Via del Campo
          luglio 2002

 Non è uno scherzo che qui a Genova tu possa decidere di fare un viaggio ed essere di ritorno in giornata. Posteggi la vespa intorno alla piazza De Ferrari e precipiti giù lungo via San Matteo, vico del Fondaco, verso il centro storico con la zona angiportuale. Percorri la via Luccoli, che è già un incontro di civiltà, e arrivi alla casbah. Sei in Marocco, in Turchia, in Venezuela, in Mozambico, in Egitto e in Tunisia, in Cina e in India. In pochi decametri quadrati sei in tutto il mondo.

Però l’aspetto è quello di una casbah come l’immagina chi non c’è mai stato, eppure ha visto “Totò le Mocò” e Humprey Bogart a Casablanca. Botteghe, banchetti, ozio e parole, discussioni, saluti rituali, caffettani e piccoli antri con postazioni telefoniche internazionali. Certi uomini sono così robusti, casomai alti e slanciati, da suggerire una condizione di grande benessere e invece è solo la genetica a conservarli adatti a fatiche e prestazioni atletiche da inseguitori di selvaggina. Certe donne sono così nere da farti pensare a regine della notte misteriose e potenti. Poi ci sono i piccoli guatemaltechi, i cileni e gli ecuadoriani: sembrano dappertutto, camminano sempre in coppia come una famigliola o come amici che si guardano le spalle a vicenda. E i cinesi hanno botteghe e commerci, minuscoli entrambi, ma attivissimi. Gli indiani sembrano sempre nascondere qualcosa, nonostante il biancore dei loro sorrisi. Del resto la loro civiltà, condivisibile o no, è tanto più antica della nostra…

Ma la presenza più rilevante è quella dei neri, almeno dalle parti delle famose via di Prè e via del Campo. Si incontrano vecchie donne in abiti coloratissimi che non possono aver portato in quella via solo la loro presenza. Intorno alle sedie che sembrano occupare definitivamente davanti a un portone, aleggia un po’ della loro terra e dei misteri delle usanze tribali. Gli uomini, incontrandosi, si salutano toccandosi reciprocamente la mano e poi portandola alla fronte, alcuni sono salutati con un particolare ossequio, altri camminano frettolosamente borbottando qualcosa e facendo scorrere le lunghe e nere dita intorno a collane che sembrano lunghissimi rosari.

I locali che prima ospitavano ferramenta, botteghe del caffè, salumerie e osterie, adesso straripano di strani prodotti alimentari come frutti, spezie, radici e misteriosi cereali. Entrarci a curiosare sembra una profanazione, eppure l’atteggiamento della gente è, paradossalmente -perché questi insediamenti hanno, di fatto, espropriato una parte della città- di tolleranza e accoglienza.

Si prova  l’intensa sensazione di trovarsi in un mondo musulmano, islamico, nonostante la presenza di cristiani centro e sudamericani e dei cinesi e degli indiani. E questa sensazione di trovarsi in mezzo ai mori si esaurisce al termine della via cantata da Fabrizio, quando appare come un presidio una bellissima chiesa di impianto romanico: San Giovanni di Prè. È curioso il fatto che il nome originario fosse Chiesa del Santo Sepolcro, sede della compagnia dei Gerolimisini (mi pare si scriva così), presente anche presso molte chiese dell’Italia centrale.

L’interno dell’edificio è spettacolare. Credo siano rare le arcate molto allungate che danno all’edificio la forma di una chiglia di barca (tipo una “lancetta”) rovesciata. E poi è costruita di pietra scura che sembra ardesia scalpellata. Alle sette del pomeriggio (le sei solari) è investita da una lancia accecante che entra dalla vetrata posta sopra l’altare. Dunque la facciata guarda esattamente a levante. Quando sono entrato, il parroco si esercitava con l’organo posto sopra all’entrata e sotto a un’arcata che amplifica con vigoroso effetto il suono. Una specie di viagra musicale :-)

Il porto antico è altra musica: un salotto progettato da Renzo Piano e che piano piano sta prendendo l’aspetto di una turistica cittadina californiana sul Pacifico.

Nel piazzale sotto le palme due sudamericani con amplificatore declamavano e cantavano qualcosa, probabilmente a beneficio della comunità di lingua spagnola. Seduti sulle panche circolari, intorno a quegli alberi tropicali, sostavano molti oziosi vecchietti e giovani colf o camerieri in temporaneo riposo. E poi ci sono locali, localini, tavolini all’aperto, wine bar, ristorantini e cineplex e meganegozi di musica e di libri.

Nell’acqua sotto i moli, guizza una moltitudine di cefali ed altre razze di pesci a cercare cibo tra le colonie di muscoli aggrappate al cemento sotto al pelo del mare.

E tante barche a vela e/o a motore lunghe almeno dodici metri. Di legno, di vetroresina e di oro e di argento in un crescendo di sfarzo e ostentazione. Lungo il molo su cui sorgono i magazzini del cotone, ora adibiti a biblioteca, cinema e altro, c’erano imbarcazioni che sembravano navi. Gigantesche ed alte rispetto al piano pedonale, dotate di simbolici alberi e velature, erano in attesa di ricchi ospiti momentaneamente seduti ai tavolini di inavvicinabili ristoranti. Tutti in abito bianco: i signori, i camerieri, i ristoratori, i passanti, i gabbiani, i marinai in attesa.

Mentre ritornavo verso la mia vespa lungo la bella via San Lorenzo, ho ancora osservato don Ciro Vitiello (proprietario del ristorantaccio da pesce per famiglie in visita all’acquario) posteggiare la sua Mercedes decappottabile per raggiungere la cassa del suo locale “da Vittorio”. Certo dopo aver sigillato l’abitacolo con il ribaltamento a motore della capote celata nella poppa generosa dell’auto.

Naturalmente, come per tutti i viaggi che durano un giorno, pur toccando tanti porti, non c’è morale alcuna…

 

        Frammenti di scrittura