L’identità di dio
di Ariel Sanguinetti

Da "El dia" - B. A. - del 10 ottobre 2001

Le riflessioni di Josè Saramago comparse su "El Pais" alcuni giorni dopo la tremenda strage terroristica alle "Torri gemelle" mi sono parse così liberatorie e pressanti da farmi ripromettere di leggere tutti i suoi libri. Immagino l’opera di un autore che ha chiaro, in sé, il contesto relativo e terreno nel quale si muovono le illusioni degli uomini. La sua visione della religione come motivo discriminante tra i popoli è dolente e comprovata da vicende millenarie che non possono certo essere mitigate dai pentimenti manifestati negli ultimi attimi della Storia.

Eppure sono convinto che in questa nostra epoca di esplosiva diffusione delle informazioni, le religioni rappresentino la difesa dalla frantumazione delle identità culturali piuttosto che il propulsore dell’aggressione verso divinità estranee. Credo che l’appartenenza a gruppi religiosi – spesso neppure coincidenti con i popoli – manifesti il fondamentale problema dell’identità che investe le singole persone e, più in generale, le collettività.

La ricerca della propria identità e la sua conservazione rappresentano per ogni individuo, da sempre, una rassicurante conferma di esistenza sul palcoscenico del mondo e dell’intero universo. La certezza di operare nel modo migliore in ogni atto della nostra giornata, la determinazione delle inevitabili scelte, l’atteggiamento di fronte al mondo esterno corrispondono essenzialmente alla costante domanda "chi siamo noi?", "chi sono io?". La descrizione di noi stessi, che formiamo progressivamente dalla nascita, costituisce il dato di partenza e causale del comportamento. Molto probabilmente la medesima psicologia muove la storia dei popoli e delle collettività. Non c’è nulla di nuovo in queste osservazioni, ne sono consapevole. Sostengo solamente che il problema delle frequenti contrapposizioni causate da un dio dalle diverse facce sia "a valle" della difficile alchimia, o biochimica, della personalità individuale.

In un certo senso, la lezione dell’illuminismo, che indubbiamente influisce sul pensiero di un moderno intellettuale "laico" come Josè Saramago, non consiste (semplicemente) nella condanna della religione e di ogni divinità che pretenda di rendere assoluti i valori della nostra vita. Piuttosto nella prescrizione di rinunciare alla opzione della divinità nell’affrontare il quesito circa la sistemazione dell’uomo nell’universo. Come a dire che il problema è la definizione dell’individuo e dell’umanità piuttosto che il comodo (e storicamente e culturalmente costoso) ricorso alle soluzioni fideistiche e salvifiche.

Mi sono sempre chiesto, d’altra parte, il motivo per cui i cosiddetti credenti non affrontino con la più profonda serenità gli accidenti della vita, visto che tutto è rimandato al dopo. E i teologi che ricorrono al pretesto della debolezza umana per spiegare tanta ipocrisia, sembrano pervasi dello stesso vizio, aggravato dall’incauta certezza delle loro argomentazioni. Che, comunque, necessitano del fondamentale sostegno della Fede, così contraddetta dagli stessi adepti.

In realtà, quanti fedeli ci sono, veramente, sulla faccia della terra? Senza sostituirci ai giudici della Santa Inquisizione, quanti passerebbero al vaglio di una franca interrogazione dopo aver riconosciuto nella loro sottomessa devozione soltanto la necessità di una fiduciosa speranza? Non sarebbe tempo di considerare l’esiguo numero di rimanenti "santi disinteressati" come soggetti di una innocua (ma non sempre) patologia?

La circostanza dalla quale partire, dunque, è la pressante necessità dell’individuo di definire chiaramente sé stesso, di descriversi in un modo funzionale alla coerenza del comportamento. E in senso allargato, di ritrovarsi in una collettività che abbia chiare demarcazioni, confini, caratteristiche nelle quali riconoscersi.

Le religioni funzionano egregiamente come alvei protettivi nei quali è possibile trovare uno schema, un facsimile dell’uomo, una definizione dell’individuo - già discendente dalla divinità - alla quale attenersi. Ed anche la prescrizione dei fondamentali principi di comportamento. Così i canali entro i quali formulare le decisioni sono chiari e prestabiliti, la descrizione di sé si avvantaggia di un cliché approvato dalle sacre scritture. Con la certezza di ritrovarsi in gruppi caratterizzati da un forte senso di appartenenza.

Naturalmente sarebbe auspicabile uno sviluppo delle culture e delle società tale da favorire la libera formazione, in ciascun cittadino, di una articolata consapevolezza di sé e della propria unicità. Ma se questo processo è storicamente lento, legato anche alla diffusione del benessere, dell’istruzione e dell’informazione, in un’epoca di globalizzazione forzata esso rischia addirittura la paralisi per una sorta di collasso tra realtà tecnologiche affatto difformi. L’abbandono delle religioni, il rinnegamento di dio, come auspica lo scrittore, porterebbero molte popolazioni a riconoscersi improvvisamente "nude" di una robusta corazza protettiva. Provo a immaginare quei "talebani" afgani: privati della loro pretestuosa fede rimangono pur sempre giovani rozzi e analfabeti, economicamente indigenti, ma carichi di un furore da esclusione verso un mondo che, nella sua occidentale e commerciale esposizione, si fa vetrina tuttavia potenzialmente inaccessibile.

Gli abitanti degli altipiani, i popoli del mediterraneo, gli americani, i latino americani, i francesi, gli slavi, i toscani, gli antichi greci e gli etruschi, i giapponesi e i pescatori di perle, i raccoglitori di funghi e i cacciatori di balene, i collezionisti di francobolli, gli storici, i turisti e gli irlandesi, del nord e del sud, i bianchi, i neri e i gialli… Appartenenze, identificazioni, certezze provvisorie, definitive o mutevoli, come i cristiani, i mussulmani, gli indù e i buddisti. Certamente molte categorie tra le prime non inducono alle contrapposizioni e ai conflitti. Direi che le religioni "semplicemente si prestano" per quella loro pretesa di attingere dall’assoluto. Tanto varrebbe sforzarsi di eliminare i motivi originari degli odi e delle guerre apparentemente "di religione" per poi sostituire ai feticci qualifiche più ludiche per differenziare le collettività degli uomini.

Mi capita di seguire certe rubriche in cui un bravo giornalista percorre ogni domenica le strade, i borghi e le campagne di un paese diverso, illustrandone le caratteristiche naturali, storiche, culturali. Il servizio televisivo si sofferma gradevolmente sugli usi e le tradizioni, le attività agricole, marinare o pastorali, la produzione alimentare e così via. La conclusione prevede sempre una "tavolata finale" con l’esposizione dei piatti tipici, i vini e, quasi sempre, l’accompagnamento di un’orchestrina locale con danze e canti. Confesso che, a questo punto della trasmissione, quasi sempre mi commuovo fino alle lacrime. Naturalmente mi sono chiesto - quasi preoccupato - il motivo di questa mia naturale reazione.

Sono nato lontano dalla regione in cui vivo e portato qui a pochi anni di età. Per quanto non si tratti di uno sradicamento vero e proprio, percepisco dentro di me un carattere originario diverso da quello della gente tra la quale vivo. Mi sento, per così dire, un po’ di qui e un po’ di quelle terre che raramente ho rivisto e in quelle occasioni mi pareva che il paesaggio riemergesse dentro di me piuttosto che davanti ai miei occhi che osservavano. Dunque vivo una costante sensazione di estraneità che non riesco a sopire, in entrambi i luoghi. Quando il giornalista favorisce con molta partecipazione l’esprimersi della realtà locale, nel suo servizio domenicale che ha il senso di una messa, una celebrazione liturgica, io casco in una profonda crisi di appartenenza. Le lacrime sono di sconforto per me che lamento la confusione delle mie radici e, paradossalmente, di gioia profonda per il riconoscimento di qualcosa che unisce nei cibi, nelle tradizioni, nel vento, nel clima, nei canti, nei luoghi vitali, la comunità ospitante. L’appartenenza a una comunità e la conservazione di caratteri specifici è un enorme patrimonio culturale e di identità.

Come mi è capitato di osservare per le regioni della ex Iugoslavia che lungamente avevo visitato in gioventù, se le questioni internazionali fossero affidate a intelligenti e creative agenzie di promozione turistica? A meno che, piuttosto delle religioni, non siano le ricchezze del sottosuolo e il colonialismo economico, ancora e presumibilmente per molto nel futuro, a provocare e regolare i drammatici e, d’altra parte, universalmente deprecati, conflitti tra i popoli…

Da "El dia" - B. A. - del 10 ottobre 2001
(traduzione di Arianna Bechi)                                                                                                           indietro