Vasche

Riflessi azzurrini dì acqua mai quieta realmente perché basta guardarla e lievi onde molli increspano le linee immobili del fondo. Un sacrilegio rompere la superficie ma è un incontro necessario un urto necessario per spezzare la prevedibilità impertinente del monotono saliscendi d’acqua sulle pareti ceramiche proprio come la vita. Ed è un trauma termico sismico fluido di particelle impazzite perché sorprese e tremule per pochi istanti nell’aria per l’eternità strette in una materia. Come ogni essere vivente materia parte di una grande materia che disturba l’universo fino alla sua quiete per un capriccio che si chiama vita in costante attesa del suo giudizio universale. Dunque ricadono supine alla gravità le gocciole gli splasch i lampi riflessi di luce azzurra d’acqua e bianca di lampade il corpo inerte per un altro premere il ventre la superficie del globo gli sguardi l’aria risucchiata verso il fondo poi espulsa estranea.
E il tempo riprende il sopravvento, ritmico, cadenzato, programmato, deciso, dall’esercizio, dai propositi, più o meno rabbiosi, più o meno disincantati, più o meno rilassati, più o meno obliosi della giornata sempre diversa, e sempre uguale, ma anche tu, sai, delle lievi differenze, che sono state, ma appiattisci, come nel rifiuto, di un’altra. Si, delusione.
Un braccio. Il capo nascosto dove sia possibile nell’acqua, il soffio come se fosse l’ultimo e poi il buio, la forza della spalla che affonda e la mano che cerca il nulla aggrappandosi al nulla celebrando il nulla scacciando il nulla che è acqua e un passo si fa per dire dopo l’altro e si è oltre. Aria.
Chi c’è sugli spalti della vita, della nostra vita, della vita di ognuno a erigere, ogni volta il pollice o verso, per l’ultimo sguardo al cielo dove volano dove volare dove nulla sarà più senza volo e spezzate le catene e i muri e i no e l’impossibilità dello stesso respiro? chi è oltre quelle gocce di ciglia impazzite dal sole?
E riprende il cuore dopo la pausa dal tempo, per un attimo sopra alle onde superfici adiacenti come ventri e seni e anche e corpi inarcati e tesi allo spasimo slancio in avanti, in avanti…
Scava la mano, scava il braccio affonda penetra svela profana ghermisce afferra si tende sprofonda cattura respinge china il capo come per una colpa una resa bestemmia subita un ultimo sforzo. E via, come una scia come un missile nell’aria un airone ad ali accostate un gabbiano cattura la preda.
Una due tre cento volte a cercare una traccia sul cammino percorso a capire dove, dove si è interrotto il filo. Così, per sapere. Una goccia d’acqua, per chi se n’intenda, non è simile ad altra. Neppure noi, seppure così numerosi. Neppure i respiri o i sospiri. Il primo, il secondo, il terzo l’ultimo. In un lungo attimo di braccia distese ho riposato a lungo. Ti ho guardato sul fondo. Silenzio. Saprò, un giorno, dove, dove ci incontreremo?
Bordo campo. Dilatati sul duro di marmo quei muscoli cosce grondanti e quegli alluci poveretti cosi troppo distanti dal cuore pulsante la mente. Li vuole ancora quell’acqua li ghermisce come esche prede di fluido vagare. Vorrei essere io quell’acqua e accostare le labbra per averli nel buio di ciglia accostate per il troppo bagliore di te, come uno sfiorare appena, lambire il minimo appena di te che non ho.

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