La spiritualità degli atei
da "la Repubblica" del 28 febbraio 2007
Ormai in Italia il confronto tra credenti cattolici e non
cristiani, agnostici o atei è sempre più segnato da conflittualità e polemiche
che a volte diventano derisione e disprezzo reciproco. Va detto con franchezza:
siamo lontani dallo spirito espresso da Paolo VI con parole ormai dimenticate:
"Noi dedichiamo uno sforzo pastorale di riflessione per cercare di cogliere
negli atei nell'intimo del loro pensiero i motivi del loro dubbio e della loro
negazione di Dio".
E' vero che oggi l'ateismo militante non è più attestato come negli anni
sessanta, ma l'orizzonte agnostico, oggi ancor più esteso di allora, richiede in
realtà lo stesso sforzo da parte dei cristiani per tessere un dialogo che si
nutra di ricerca comune, di ascolto, di dibattito tra vie diverse. Invece da una
parte, quella dei credenti, le posizioni sono sovente difensive perché nutrite
di paura e di vittimismo, mentre da parte di alcuni non cristiani si arriva a
deridere la fede, ad affermare che proprio i cristiani sono incapaci di avere
un'etica, che la fede è fomentatrice di integralismo, intolleranza e violenza.
Veementi attacchi anticristiani da una parte, dall'altra mancanza di ascolto e
persino demonizzazione del "non credente", giudicato "incapace di moralità".
E così, qua e là echeggia una parola di Dostoevskij: "Se Dio non esiste, tutto è
permesso!", considerando chi non crede come persona priva di spiritualità e di
morale. Ma allora, è praticabile un dialogo convinto, rispettoso, capace di
essere anche fecondo? E' possibile che i non credenti si confrontino con i
cristiani sulle domande attorno al senso della vita? E' possibile che il cammino
di "umanizzazione", essenziale all'umanità per non cadere nella barbarie, sia
percorso insieme? Ma affinché questo cammino si apra occorrono alcune urgenze
che cerco di delineare.
Agnostici e atei non credono in Dio, non si sentono coinvolti da questa presenza
perché non la sentono reale, ma sono consapevoli che invece le religioni che
professano Dio fanno parte della storia umana, della società, del mondo. Come
essi non trovano ragioni per credere, altri invece le trovano e sono felici: gli
uni pensano che questo mondo basti loro, gli altri sono soddisfatti di avere la
fede. Ma proprio questo fa dire che l'umanità è una, che di essa fanno parte
religione e irreligione e che, comunque, in essa è possibile, per credenti e non
credenti, la via della spiritualità. Spiritualità non intesa in stretto senso
religioso, ma come vita interiore profonda, come fedeltà-impegno nelle vicende
umane, come ricerca di un vero servizio agli altri, attenta alla dimensione
estetica e alla creazione di bellezza nei rapporti umani. Spiritualità,
soprattutto, come antidoto al nichilismo che è lo scivolo verso la barbarie:
nichilismo che credenti e non credenti dovrebbero temere maggiormente nella sua
forza di negazione di ogni progetto, di ogni principio etico, di ogni ideologia.
Purtroppo questo nichilismo viene sovente definito relativismo, finendo per
confondere il linguaggio del dialogo e del confronto e portando
all'incomprensione reciproca. Ed è lo stesso nichilismo che, paradossalmente,
può assumere la forma del fanatismo in cui ci sono certezze assolute,
dogmatismi, intolleranza che accecano fino a rendere una persona disposta a
morire e a far morire.
No al nichilismo, dunque, ma allora emerge l'urgenza di riconoscere la presenza
di una spiritualità anche negli atei e negli agnostici, capaci di mostrare che,
se anche Dio non esiste, non per questo ci si può permettere tutto: persone che
sanno scegliere cosa fare in base a principi etici di cui l'uomo in quanto tale
è capace. E la grande tradizione cattolica chiede ai cristiani di riconoscere
che l'uomo, qualsiasi essere umano, proprio perché, secondo la nostra fede, è
creato a immagine e somiglianza di Dio, è "capax boni", capace di discernere tra
bene e male in virtù di un indistruttibile sigillo posto nel suo cuore e della
ragione di cui è dotato. I non credenti sono capaci di combattere l'orrore, la
violenza, l'ingiustizia; sono capaci di riconoscere "principi" e "valori", di
formulare diritti umani, di perseguire un progresso sociale e politico
attraverso un'autentica umanizzazione.
Si tratta, per tutti, di essere fedeli alla terra, fedeli all'uomo, vivendo e
agendo umanamente, credendo all'amore, parola sì abusata oggi e sovente svuotata
di significato, ma parola unica che resta nella grammatica umana universale per
esprimere il "luogo" cui l'essere umano si sente chiamato. Credenti e non
credenti non possono essere insensibili ad affermazioni che percorrono come un
adagio i testi biblici e che sono stati ripresi dalla tradizione: "Solo l' amore
è più forte della morte... Solo l'amore resterà per l'eternità...". Del resto la
fede - questa adesione a Dio sentito come una presenza soprattutto a causa del
coinvolgimento che il cristiano vive con Gesù Cristo - non sta nell'ordine del
"sapere" e neppure in quello dell'acquisizione: si crede nella libertà,
accogliendo un dono che non ci si può dare da sé. Analogamente gli atei,
nell'ordine del sapere non possono dire "Dio non c'è": è, infatti,
un'affermazione che possono fare solo nell'ambito della convinzione.
Vorrei che noi cristiani potessimo ascoltare atei e agnostici, potessimo
confrontarci con loro, senza inimicizie, soprattutto attraverso un confronto
delle nostre spiritualità, di ciò che in profondità ci muove nel nostro agire.
Lo spirito dell'uomo è troppo importante perché lo si lasci nelle mani di
fanatici e di intolleranti oppure di spiritualisti alla moda. Certo, ogni
religione si nutre di spiritualità, ma c'è posto anche per una spiritualità
senza religione, senza Dio.
Ma nella specifica situazione italiana dovremmo prestare attenzione anche ad un
altro elemento, facendo tesoro di un aneddoto storico. Mussolini confidò un
giorno al suo ministro degli Esteri: "Io sono cattolico e anticristiano!". Eredi
di questa posizione se ne possono trovare tuttora in Italia: persone non
credenti né in Cristo né nel suo vangelo, ma pronti a difendere valori culturali
"cattolici". Non è questo che intendo quando parlo di spiritualità degli atei:
penso invece a un sentire che rende possibile un confronto proprio sui valori
del Vangelo, sul suo messaggio umanizzante a servizio dell'uomo.
Credo ci sia posto per una spiritualità degli agnostici e dei non credenti, di
coloro che sono in cerca della verità perché non soddisfatti di risposte
prefabbricate, di verità definite una volta per tutte. E' una spiritualità che
si nutre dell'esperienza dell'interiorità, della ricerca del senso e del senso
dei sensi, del confronto con la realtà della morte come parola originaria e con
l'esperienza del limite; una spiritualità che conosce l'importanza anche della
solitudine, del silenzio, del pensare, del meditare. E' una spiritualità che si
alimenta dell'alterità: va incontro agli altri, all'altro e resta aperta
all'Altro se mai si rivelasse. Ne La Peste, Camus scriveva: "Poter essere santi
senza Dio è il solo problema concreto che io oggi conosco". Oggi potremmo
parafrasare questa affermazione dicendo che il solo autentico problema è essere
impegnati in una ricerca spirituale al fine di fare della vita umana un'opera
d'arte, un cammino di piena umanizzazione. Sì, in Francia pensatori come Luc
Ferry o André Comte-Sponville, non cristiani e non credenti, propongono nella
lotta contro la barbarie incipiente una spiritualità anche per gli atei. Da noi
in Italia, invece, alcuni paiono esercitarsi a offendere la fede dei credenti e
a negarsi reciprocamente la capacità di etica universale, di umanesimo... Io
resto testardamente convinto che, in quanto esseri umani, non siamo estranei gli
uni agli altri e che siamo pertanto chiamati ad ascoltarci e a cercare insieme.