Per confine della terra il giallo delle ginestre contro l'azzurro del mare
(inviato da Euro M.)

L’appennino ligure a levante di Genova precipita sulla Riviera da quel crinale che, avendo come capo il monte Fasce, si estende parallelamente alla costa proteggendo dalla salsedine la valle Fontanabuona oppure, a seconda dei gusti, proteggendo la costa dal gelo continentale.
Da più punti si staccano avamposti rocciosi appena protetti da una peluria erbosa e intenti, si direbbe, a scrutare la misteriosa profondità del mare. Sulla loro testa protesa, a volte, una modesta piana raramente boschiva eletta per eremitica aspirazione a luogo di culto.
La terrazza naturale sulla quale sorge la cappelletta di Santa Croce, tra Bogliasco e Pieve, è uno dei posti più belli del mondo.

Avevamo deciso, io e il mio filo di Arianna, di raggiungere la cima partendo nel tardo pomeriggio per cenarvi con l’ultimo sole. Il percorso richiede meno di un’ora di cammino lungo una mulattiera che all’inizio costeggia villette coraggiose (per restauri recenti lontano dalla carreggiabile oppure per la conservazione di antichi presìdi contadini), poi solo confini di pietra a secco apparentemente privi di significato. E una via crucis work in progress perché sembra ogni volta, per chi la osserva distratto, crescere di qualche nuova "stazione". Si arriva alla cima né troppo stanchi né troppo sudati per la calura, pronti a godere pienamente del panorama conquistato.

La piana erbosa sembra un tappeto dove distendersi, l’ampio muretto che la delimita ha la comodità di un sedile aereo perché al di là precipita la collina verso l’Aurelia e il mare, il cordolo sotto alla chiesa ha per schienale l’alta parete, assolata e protettiva. E poi ci sono i tavoli con le panche, sistemati con un gusto tutto ligure, raro e impeccabile nella sua integrazione con l’ambiente.

Il posto era già animato da sei ragazzi sui quindici anni che manifestavano rumorosamente il loro senso di libertà. Scorrazzavano alla ricerca della poca legna secca per poter accendere un fuoco, ma già esalavano il fumo delle sigarette che avrebbero consumato a decine, senza altro gusto che quello della trasgressione. Il piccolo rifugio attiguo alla chiesa era invaso dai loro coloratissimi zaini scolastici colmi delle abbondanti cibarie preparate da qualche mamma. Sul tetto della costruzione, al riparo dal piccolo lucifero cane che ci aveva saltellato attorno per un tratto di strada e che, in un primo tempo, avevamo creduto al seguito del gruppo, era deposto un fagotto piumato che sembrava piccioni. Invece si trattava di starne uccise da uno dei ragazzi in una battuta di caccia con suo padre.

La nostra tavola apparecchiata era elegante quanto tutto ciò che avevamo attorno fino all’orizzonte. Almeno per la tovaglia di lino e per i calici di cristallo colmi di spumante brut conservato fresco secondo etichetta.

Il Promontorio di Portofino si stagliava a levante delimitando il Golfo Paradiso. Il mare racchiuso da quelle balze e dall’arco di terra fino a Recco appariva di un blu profondo e familiare, mentre il resto del golfo ligure esprimeva tutti i celeste possibili in virtù dell’ora, della posizione del sole e delle sorgenti sottomarine di acqua dolce. A ponente la costa si estendeva all’infinito, fino a capo Noli, capo Mele, Imperia e forse la Francia: il mare, una strisciolina di terra colonizzata, sopra di essa l’appennino scuro nel controluce e, sopra ancora, le alpi Marittime con le loro riconoscibili vette tuttora in parte innevate. Sulla destra, come una cornice, Genova. Una città misteriosa e bellissima, solare e scura di carruggi e traffici, cosmopolita e contagiosa nella sua genovesità, aperta al mare e protetta dalle severe mura di cinta, distesa come un manto urbano e scoscesa lungo le sue ripide creuse. Insomma una sorprendente ed affascinante moltitudine di contraddizioni.

Alcuni tra i ragazzi erano saliti sul tetto di cemento per censire l’orizzonte: la Corsica proprio di fronte e poi la Gorgona, forse anche l’Isola d’Elba e la Capraia verso la Toscana. Noi eravamo già parte del quadro crepuscolare, dorati dalla luce di un lunghissimo tramonto solstiziale. Oltre il basso parapetto al quale era accostato il nostro tavolo da pranzo vedevamo solo, per confine della terra, il giallo delle ginestre contro l’azzurro del mare

Finalmente la musica inevitabile. Il gruppetto aveva ingolfato di panini e lattine un tavolo di prima classe - protetto dalla parete del rifugio, dominante la mulattiera e con vista anche sull’entroterra montuoso di Antola, Caucaso, Caravaggio e Ramaceto, al centro di un "tempietto" di assi nude ma destinate a pergolato - e sistemato l’amplificatore tra noi e loro. A quell’ora, la cittadina Radio Babboleo trasmetteva in continuazione musica da discoteca, quello che ci voleva per sentirci, una volta di più, trasgressivi ed esploratori di eterogenee sensazioni da prima estate.
Senza contaminazione alcuna tra due realtà generazionali ed estetiche – l'apparecchiatura pretenziosa e le figure sedute sulla cima della costruzione o erette a scrutare l’orizzonte – il luogo aveva prodotto la sua alchimia accomunandoci tutti in una atmosfera crepuscolare e di magica attesa. Il sole si avviava lentamente al tramonto arrossando il cielo verso ponente.

Uno dei ragazzi era rimasto seduto su una bassa panchina nonostante gli incitamenti degli amici a salire sul tetto. Per loro, l’ascesa era stata una conquista che aveva richiesto un po’ di abilità e forza nelle braccia. Ma alla fine non poteva essere un’avventura discriminante se tutti insieme avevano deciso di pernottare nel piccolo rifugio o sotto le stelle del santuario di Santa Croce. Lo scherno per l’imbranataggine si mescolava alla preoccupazione che alla fine quel loro compagno non ce la facesse e, dunque, tutti ad aiutarlo, a dargli suggerimenti. Un piede sul davanzale della finestrella, un ginocchio sul travetto del pergolato e un po’ di sforzo, un braccio teso, un amico che spinge dal basso… Lui sbuffava, quasi ce la faceva. Il viso rosso e congestionato, la rabbia e la vergogna e l’orgoglio andavano e venivano facendogli tornare in mente tutti gli inutili primati conquistati in altre circostanze. Adesso i compagni erano tutti sulla cima della torre e lui in basso esposto al nemico armatissimo del senso di inferiorità e inettitudine. Cosa spinge un ragazzo a farcela, vincere la paura della salite e della successiva discesa, la vertigine e il panico della prima sconfitta? l’incoraggiamento, i consigli, la solidarietà o, addirittura, gli sputi e i sassolini scagliati come estrema risorsa per provocare rabbia e gagliardezza, incoscienza e slancio aggressivo?

Alla fine ritornò la calma. Sorseggiavamo il nostro vino mentre il sole, immenso e pesante sopra il profilo delle alpi liguri, infuocava con gli ultimi bagliori una serata di prima estate.
Alle nostre spalle cinque sagome silenziose contro il cielo di levante formavano una figura indistinta e stupita. Sul prato, il nostro giovane conterraneo strappava ciuffi d’erba per scagliarli come in segno di protesta contro l’aria tiepida e incolpevole. La luce svaniva piano, piano ma non accompagnando, come sempre accade, la fine di alcuna storia.

                                                                                                                                            Euro M.

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