogni giorno passa un giorno, di mettere il chiodo allo stato futuro della vita che mi avanza, et attendere con ogni mio potere a condurre a fine i frutti delle fatiche di tutti i miei studii passati, da i quali posso sperarne qualche gloria. Et dovendo trapassare quelli anni che mi restano o qui o in Firenze, secondo che piacerà al nostro Ser.mo Signore, io dirò a V. S. Ill.ma quello che ho qui, et quello che desidererei costà, rimettendomi però sempre al comandamento di S. A. S.
   Qui ho di stipendio fermo fiorini 1000 l'anno in vita mia, et questi sicurissimi, venendomi da un principe immortale et immutabile. Più di altrettanto posso guadagnarmi da lezioni private, tuttavolta che io voglia leggere a signori oltramontani; et quando io fussi inclinato a gl'avanzi, tutto questo et più ancora potrei mettere da canto ogn'anno col tenere gentil'huomini scolari in casa, col soldo de i quali potrei largamente mantenerla. In oltre, l'obligo mio non mi tien legato più di 60 mez'hore dell'anno, et questo tempo non così strettamente, che per qualunque mio impedimento io non possa, senza alcun pregiudizio, interpor anco molti giorni vacui: il resto del tempo sono liberissimo, et assolutamente mei iuris. Ma perchè et le lezioni private et gli scolari domestici mi sariano d'impedimento et ritardanza a i miei studii, voglio da questi totalmente, et in gran parte da quelle, vivere esente; però, quando io dovessi ripatriarmi, desidererei che la prima intenzione di S. A. S. fusse di darmi otio et comodità di potere tirare a fine le mie opere, senza occuparmi in leggere. ...

   Più avanti, nella stessa lettera, affermava:

...Nè vorrei che per ciò credesse S. A. che le mie fatiche fussero per esser men profittevoli agli studiosi della professione, anzi assolutamente sariano più; perchè nelle publiche lezioni non si può leggere altro che i primi elementi, per il che molti sono idonei; et tal lettura è solo di impedimento et di niuno aiuto al condurre a fine le opere mie, le quali tra le cose della professione credo che non terranno l'ultimo luogo. Per simile rispetto, sì come io reputerei sempre a mia somma gloria il poter leggere a i Principi, così all'incontro non vorrei haver necessità di leggere ad altri. Et in somma vorrei che i libri miei, indrizzati sempre al Ser.mo nome del mio Signore, fussero quelli che mi guadagnassero il pane;...

    In fine, dopo aver esposto il programma delle pubblicazioni scientifiche che intendeva portare a termine, concludeva:

Intanto non voglio restar di dirgli, come circa lo stipendio mi contenterò di quello che lei mi accennò in Pisa, essendo honorato per un servitore di tanto Principe; et sì come io non soggiungo niente sopra la quantità, così son sicuro che, dovendo io levarmi di qua, la benignità di S. A. non mi mancherebbe di alcuna di quelle comodità che si sono usate con altri, bisognosi anco meno di me, et però non ne parlo adesso. Finalmente, quanto al titolo et pretesto del mio servizio, io desidererei, oltre al nome di Matematico, che S. A. ci aggiugnesse quello di Filosofo, professando io di havere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura: nella quale qual profitto io habbia fatto, et se io possa et deva meritar questo titolo potrò far vedere a loro Alt.e, qual volta sia di loro piacimento il concedermi campo di poterne trattare alla presenza loro con i più stimati in tal facoltà.
Ho scritto lungamente per non haver più a ritornare sopra tal materia con suo nuovo tedio: mi scusi V. S. Ill.ma, perchè, se bene questo a lei, che è consueta a maneggiar negozii gravissimi, parerà frivolissimo et leggiero, a me però è egli il più grave che io possa incontrare, concernendo o la mutazione o la confirmazion di tutto lo stato et l'esser mio. Aspetterò sua risposta; et in tanto, supplicandola ad inchinarsi humilmente in mio nome a loro A. Ser.e, bacio a V. S. Ill.ma con ogni reverenza le mani, et dal Signore Dio gli prego somma felicità

    Come si può notare, questa lettera era una vera e propria richiesta di impiego con tanto di "curriculum vitae"! La missiva probabilmente non arrivò a destinazione che il 13 o il 14 maggio, e già il 22 il Vinta, probabilmente sollecitato dal granduca, rispondeva in questi termini:

... poi che tutti li litterati et intendenti, et anche quelli che prima l'intendevano contro l'opinione di lei, sono stati persuasi et convinti dalle ben fondate deduttioni, ragioni et osservationi della S. V. Et quanto al volerla i Ser.mi Padroni qua, con darle quella honorata provisione, ch'io l'accennai, et tanto virtuoso otio che ella possa finire i suoi studii et perfettionare tutte quelle opere et darle in luce al mondo, per publico benefitio, sotto l'auspicio et nome di questo grande et Ser.mo Principe, ne sono molto bene l'Altezze loro risolute, et me ne hanno data la parola, et penseranno ancora a un titolo honoratissimo per lei, et senza effettivo obbligo d'havere a leggere in Pisa, assai conforme alla dichiaratione che V. S. me ne fa; et con le prime lettere, sì come saranno ben discussi tutti i termini et articoli per darle ogni maggior sodisfattione, ...

    Due settimane dopo, esattamente il 6 giugno 1610, lo stesso Belisario Vinta, annunciava a Galileo che le sue richieste erano state pienamente accolte dal granduca con questa lettera:

BELISARIO VINTA a GALILEO inPadova.
Firenze, 6 giugno 1610.
Ill.re et molto Ecc.te Sig.r mio Oss.mo

  Hanno queste AA. deliberato di dar titolo a V. S. di Matematico primario dello Studio di Pisa et di Filosofo del Ser.mo Gran Duca, senz'obligo di leggere et di risedere nè nello Studio nè nella città di Pisa, et con lo stipendio di mille scudi l'anno, moneta fiorentina, et con esser per darle ogni commodità di seguitare i suoi studii et di finir le sue compositioni; et sì come vivendo appresso all'AA. loro et con esso loro conversando, conosceranno et proveranno sempre più la sua valorosissima et eminentissima virtù in tanti et tanti conti, così accresceranno al suo merito amore et stima, et alla sua persona favori, honori et gratie. Et se V. S. si contenti di questo, bisogna che la me lo specifichi bene bene con sue lettere, con farsene poi in nome di lei la supplica, et da S. A. il decreto et rescritto, et la publicatione quando vorrà la S. V.: et intanto si terrà più segreto che sarà possibile. Et non havendo potuto questo giorno fare il mandato de i 200 scudi, che S. A. le dona per le spese intorno a gli occhiali et stampa d'altra sua compositione sopra i ritrovati pianeti, si farà domani o posdomani: et questi faccia conto d'haverli in borsa. Et le bacio le mani.

Di Firenze, li 5 di Giugno 1610.
Di V. S. Ill.re et moltoEcc.te
S.r Galileo Galilei.
Serv.re Aff.mo
Belisario Vinta.

   Il 15 giugno Galileo comunicava ufficialmente ai riformatori dello studio patavino le sue dimissioni, e il 18 rispondeva al Vinta esprimendo la sua soddisfazione per l'offerta, avanzando ancora due piccole richieste. Probabilmente per soddisfare la sua vanità, chiedeva che il titolo di "Filosofo del Ser.mo Gran Duca" fosse cambiato in "Matematico e Filosofo del Ser.mo Gran Duca", inoltre voleva liberarsi in modo definitivo delle pretese che i cognati avanzavano nei suoi confronti riguardo la quota della dote alle sorelle che il fratello Michelangelo non aveva saldato, e che gli stessi cognati pretendevano da lui.
     Il carteggio tra Galileo e la corte medicea si era svolto nella forma più riservata possibile, ma risulta evidente che la notizia delle sue dimissioni era trapelata. L'ambasciatore toscano a venezia il 26 giugno scriveva a Belisario Vinta:

.... Mi è anche stato adimandato se è vero che il Dottor Galileo venga a servir S. A. con condizioni grandissime; et pure ho detto che non so niente: et questo se è vero, scoprendosi, gli potria esser di noia qua...

    Gli amici, i colleghi e le autorità venete presero la notizia delle sue dimissioni molto male. Anche la promessa in extremis di un ulteriore aumento di stipendio non servì a trattenerlo a Padova. Sagredo, forse il miglior amico che Galileo ebbe in tutta la vita, ad un anno dalla sua partenza il 13 agosto 1611 gli scriverà profeticamente:

...Quanto poi a' suoi interessi, io mi riporto al suo giudicio, anci al suo senso. Qui lo stipendio et qualche altro suo utile non era, per mio credere, in tutto sprezzabile; l'occassione della spesa credo molta poca con assai gusto, et il suo bisogno certo non tanto che dovesse meterla in pensiero di cose nuove, per aventura incerte et dubbiose. La libertà et la monarchia di sè stessa dove potrà trovarla come in Venetia? principalmente havendo li appoggi che haveva V. S. Ecc.ma, i quali ogni giorno, con l'accressimento della età et auttorità de' suoi amici, si faceva più considerabile. V. S. al presente è nella sua nobilissima patria; ma è anco vero che è partita dal luogo dove haveva il suo bene. Serve al presente Prencipe suo naturale, grande, pieno di virtù, giovane di singolar aspettatione; ma qui ella haveva il commando sopra quelli che comandano et governano gli altri, et non haveva a servire se non a sè stessa, quasi monarca dell'universo. La virtù et la magnanimità di quel Prencipe dà molto buona speranza che la devotione et il merito di V. S. sia agradito et premiato; ma chi può nel tempestoso mare della Corte promettersi di non esser dalli furiosi venti della emulatione, non dico sommerso, ma almeno travagliato et inquietato?..


   Sempre il 26 giugno 1610 il Vinta confermava per iscritto che tutte le richieste di Galileo erano state accettate e questi il 2 luglio confermava la sua soddisfazione e il desiderio di tornare a Firenze. Infine il 10 luglio il granduca Cosimo II Spediva a Galileo  la seguente conferma ufficiale:

COSIMO II, Granduca di Toscana, a GALILEO in Padova
Firenze, 10 luglio1610.
Don Cosimo
Gran Duca di Toscana etc.
Mag.co nostro Dilett.mo
L'eminenza della vostra dottrina et della valorosa vostra suffizienza, accompagnata da singolar bontà nelle matematiche et nella filosofìa, et l'ossequentissima affezzione, vassallaggio, et servitù che ci havete dimostra sempre, ci hanno fatto desiderare di havervi appresso di noi; et voi a rincontro ci havete fatto sempre dire che, ripatriandovi, havereste ricevuto per sodisfazione et grazia grandissima di poter venire a servirci del continuo, non solo di Primario Matematico del nostro Studio di Pisa, ma di proprio Primario Matematico et Filosofo della nostra persona: onde, essendoci risoluti di havervi qua, vi habbiamo eletto et deputato per Primario Matematico del suddetto nostro Studio, et per proprio nostro Primario Matematico et Filosofo; et come a tale habbiamo comandato et comandiamo a chiunque s'appartiene de' nostri Ministri, che vi diano provisione et stipendio di mille scudi, moneta fiorentina, per ciascun anno, da cominciarvisi a pagare dal dì che arriverete qui in Firenze per servirci, sodisfacendovisi ogni semestre la rata, et senza obligo d'habitare in Pisa, nè di leggervi, se non honorariamente, quando piacesse a voi, o ve lo comettessimo espressa et estraordinariamente noi, per nostro gusto o di Principi o Signori forastieri che venissino; risedendo voi per l'ordinario qui in Firenze, et proseguendo le perfezzioni de' vostri studii et delle vostre fatiche, con obligazion però di venir da noi dovunque saremo, anche fuor di Firenze, sempre che vi chiameremo. Et il Signore Iddio vi conservi et contenti
Di Firenze, li X Luglio 1610.
Il Granduca di Tosc.a
Sig.e Galileo.

Fuori: Al Mag.co Mess. Galileo Galilei,
Nostro dilett.mo
Padova.

   Mentre Galileo era occupato ad assicurarsi quello che lui credeva un tranquillo, sicuro e brillante futuro, in tutt'Europa  era era scoppiata la caccia ai suoi "occhiali"; principi, duchi, re, imperatori, cardinali e nobili vari scrivevano o facevano scrivere lettere per ottenere uno di quei preziosi "occhiali".
    Gli unici a non aver alcuna speranza di ottenerne uno, erano ovviamente gli addetti ai lavori. Il povero Keplero subissato di critiche per aver appoggiato Galileo senza aver potuto verificare di persona l'esistenza dei satelliti di Giove, richiederà invano uno strumento con una lettera del 9 agosto, solo alla fine del mese potrà utilizzare lo strumento donato all'elettore di Colonia  e rispondere ai suoi denigratori con la  "Narratio de Jovis satellitibus" in cui parafrasando Giuliano l'Apostata concludeva: "Vicisti Galilee!...".
    Evidentemente Galileo, che oltre ad essere un uomo pratico non mancava certo di una buona dose di ambizione, era più interessato alla sua carriera che alle sorti di chi lo appoggiava.
    Anche il "Collegio Romano" roccaforte degli scienziati della curia di Roma, per ottenere da
Antonio Santini un cannocchiale decente dovrà aspettare gli ultimi mesi del 1610, e, stando a quanto lo stesso Santini scriveva, per il momemento i professori in questione "...se la ridevano dei nuovi pianeti...".
    Nel frattempo a Bologna
Martin Horky aveva passato il segno. A quanto pare, senza nemmeno informare il Magini, aveva scritto un opuscolo contro il "Sidereus" e quando lo aveva mostrato al suo maestro era stato diffidato dal pubblicarlo. Ciò nonostante si era recato a Modena per farlo stampare e poichè il Magini ne era venuto a conoscenza, al suo ritorno era stato cacciato in malo modo, e, a quanto diceva lo stesso Magini si era rifugiato a Milano da quel Baldassar Capra che già conosciamo. Probabilmente fu questo il primo segno per gli avversari di Galileo che presto o tardi avrebbero dovuto arrendersi all'evidenza. Infatti il 24 giugno Antonio Santini, ex mercante, buon matematico e abile artigiano veneto, probabilmente il più abile costruttore di telescopi del momento, a parte, ovviamente, lo stesso Galileo con cui il Santini collaborava, nel dar notizia della cacciata di Martin Horky dalla casa del Magini aggiungeva :

...Non ho volsuto mancare di darli questo aviso, stimolato anche dal S.re Magini; dal quale fu approvato il testimonio mio della vista de' pianeti, poi che esso da impedimenti naturali stenterà a poter ricevere aiuto suficiente con l'instrumento..


   Nonostante gli impegni, che possiamo definire "sociali", Galileo non aveva abbandonato le sue osservazioni del cielo. In una sua lettera datata 30 luglio e indirizzata a Belisario Vinta in cui annunciava di voler raggiungere Firenze il più presto possibile; dopo aver confermato che superata la congiunzione con il sole, Giove era riapparso mattutino, con la sua corte di satelliti inalterata, annunciava un'altra novità assoluta: Saturno non era  una singola stella, ma in realtà era costituito da tre stelle... "le quali quasi si toccano"... In pratica aveva osservato per la prima volta gli anelli di Saturno, difficilmente distinguibili nel suo primitivo strumento. In questa lettera Galileo chiedeva di mantenere il segreto sulla nuova scoperta, ma per assicurarsene la priorità inviò a Giuliano de Medici, ambasciatore presso l'imperatore Rodolfo II, un anagramma  (... veramente più che un anagramma era una semplice serie di lettere alla rinfusa...) che lo stesso ambasciatore comunicò a Keplero il quale, essendo anche un enigmista appassionato, tentò di interpretarlo giungendo all'errata conclusione che Galileo avesse osservato qualche satellite di Marte.
    D'altra parte le maldicenze e le invidie di tanti personaggi, peripatetici e/o astrologi, che con le nuove scoperte temevano di perdere parte dei loro privilegi o del loro potere, non accennavano a placarsi. Purtroppo per loro, man mano gli strumenti di Galileo si diffondevano, sempre più gente affermava di aver osservato i nuovi pianeti; tanto che quel Simon Mayr, che ricordiamo come precettore di Baldassar Capra, e diventato nel frattempo astronomo di corte del margravio di Brandeburgo, era giunto a dichiarare in una lettera datata 29 dicembre 1609, (... calendario giuliano, cioè 8 gennaio 1610 del calendario gregoriano...)  ma probabilmente retrodatata, di aver osservato prima di Galileo i satelliti di Giove, naturalmente senza fornire alcun supporto alle sue dichiarazioni.
    Quasi certamente Galileo era troppo indaffarato nei preparativi per il suo ritorno a Firenze e non prestò orecchio a quel primo campanello d'allarme che il suo buon amico Martino Hasdale gli inviava da Praga il 9 agosto 1610:

... Quanto poi a quella scrittura uscita da quel Bohemo, già servitore del S.r Maggino, la va per manus, essendone qui un essemplare solo, mandato d'Italia al Velsero Augustano (Marc Welser, 1558 ~ 1614, banchiere dei gesuiti), tutto spagnuolo et poco amico de' Venetiani. Non ho vista ancora detta scrittura, ma la potrò vedere. Non pensi V. S. che io habbia detto fuori di proposito che il Velsero sia tutto spagnuolo; perchè gli Spagnuoli stimano, per ragione di stato essere necessario che il libro di V. S. si debba supprimere, come pernicioso alla religione, con il mantello della quale si fanno lecito di fare ogni poltronia per arrivare alla monarchia. ...

    Nello stesso periodo, a Firenze Francesco Sizzi (1585? ~ 1618), giovane patrizio fiorentino, aveva scritto la sua "Dianoia Astronomica", in cui per la prima volta venivano proposte opposizioni teologiche contro il "Sidereus".
    Il 7 settembre 1610 Galileo lasciava Padova per raggiungere Firenze in compagnia della figlia minore Livia, la maggiore, Virginia, era già a firenze con la nonna dall'autunno precedente, mentre il piccolo Vincenzio per il momento rimase a Padova con la madre. Sembra che Marina Gamba, la madre dei figli di Galileo, poco tempo dopo la partenza di questi per la toscana, sposasse Giovanni Bartoluzzi, e che Galileo abbia continuato ad inviarle un piccolo assegno per il mantenimento del figlio, aiutando nel contempo il Bartoluzzi a trovar lavoro presso un suo amico.
    Appena giunto a Firenze Galileo si stabilì provvisoriamente con la madre e le figlie in una casa procuratagli dalla sorella Virginia, successivamente scelse con cura una casa posizionata in modo da poter proseguire le sue osservazioni astronomiche e la prese in affitto.
    Non appena sistematosi in modo adeguato, il 13 novembre inviava all'ambasciatore toscano a Praga, Giugliano de Medici, la soluzione dell'anagramma riguardante Saturno:

...Altissimum planetam tergeminum observavi...   

invitando lo stesso ambasciatore a comunicarla al Keplero, e specificando chiaramente che tramite strumenti con minor potere di ingrandimento Saturno sarebbe apparso ovale come un'oliva.
    Ai primi di dicembre Galileo ricevette da Antonio Santini la conferma che, grazie ad un suo cannocchiale, anche gli astronomi del Collegio Vaticano avevano finalmente osservato i "Pianeti Medicei". La lettera di Santini fu seguita, quasi immediatamente, da un'altra missiva inviatagli da Benedetto Castelli, (~1577 - 1643) monaco benedettino e suo ex allievo, il quale oltre a comunicagli la sua intenzione di trasferirsi a Firenze per poter restare in contatto con il suo maestro, gli proponeva la seguente idea:

...Essendo (come credo) vera la posizione di Copernico, che Venere giri intorno al sole, è chiaro che sarebbe necessario che fosse vista da noi alle volte cornuta, alle volte no, stando pure detto pianeta in pari remozioni dal sole, ogni volta però che e la piccolezza dei corni e la effusione dei raggi non c'impedissero l'osservazione di questa differenza. Hora desidero saper da V. S. se lei, con l'aiuto dei suoi meravigliosi occhiali, ha notata simile apparenza, quale senza dubio sarà mezo sicuro di convincer qual si voglia ostinato ingegno. Simil cosa vo sospettando ancora di Marte circa il quadrato con il sole; non dico già di apparenza cornuta e non cornuta, ma almeno di semicircolare e più piena. Ma perchè son inettissimo anco a minori speculazioni, e questa in particolare ricerca la dottrina e cognitione delle lontananze e grandezze dei nominati pianeti e tra di loro e dalla terra, delle quali non ho vergogna dire che ne sono ancora del tutto ignorante...

   Questa lettera porta la data del 5 dicembre 1610. Probabilmente anche allo stesso Galileo era già balenata un'idea simile perchè nella risposta al Castelli, datata 30 dicembre, Galileo affermava che già da tre mesi stava tenendo sotto osservazione Venere, e che ne aveva già notato le variazioni di fase. Appena ricevuta la lettera in questione, ( ... o forse ancora prima di riceverla, in quanto la lettera proveniente da Brescia, difficilmente arrivò a Firenze prima di una settimana dovendo passare per Milano... )  l'undici dicembre, inviò a Giugliano de Medici a Praga un altro anagramma, pregando l'ambasciatore di trasmetterlo a Keplero.
     L'anagramma in questione recitava testualmente:

Haec immatura a me iam frusta leguntur
o y.
Queste cose ancora immature si leggono invano da me

   Nella stessa lettera Galileo annunciava di essere al lavoro per deteminare il periodo di rivoluzione dei "Pianeti Medicei" attorno a Giove, problema che lo stesso Keplero aveva definito quasi insolubile.
    Il successivo primo gennaio 1611 finalmente inviò a Praga la soluzione dell'enigma che affermava:

Cynthiae figuras aemulatur mater amorum
...Venere (mater amorum) imita le figure della luna (Cynthiae)

   Questa era la prima indiscutibile dimostrazione che almeno Venere, fra i corpi celesti, ruotava attorno al sole e non alla terra. Dal canto suo Keplero, dopo aver spiegato come fino ad allora avesse ritenuto, in considerazione della forte luminosità del pianeta, che Venere brillasse di luce propria; rilevò, con piena ragione, che anche il sistema ticonico si adattava altrettanto bene alle fasi di Venere.
    Fin dal 17 settembre 1610, Galileo aveva scritto a padre Clavio a Roma per confermare di persona le sue scoperte, spiegando che se lui e i suoi colleghi non avevano ancora visto gli astri medicei,  la causa doveva attribuirsi o alla scadente qualità dello strumento utilizzato, o al fatto che lo strumento non fosse ben fissato. Venuto a conoscenza che finalmente anche gli astronomi del collegio romano avevano osservato i satelliti di Giove, decise di intraprendere un viaggio a Roma per illustrare le sue scoperte alle massime autorità politico/religiose, e probabilmente per ottenere quella approvazione ufficiale che nelle sue speranze lo avrebbe posto al riparo dalle critiche degli ignoranti. Nei primi mesi del 1611 Galileo fu soggetto a vari disturbi e solo verso la fine di marzo, con pieno appoggio del granduca Cosimo II, potè intraprendere il viaggio.
    A Roma fu formalmente accolto nel migliore dei modi. Pochi giorni  dopo il suo arrivo fu ospite al "Collegio Romano" dove incontrò l'ormai anziano padre Clavio che sarebbe morto l'anno successivo, ma che nell'ultima revisione del suo commento al "De Sphaera" di Sacrobosco, affermerà che ormai il "Vecchio sistema" (tolemaico) non sarebbe più stato utile agli astronomi. Al "Collegio Romano" il successo di Galileo fu quasi esaltante, fra i gesuiti ci anche fu chi si prese gioco del "Dianoia" di Sizzi e chi recitò un'ode in suo onore.
   Il fascino personale, la sua dialettica e l'assoluta novità delle sue idee, facevano di Galileo il personaggio del momento; invitato, coccolato e vezzeggiato da tutti coloro che erano, o si ritenevano, personaggi importanti.
    Fra i pochi in grado di recepire realmente le novità, c'erano i componenti di quel sodalizio di amici che, all'inizio forse un po'  pomposamente, si era autodefinito "Accademia dei Lincei" con chiaro riferimento all'acuità visiva della lince. L'Accademia, fondata dal giovanissimo, nobile e ricco, Federico Cesi (1585 ~ 1630) fin dal lontano agosto 1603, si proponeva in sostanza di indagare sui fenomeni naturali in modo razionale. Oltre al Cesi, all'atto della fondazione ne facevano parte: Johannes van Heeck, latinizzato in Giovanni Heckius, (1579 ~ 1616?) di origine fiamminga, medico e precettore del Cesi; Francesco Stelluti (1577 ~ 1653) giurista, letterato e anche lui precettore del Cesi. Quarto ed ultimo membro era Anastasio de Filiis, (1577 ~ 1608) rampollo di un ramo collaterale della stessa famigli di Cesi, e segretario del gruppo. Nel 1610 era stato chiamato a far parte dell'accademia anche quel Giovambattista Della Porta, (1538 ~ 1615) che all'inizio aveva ironizzato sul cannocchiale di Galileo, ma che in seguito si era schiereto apertamente dalla parte del pisano. Della Porta, pur avendo aderito alla controriforma, si era visto più volte proibire la pubblicazione dei suoi testi dall'inquisizione, e alla fine gli era stato proibito perfino di scrivere di scienza! Il 14 aprile Cesi diede un banchetto in onore di Galileo. Fra gli invitati c'erano vari professori universitari, tra i quali spiccava Giuglio Cesare Lagalla, noto docente di logica all'università "La Sapienza" di Roma, che pubblicherà scritti contro le scoperte del pisano; ma nessuno di questi professori fu associato agli accademici, mentre il Galileo entrò a far parte dell'accademia prima ancora di lasciare Roma.
    Purtroppo Galileo non era un politico, e non si era accorto di quanto la maggior parte dei complimenti fossero vuoti e superficiali. Sotto le apparenze stava nascendo la peggior forma di opposizione alle nuove idee che si possa immaginare. Il 19 aprile Il cardinal Roberto Bellarmino, (1542 ~ 1621) gesuita, che all'epoca della condanna di Giordano Bruno , nel 1600, era cardinale dell'inquisizione, faceva scrivere ai docenti del "Collegio Romano" la seguente lettera firmata di suo pugno:

[Roma], 19 aprile 1611.

Molto Rev.di Padri,

   So che le RR. VV. hanno notitia delle nuove osservationi celesti di un valente mathematico per mezo d'un instrumento chiamato cannone overo ochiale; et ancor io ho visto, per mezo dell'istesso instrumento, alcune cose molto maravigliose intorno alla luna et a Venere. Però desidero mi facciano piacere di dirmi sinceramente il parer loro intorno alle cose sequenti:
Prima, se approvano la moltitudine delle stelle fisse, invisibili con il solo ochio naturale, et in particolare della Via Lattea et delle nebulose, che siano congerie di minutissime stelle;

2°, che Saturno non sia una semplice stella, ma tre stelle congionte insieme;
3°, che la stella di Venere habbia le mutationi di figure, crescendo e scemando come la luna;
4°, che la luna habbia la superficie aspera et ineguale;
5°, che intorno al pianeta di Giove discorrino quattro stelle mobili, et di movimenti fra loro differenti et velocissimi.
Questo desidero sapere, perchè ne sento parlare variamente; et le RR. VV., come essercitate nelle scienze mathematiche, facilmente mi sapranno dire se queste nuove inventioni siano ben fondate, o pure siano apparenti et non vere. Et se gli piace, potranno mettere la risposta in questo istesso foglio.

Di casa, li 19 d'Aprile 1611.
Delle RR. VV.
Fratello in Christo

   Roberto Bellarmino in quel periodo era uno degli esponenti più in vista della controriforma. Entrato nell'ordine dei gesuiti nel lontano 1560, aveva recepito pienamente l'ideologia dell'ordine riguardante l'indiscutibile superiorità della chiesa romana nei confronti di qualsivoglia autorità terrena. Ordinato cardinale, contro la sua volontà nel 1598, con tutta probabilità sarebbe arrivato al soglio pontificio nel conclave del 1605 che elesse Paolo V (Camillo Borghese 1552 ~ 1621) se non avesse rifiutato la candidatura. Come teologo di Paolo V era stato l'avversario di Paolo Sarpi nella disputa tra Venezia e papato che aveva portato all'espulsione dei Gesuiti dalla repubblica, e, sempre profondamente convinto della superiore autorità della chiesa, polemizzò a lungo con Giacomo I d'Inghilterra rendendosi inviso agli inglesi, tanto da venir identificato con il "Papismo". Socialmente si adoperò per un miglioramento delle condizioni delle classi inferiori e per una moralizzazione della chiesa. Nel 1929 è stato fatto santo e dottore della chiesa.
    Il 22 Aprile Galileo fu ricevuto da Paolo V, il quale, come riferì lo stesso Galileo, "
... non comportò, che io dicessi pure una parola in ginocchioni..." e sopratutto non sollevò alcuna obbiezione teologicha circa le nuove scoperte. Due giorni dopo i padri gesuiti risposero al Bellarmino in questi termini:

Roma, 24 aprile 1611.
Responderemmo in questa carta conforme al commandamento di V. S. Ill.ma intorno alle varie apparenze che si vedono nel cielo con l'occhiale, et con lo stesso ordine delle proposte che V. S. Ill.ma fa.
Alla prima, è vero cha appaiono moltissime stelle mirando con l'occhiale nelle nuvolose del Cancro e Pleiadi; ma nella Via Lattea non è così certo che tutta consti di minute stelle, et pare più presto che siano parti più dense continuate, benchè non si può negare che non ci siano ancora nella Via Lattea molte stelle minute. È vero che, per quel che si vede nelle nuvolose del Cancro et Pleiadi, si può congetturare probabilmente che ancora nella Via Lattea sia grandissima moltitudine di stelle, le quali non si ponno discernere per essere troppo minute.
Alla 2a, habbiamo osservato che Saturno non è tondo, come si vede Giove e Marte, ma di figura ovata et oblonga in questo modo ; se bene non habbiam visto le due stellette di qua et di là tanto staccate da quella di mezzo, che possiamo dire essere stelle distinte.
Alla 3a, è verissimo che Venere si scema et cresce come la luna: et havendola noi vista quasi piena, quando era vespertina, habbiamo osservato che a puoco a puoco andava mancando la parte illuminata, che sempre guardava il sole, diventando tutta via più cornicolata; et osservatala poi matutina, dopo la congiontione col sole, l'habbiamo veduta cornicolata con la parte illuminata verso il sole. Et hora va sempre crescendo secondo il lume, et mancando secondo il diametro visuale.
Alla 4a, non si può negare la grande inequità della luna; ma pare al P. Clavio più probabile che non sia la superficie inequale, ma più presto che il corpo lunare non sia denso uniformemente et che abbia parti più dense et più rare, come sono le macchie ordinarie, che si vedono con la vista naturale. Altri pensano, essere veramente inequale la superficie; ma infin hora noi non habbiamo intorno a questo tanta certezza, che lo possiamo affermare indubitamente.
Alla 5a, si veggono intorno a Giove quattro stelle, che velocissimamente si movono hora tutte verso levante, hora tutte verso ponente, et quando parte verso levante, et quando parte verso ponente, in linea quasi retta: le quali non possono essere stelle fisse, poichè hanno moto velocissimo et diversissimo dalle stelle fisse, et sempre mutano le distanze fra di loro et Giove.
Questo è quanto ci occorre in risposta alle domande di V. S. Ill.ma: alla quale facendo humilissima riverenza, preghiamo dal Signor compiuta felicità.

Dal Collegio Romano, li 24 d'Aprile 1611.

Di V. S. Ill.ma et R.ma

      Risulta chiaro che, anche fra i gesuiti, i personaggi competenti non avevano dubbi sulla realtà delle scoperte di Galileo, ma, come accade ancor oggi, il giudizio degli esperti è quello che ha minor valore all'interno delle stanze di potere! Da rilevare la debole opposizione di padre Clavio alla reale imperfezione della superfice lunare che in futuro avrebbe avuto serie conseguenze.
    E' bene ricordare che all'inizio del '600 per la chiesa, e non solo quella romana, il cielo era ancora la sede fisica in cui abitavano i beati, quindi parte del paradiso, (Rammento in proposito la meravigliosa preghiera: "Padre nostro che sei nei cieli!...") e di conseguenza aristotelicamente perfetto e immutabile.
   Nello stesso periodo il cardinal Bellarmino, probabilmente non troppo soddisfatto dalla risposta dei padri del Collegio Vaticano, anziché prendere atto della chiara risposta dei matematici, chiedeva informazioni all'inquisizione veneta su di un eventuale coinvolgimento di Galileo nell'indagine per eresia cui era sottoposto il Cremonini; ma per il momento la cosa si fermo lì.
    Il 6 maggio 1611, mentre Galileo era ancora a Roma, Paolo Gualdo, (1553 ~ 1621) arciprete dell cattedrale di S. Antonio a Padova e sincero amico dello stesso Galileo col quale era rimasto in corrispondenza anche dopo che questi si era trasferito a Firenze, scrvendogli per informarlo delle ultime novità venete, lo metteva in guardia dal sostenere opinioni che al senso comune potessero apparire troppo azzardate:

...Che la terra giri, sinhora non ho trovato nè filosofo nè astrologo che si voglia sottoscrivere all'opinione di V. S., e molto meno lo vorrano fare i theologi: pensi adunque bene, prima che asseverantemente publichi questa sua opinione per vera, poichè molte cose si possono dire per modo di disputa, che non è bene asseverarle per vere, massime quando s'ha l'opinione universale di tutti contra, imbibita, si può dire, ab orbe condito. Perdonami V. S., perchè il gran zelo ch'io ho della sua reputatione mi fa parlare in questo modo. A me par che gloria s'habbia acquistata con l'osservanza nella luna, ne i quattro Pianeti, e cose simili, senza pigliar a diffendere cosa tanto contraria all'intelligenza e capacità de gli huomini, essendo pochissimi quelli che sappiano che cosa voglia dire l'osservanza de' segni et aspetti celesti...

    Anche se le osservazioni contenute nella missiva non si possono certo definire scientifiche, è certo che il consiglio non era opera di uno sprovveduto, ma dopo i trionfi romani probabilmente Galileo si sentiva inattaccabile, quindi non se ne diede per inteso.
    Nonostante i notevoli impegni "sociali" e gli acciacchi fisici, in gran parte dovuti alla sua intemperanza, Galileo non aveva abbandonato le sue osservazioni. Da una lettera di un suo ex allievo, Daniello Antonini, datata 24 giugno 1611 siamo a conoscenza del fatto che a quella data il pisano avesse già determinato il periodo dei satelliti di Giove con notevole precisione, come possiamo verificare nella tabella.

Satellite

Periodo determinato da Galileo periodo secondo i dati attuali
Io

1 gg 18h 50'

1 gg 18h 29'
Europa 3 gg 13h 3' 3 gg 13h 12'
Ganimede 7 gg 4h 7 gg 3h 36'
Callisto 16 gg meno di 18h 16 gg 16h 48'

    Inevitabilmente l'arrivo a Firenze del "famoso" Galilei aveva messo in ombra molti fra gli "illustri dottori" abituali frequentatori della corte medicea. Questi servendosi di chiacchiere e adulazione riuscivano a strappare diversi benefici ai governanti. Come c'era da aspettarsi, i trionfi romani di Galileo avevano ulteriormente peggiorato la situazione di simili personaggi. Fra questi uno dei più in vista era quel Ludovico Delle Colombe (1565 ~ 1615?) che a suo tempo era stato messo in ridicolo da Galileo per il suo "Discorso" a proposito della nuova stella apparsa nel 1604 e che dal lontano 1598 era membro dell'"Accademia Fiorentina". Il Delle Colombe non si era dimenticato di quelli che, secondo lui, erano torti subiti. Il 27 maggio 1610  aveva scritto a padre Clavio una lettera in cui traspariva la sua acredine nei confronti del pisano. In tale lettera così si esprimeva:

...mi piace ch'ella in particolare non approvi che la luna sia di superficie ineguale e montuosa, come crede e vorrebbe persuadere il Sig. Galileo. ...
... il punto consiste più della differenza tra me ed il Sig. Galileo, ch'egli tiene ch'elle [montagne]siano nella superficie, a guisa della terra ch'è circondata dall'aria; ed io tengo ch'elle siano per entro quel corpo, e non nella superficie, perchè sono parti più dense, e il restante del corpo sia ripieno di parti più rare, sicchè sia tutto un corpo, con una sola superficie liscia e in niuna parte diseguale o dentata; ma perchè il senso viene in tanta distanza ingannato, non si vedendo quelle parti rare, perchè il sole non vi reflette con i suoi raggi, di qui è che quel corpo pare ineguale, e non polito e sferico, perchè non si termina la vista in quelle parti; siccome farebbe una gran palla di cristallo, ...
... massimamente ch'essendo la figura sferica la più perfetta, è conveniente che l'abbiano i corpi e globi celesti;...

   L'idea, non nuova, era già stata proposta al Clavio da Johann Brengger  (? ~ 1629) medico di Augusta, che a suo tempo aveva studiato a Padova; ma, come succede abbastanza spesso, gli incompetenti tendono a cadere in tranelli da loro stessi creati. Galileo ricevette copia della lettera del Delle Colombe da Gallanzone Gallanzoni, segretario del cardinale Francesco di Joyeuse, verso fine giugno o inizio luglio. Il 16 luglio rispose allo stesso Gallanzoni con un'esauriente e dura lettera in cui mostrava ancora una volta la sua razionalità.
    Già nel preambolo affermava: "
...quanto veggo, questo esser l'ultimo refugio di quei filosofi, li quali vorriano pure accomodare le opere della natura alle loro inveterate opinioni...". Dopo aver precisato di essere a conoscenza dell'obiezione, che a suo tempo gli era già stata trasmessa da Marco Welser, ed aver esaminato con obbiettività cosa si intendesse con il termine "Luna", osservava che anche gli autori dell'obiezione non negavano la rugosità della stessa luna, ma volendo piegare la natura alle loro idee, sostenevano un'ipotesi alla quale "...solo gli manca il non essere nè dimostrata nè dimostrabile. ..." e subito rincarava la dose affermando: "... chi non vede che questa è una pura et arbitraria finzione, ...". Più avanti demoliva l'ipotesi in questione affermando:

...se altri dirà che la [luna] è circondata sfericamente da un trasparente ma invisibile cristallo, io volentieri lo concederò, pur che con pari cortesia sia permesso a me il dire che questo cristallo ha nella sua superficie grandissimo numero di montagne immense, et trenta volte maggiori che le terrene, le quali, per esser di sustanzia diafana, non possono da noi esser vedute; et così potrò io figurarmi un'altra [luna] dieci volte più montuosa della prima. ...

    Quanto alla supposta perfezione della forma sferica, Galileo spiegava come tale perfezione non fosse altro che "... l'errore di molti, i quali vogliono fare il loro sapere et intendere misura dell'intendere et sapere di Dio, sì che solo perfetto sia quello che loro intendono esser perfetto...", inoltre nella stessa lettera il pisano metteva apertamente in ridicolo altre affermazioni contenute in diversi scritti del Delle Colombe, fino ad affermare: "...sono errori tanto grossolani, che generano meraviglia immensa come possino ritrovarsi al mondo cervelli così stolidi, che di sì solenni scempiaggini siano capaci...". Galileo aveva perfettamente ragione, ma la sua lettera era anche un perfetto manuale su: "Come procurarsi dei nemici", e, come ho avuto occasione di affermare più volte, "...anche se è vero che il raglio d'asino non sale in cielo, sulla terra può arrivare molto, ma molto, in alto!...", e Delle Colombe oltre a non essere tipo da stare zitto, era anche un intrigante vendicativo.
    Benchè non ci siano testimonianze in merito, è certo che Delle Colombe venne a conoscenza della lettera di Galileo, ed è altrettanto certo che si mise in aguato per rendere pan per focaccia.
    L'occasione per rifarsi, almeno secondo il pensiero del Delle Colombe, non tardò più di tanto. Ai primi di agosto, durante una cena in compagnia dell'amico Filippo Salviati (1582 ~ 1614) e di altri filosofi, fra i quali spiccava Vincenzo Di Grazia docente a Pisa, mentre si parlava di condensazione come fenomeno dovuto al freddo, Di Grazia propose come esempio il ghiaccio che, a suo dire, non era altro che acqua condensata. Galileo obbiettò, basandosi sul principio di Archimede, che il ghiaccio non poteva essere acqua condensata , ma poiché galleggiava, doveva considerarsi piuttosto acqua rarefatta. Di Grazia si impuntò, affermando che il ghiaccio non affondava in quanto essendo piatto, non riusciva a fendere l'acqua. Ovviamente Galileo
fece rilevare come una lastra di ghiaccio sommersa a forza, a dispetto della forma, ritornasse a galleggiare. Quando un altro fra i presenti, fece rilevare che una spada colpendo l'acqua di taglio non incontra molta resistenza, mentre di piatto affonda con difficoltà, ancora una volta Galileo spiegò che la forma poteva influire sulla velocità con cui un corpo affondava o riemergeva, ma non mutava il fatto che i corpi più pesanti dell'acqua affondavano e quelli più leggeri galleggiavano. La discussione, cosa facilmente prevedibile, finì con i partecipanti arroccati sulle proprie posizioni. Qualche giorno dopo il Di Grazia informò Galileo che c'era chi era pronto a dimostrare con esperimenti che la forma dei corpi aveva influenza sul galleggiamento in acqua degli stessi... Il personaggio in questione era il Delle Colombe, il quale pur non essendo presente alla cena incriminata, non voleva perdere l'occasione di far fare brutta figura a Galileo!
    Galileo propose una sfida in piena regola, proponendo al Delle Colombe di dimostrare come una sfera di un determinato materiale che affonda nell'acqua, una volta assunta una forma diversa potesse galleggiare.
    Il Delle Colombe usò per i suoi esperimenti legno di ebano, il cui peso specifico, lievemente superiore, ma quasi uguale al peso specifico dell'acqua, permetteva alla tensione superficiale del liquido di tenere a galla sottili assicelle dello stesso materiale  parzialmente asciutto, mentre solidi più massicci come cilindri e sfere, affondavano. Sentendosi sicuro e convinto di poter finalmente far fare brutta figura al suo rivale, Delle Colombe, diede la massima diffusione ai suoi esperimenti.
Nei giorni seguenti, utilizzando vari oggetti di ebano, mostrò a chi voleva, e anche a chi non voleva, come la forma influisse sul galleggiamento degli corpi.
    Probabilmente Galileo, alquanto sorpreso dagli eventi, fece privatamente gli stessi esperimenti, accorgendosi come bagnando in anticipo le assicelle, eliminando così la tensione superficiale del liquido, queste affondassero regolarmente, cosa che l'ingenuo Delle Colombe, rifacendo le sue prove, dovette forse constatare. Fatto sta che al momento di eseguire gli esperimenti di fronte a giudici imparziali, il Delle Colombe non si fece vivo.
    Galileo riformulò i termini della contesa, specificando come i materiali usati nell'esperimento dovessero essere preventivamente immersi nell'acqua e comunicò al rivale i nuovi termini della sfida.
    Nel frattempo la disputa da tecnica era diventata verbale e pubblica, in città si erano formate due fazioni alquanto litigiose. Fu a questo punto che intervenne il granduca Cosimo II. A settembre 1611, durante un banchetto a corte, al quale erano presenti i cardinali Maffeo Barberini (che incontreremo più tardi come papa Urbano VIII) e Ferdinando Gonzaga, lo stesso granduca introdusse la discussione sui galleggianti; il Barberini sosteneva la tesi di Galileo mentre il Gonzaga la criticava. Cosimo II "consigliò" a Galileo di non sollevare scalpore ma pubblicare le sue ragioni per iscritto. Al successivo incontro con Delle Colombe, Galileo non perse tempo a discutere e si limitò ad affermare che avrebbe messo per iscritto le sue argomentazioni.
    Il risultato fu quel "
Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua o che in quella si muovono"  nel quale Galileo metteva, come sempre, in evidenza le sue doti di razionale divulgatore, ma anche di polemico. Dopo un rapido richiamo alle sue ultime scoperte astronomiche, in cui accennava fra l'altro alle macchie solari, nel suo trattato mostrava di aver chiaramente rilevato il fenomeno che noi chiamiamo "tensione superficiale dei liquidi" e riferendosi costantemente alle teorie aristoteliche del filosofo Buonamici, sulle quali con tutta probabilità si basavano i discorsi del Delle Colombe, Galileo richiamandosi allle idee di Archimede, pur senza mai nominarlo castigava duramente per l'ennesima volta sia il rivale che il sistema di ragionare dei peripatetici.
    La questione, come possiamo facilmente immaginare, non si fermò lì, ma come vedremo,  si trascinò a lungo.

    Il "Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua o che in quella si muovono" , la cui stesura era iniziata negli ultimi mesi del 1611, venne pubblicato nella primavera successiva; ma mentre Galileo probabilmente era ancora impegnato nella stesura, il 16 dicembre 1611 Lodovico Cardi da Cigoli, linceo e pittore (1559 ~ 1613), lo avvisava da Roma che: "...una certa sciera di malotichi et invidiosi della virtù et dei meriti di V. S. si radunano e fanno testa in casa lo Arcivescovo, et come arrabbiati vanno cercando se vi possono apuntare in cosa alcuna sopra il moto della terra od altro, et che uno di quelli pregò un predicatore che lo dovesse dire im pergamo che V. S. dicesse cose stravaganti...". Fortunatamente per il momento il vescovo si oppose ad una simile eventualità, ma appare più che evidente che già alla fine del 1611 si era formata una specie di associazione antigalileo che essendo sempre più priva di argomenti validi, era disposta a ricorrere ad ogni mezzo pur di demolire il crescente prestigio di cui godeva il pisano.
    Purtroppo per Galileo era solo un timido inizio.
    Intanto, il 12 novembre 1611, Scheiner Christoph (1573 ~ 1650), gesuita, docente presso l'università di Friburgo ed esperto di ottica, scriveva a Marco Welser la prima delle sue tre lettere sull'osservazione delle macchie solari. Il 18 novembre Welser ne dava notizia al linceo Giovanni Faber in Roma, e il 3 dicembre il "presidente" dei Lincei Federico Cesi comunicava la scoperta a Galileo. Lo stesso Faber il 15 dicembre chiedeva direttamente a Galileo chiarimenti in merito. Prima della fine dell'anno lo Scheiner scriveva al Welser altre due lettere sull'argomento, e finalmente lo stesso Welser il 6 gennaio 1612, inviava a Galileo copia delle tre lettere firmate con lo pseudonimo Apelle.
    A ben guardare le macchie solari non erano una gran novità. I Fabricius, David il padre e Joannes il figlio, le avevano gia osservate da qualche tempo; anzi Joannes, nella seconda metà del 1611, aveva pubblicato un'opera sull'argomento. Galileo, che, come risulta dalla corrispondenza con diversi personaggi, le aveva mostrate a numerosi testimoni durante il suo soggiorno a Roma nella primavera del 1611 senza attribuire al fenomeno una grande importanza, rivendicò, con notevole accanimento, la priorità della scoperta. Ma il problema, se problema c'era, consisteva più nell'interpretare il significato fisico delle stesse macchie che nella novità della scoperta.
    Apelle (pseudonimo assunto dallo Scheiner Christoph), che molto probabilmente usava un cannocchiale kepleriano (costituito da due lenti convergenti) e quindi vedeva le immagini rovesciate ma più nitide e con un angolo visivo più ampio, ne dava un'interpretazione vincolata alla tradizione; come gesuita, era un aristotelico convinto e cercava di dare una spiegazione alle nuove scoperte telescopiche nell'ambito del vecchio sistema. Egli riteneva il sole perfetto, immutabile e incorruttibile, perciò considerava le macchie alla stregua dei satelliti medicei di Giove; cioè corpi oscuri che ruotavano attorno allo stesso, e affermava che dette macchie erano molto più scure di quelle visibili sulla luna. Sosteneva inoltre che osservando probabili transiti di Venere sul sole sarebbe stato possibile determinare in modo inequivocabile se il pianeta percorreva un'orbita  attorno al sole  o un epiciclo sotto di esso. 
    Molto probabilmente non appena Galileo lesse le lettere dello
Scheiner, apportò diverse modifiche al suo "Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua o che in quella si muovono" e una volta datolo alle stampe cercò di diffonderlo il più possibile. Tra i vari personaggi a cui inviò il suo "discorso" c'era anche quel cardinal Bellarmino che il 23 giugno 1612 ringraziava Galileo con una breve lettera, senza sollevare alcuna obiezione teologica alle idee contenute.
    Tuttavia molti filosofi, uno per tutti, quel Giulio Cesare Lagalla che Galileo aveva incontrato presso i lincei l'anno precedente, cercavano di difendere ad oltranza la filosofia e la concezione dell'universo di Aristotele. Il Lagalla all'inizio del 1612 aveva pubblicato la sua "De phoenomenis in orbe lunae physica disputatio" in cui senza nemmeno porsi il problema se le osservazioni delle montagne lunari fossero vere o meno, affermava testualmente:

"... poiché ci potrebbe essere ancora qualcuno che ritiene che le cose che si vedono sulla Luna siano vere al pari di quelle che accadono sulla terra,e crede che esistano molti globi terrestri simili al nostro....  ...sarà opportuno ponderare anche questa opinione, così che la verità del quesito possa rendersi più facilmente manifesta per induzione, ovvero attraverso l'esame delle singole opinioni alle quali questi fenomeni possono riferirsi, ...
Lagalla proseguiva riassumendo le teorie di Democrito su un universo infinito formato da infiniti atomi che avrebbero potuto formare, a caso, molti mondi come la terra e accennando a Giordano Bruno, reo di aver "...resuscitato dagli inferi questa sentenza... ...e ora, questa nuova osservazione di Galileo circa i quattro satelliti di Giove e i due di Saturno é stata interpretata da alcuni con favore, da altri con sospetto, come conferma di quell'opinione...
... risulta conclusivo l'argomento sopra ricordato da San Tommaso, ovvero: se i mondi sono molti, allora o presentano la medesima disposizione, o diverse. Nel primo caso, la loro esistenza sarebbe inutile, bastando un solo mondo a contenere la perfezione di tutti