Il garibaldino Giuseppe Guerzoni così ricorda la battaglia di Bezzecca, unica vittoria italiana nella malcondotta guerra del 1866: «…la strada di Triarno è tempestata dai proiettili nemici, e Garibaldi è il più …cercato bersaglio ... suoi aiutanti Cairoli, Albanese, Damiani, Miceli, Cariolato, Civinini, gli fanno scudo dei loro corpi…». Allora Giuseppe Civinini aveva trentun anni, era da pochi mesi deputato pistoiese al Parlamento nazionale, e pur essendosi opposto ad una guerra che «…dà intero il paese in mano a La Marmora ed ai suoi compari » [che] «daranno all'Italia una seconda Novara» aveva sentito il dovere di arruolarsi, al contrario, ad esempio, del Carducci, in quel tempo professore a Bologna, che aveva scritto: «Guerra a' tedeschi, immensa eterna guerra», ma che non si era sognato di partire. Anche questo spiega l'uomo Giuseppe Civinini che ebbe vita breve, ma coraggiosa ed intensa che lo vide rivestire vari ruoli: cospiratore mazziniano, ufficiale garibaldino, massone, giornalista noto, abile e polemico, politico e deputato appassionato e discusso, uomo di Sinistra e poi di Destra e, forse, affarista. Una personalità complessa, non esente da contraddizioni, che tuttavia, elevandosi dall'ambito pistoiese ad una dimensione nazionale, attraversa gli anni della formazione dello stato unitario, se non da protagonista, non certo da anonima comparsa. Nasce a Pisa l’11 aprile 1835, nel 1844 muore il padre Filippo, noto medico e professore e la madre, Gioconda Marini, torna Pistoia con i figli Giuseppe e Giulia. A soli quindici anni aderente alla “Giovine Italia” è già ricercato dalla polizia granducale, si rifugia a Liverpool, poi a Genova, estradato in Toscana viene incarcerato, tiene testa agli interrogatori e gli inquirenti sono costretti a rilasciarlo. Seguono sette anni di intensa attività cospirativa che lo vedono alternarsi fra Toscana e Piemonte, ospite frequente sia delle carceri granducali che di quelle del Regno Sardo. Incontra in questo periodo vari personaggi: a Genova è protetto dal mazziniano pistoiese Francesco Franchini, a Firenze, dove conosce i fratelli Bianchi della tipografia Bianchi-Barbèra, è sospettato di appartenere alla rete del pratese Piero Cironi ed è aiutato dalla marchesa Lucrezia Firidolfi-Ricasoli. Con Maurizio Quadrio prepara poi, senza successo, una insurrezione a Livorno nel 1857, ma due amicizie avranno un ruolo fondamentale nelle sue successive scelte politiche e di vita: quella con il repubblicano lucchese Antonio Mordini e quella col livornese, amico di Mazzini, Adriano Lemmi, poi definito "banchiere" del Risorgimento. Segue quest’ultimo per due anni, prima in Svizzera e poi a Costantinopoli, come istitutore dei suoi figli. Intanto nel 1859, anno della guerra austro-franco-piemontese, una sollevazione popolare caccia il 27 aprile il granduca Leopoldo II e il Plebiscito del marzo 1860 sancisce l’annessione della Toscana al Regno sabaudo. Nel 1860 Civinini, superata ormai l’intransigenza mazziniana, inizia la sua fase «garibaldina»: lascia il Bosforo e raggiunge nel giugno il Generale che gli affida incarichi nell’intendenza dell’esercito dove si distingue per competenza e correttezza. Stretto collaboratore di Garibaldi anche nel 1862 ad Aspromonte, ne condivide la prigionia al Varignano e l’esilio a Caprera e, come abbiamo visto, nel 1866 è di nuovo con lui a Bezzecca. E’ ormai una "firma" nota del giornalismo politico in cui, già da mazziniano, aveva esordito a Genova collaborando a L' Italia del popolo e a Cuneo a La Sentinella delle Alpi, ma è a Torino nel 1861 che Civinini diviene redattore e poi direttore della voce del "partito garibaldino" ll Diritto, di proprietà dell’amico Lemmi e si affilia alla Loggia massonica "Dante Alighieri", dove trova, tra gli altri, Depretis, Saffi e Mordini. Dopo Aspromonte Civinini si avvicina alle posizioni legalitarie di quella parte dei democratici (Crispi, Bargoni, Mordini, Lazzaro, ecc.) che di lì a poco vengono sconfessati da Garibaldi e afferma: «…la guerra che noi vogliamo ora, in Parlamento e fuori non può vincersi a schioppettate e finirà soltanto quel giorno in cui il Re d'Italia salirà sul Campidoglio». Con la Convenzione di Settembre ed il trasferimento della capitale a Firenze, cui insieme al Crispi si oppone entrando in attrito con l’amico Mordini, Civinini sposta la sede del giornale in Toscana. Conosciuto ormai in tutto il paese, candidato in più collegi per l'IX Legislatura, Civinini viene eletto nel ballottaggio delle elezioni suppletive del collegio di Pistoia 2 con 337 voti contro i 317 del moderato Giovanni Camici, appoggiato da “La Nazione”, giornale della "Consorteria" di Ricasoli e Minghetti. Le cifre confermano come il suffragio e la politica parlamentare fossero allora appannaggio di pochi istruiti ed abbienti, tuttavia Civinini, al contrario del suo avversario presenta un programma elettorale e viene appoggiato anche da un manifesto di non aventi diritto al voto. Nel 1866 Civinini si oppone fieramente alla guerra perché gestita dal governo di Destra e rimprovera i suoi compagni di sacrificare la Libertà all’Unità rompendo clamorosamente col Crispi relatore di un disegno di legge per la tutela della sicurezza interna della Stato. E’ costretto così a lasciare la direzione de “Il Diritto” e fonda “Il Nuovo diritto” in un clima di generale rimescolamento politico che favorisce intese fra Destra liberale e Sinistra moderata e che, in un certo senso, prelude al "trasformismo" degli anni successivi, anche se quest’ultimo avrà origine da cause in gran parte diverse. Tutto ciò ed anche la vecchia amicizia col Ricasoli, spiega forse la sua svolta politica del 1867: si candida con la Destra ricasoliana e a Pistoia viene riletto al Parlamento. Quel Parlamento nell’agosto 1868 approvò, su proposta del ministro Cambray-Digny, la concessione della privativa della fabbricazione dei tabacchi ad una regìa cointeressata costituita da una società di capitalisti privati italiani ed esteri. Votarono a favore la Destra governativa e la Sinistra "possibilista" del "Terzo partito" di Mordini, si opposero il gruppo del Rattazzi, la "Permanente" (Destra piemontese), il Lanza e il Sella, la Sinistra del Crispi e la Sinistra radicale di Bertani. Mentre si faceva oppressiva la pressione fiscale dello Stato sulle masse popolari, la convenzione rafforzò i legami fra entourage governativo e capitalismo bancario. Civinini, violentemente accusato sia dal Crispi sia dal Gazzettino rosa di Milano di aver favorito il voto sulla concessione per interessi personali nell’operazione, ottenendo, tramite un suo protetto, Salvatore Tringali partecipazioni nella “regìa”, E’ così trascinato con altri nel primo vero grosso scandalo politico dell’Italia post-unitaria. Tuttavia gli accusatori non riescono a produrre prove e Civinini esce assolto dall’inchiesta parlamentare e vincitore dai successivi strascichi giudiziari. Intanto nel 1870 Napoleone III cade in seguito alla sconfitta nella guerra franco-prussiana, a Parigi si instaura la Comune e il 20 settembre le truppe italiane occupano Roma. Civinini, rieletto per la terza volta al Parlamento e divenuto direttore de La Nazione nel 1869, teorizza ora, non senza contrasti interni al quotidiano, quella politica estera filogermanica attuata anni dopo dal Crispi. Significativo, ad esempio, un suo saggio apparso sulla Nuova Antologia dove, tra l’altro, afferma: «…occorre tenere per quanto più si può bassa la Francia ... avere amiche le potenze ... anti-papali ... fondarci sopra una solida base conservativa ed ... anche liberale. Le nostre diffidenze verso la Germania ... ci esporranno veramente a quei pericoli di cui tanto temiamo ... fra i clericali di Versailles e i comunisti di Parigi.». Erano le ultime battute della sue vicenda umana e politica, da circa un anno rieletto al Parlamento, il 19 dicembre 1871 moriva a soli 36 anni, non certo in condizioni economiche floride, per una grave malattia, probabilmente alimentata dallo stress e dai dispiaceri dell’ affaire della regìa tabacchi. (Originale dell’articolo: C.O. Gori: Un garibaldino che divenne direttore de "La Nazione": la storia del deputato pistoiese Giuseppe Civinini, “Microstoria”, (a. 2, n. 10 (apr. 2000) (Carlo Onofrio Gori)
Ferdinando
Martini (1841- 1928)
Pochi uomini
seppero, come Ferdinando Martini, conciliare spontaneamente l'impegno
culturale e l'impegno civile, per questo ebbe a meritarsi l'appellativo di
"uomo ariostesco" coniato
per lui dal critico Guido Mazzoni. Egli fu innanzitutto un letterato che
stupisce ancora oggi per la poliedrica ecletticità della sua produzione che
investì i campi più diversi spaziando dal giornalismo, alla critica, dal
teatro, alla narrativa, alla memorialistica, ma fu anche politico e
ministro, africanista, storico del Risorgimento, bibliofilo, e tante altre
cose ancora, "un uomo
- come ebbe a dire Spadolini - a
cui nessun orizzonte fu negato, ma che non è possibile catalogare e
rinchiudere dentro nessuna cerchia". Ferdinando Martini
nacque nel 1841 da una colta e signorile famiglia fiorentina che poteva
vantare ministri, alti dignitari granducali e possedimenti in Valdinievole.
Il giovane Ferdinando ebbe quindi il privilegio di poter conoscere i
personaggi più in vista della Firenze del tempo e da ciò ne trasse molti
insegnamenti, ma chi gli "fu maestro come
gli studi regolari non seppero essere", fu soprattutto il
suo precettore Tommaso Cogo. Passeggiando con lui per Firenze, Martini si
appassionerà alla storia della sua città e maturerà quel senso profondo
di devozione alla Toscana che unito all'amore risorgimentale per la patria
"più grande" lo caratterizzerà sempre, mai però nel senso di un
gretto nazionalismo, poiché la sua formazione culturale, alimentata dalla
passione per i viaggi, spazierà su orizzonti europei e cosmopoliti.
Tuttavia "il suo Virgilio",
fu Enrico Nencioni, colui che lo indirizzò all'amore per le letture, prima
odiate, ma che sarebbero poi divenute "il
continuo e il solo indisturbato godimento della sua vita".
Con il suo aiuto inizia gli studi trascorrendo intere giornate nella
biblioteca della villa dello zio Giulio a Monsummano. Alcune commedie
recitate all'Istituto Rellini insieme ai suoi compagni e vari articoli di
critica letteraria segnano i suoi esordi nell'ambiente culturale cittadino,
mentre è del 1857 la sua prima raccolta di scritti in prosa "Il
Giglio fiorentino". Primi passi che rivelano precocità di
ingegno unite alla versatilità e varietà di interessi che sempre lo
contraddistingueranno. Nel 1862 muore il padre Vincenzo, Ferdinando scopre
il dissesto patrimoniale della famiglia, ed indebitato, è costretto a
disfarsi dei suoi beni dedicandosi professionalmente alla letteratura
drammatica ed all' attività giornalistica. E' nel 1863 che, chiamato
dall'amico Piero Puccioni, inizia a collaborare a "La
Nazione". Nel 1869 accetta la nomina per la cattedra di
lettere alla Scuola Normale di Vercelli, mentre nel 1871 passa ad insegnare
a Pisa dove resta fino al 1872 e dove, tra l'altro, ha la rara occasione di
scorgere Giuseppe Mazzini solitario pensionante della famiglia Rosselli.
Prosegue anche nella sua attività giornalistica e letteraria, continua a
lavorare per "La Nazione"
e, occasionalmente, per la "La Gazzetta
del popolo". Dal 1871 con gli pseudonimi di Fantasio e Fox
pubblica i primi articoli sul "Fanfulla"
un quotidiano che, nato nel 1870 a Firenze (pubblicato dal 1871 a Roma), si
differenzierà dagli altri del tempo per varietà, vivacità e dignità di
contenuti e che, dal 1876, si opporrà alla Sinistra. Nel 1874, ormai gode
di larga fama in campo teatrale, artistico e letterario ed è un "opinion-leader"
che sa cogliere e reinterpretare le aspirazioni ed i gusti di un pubblico
sempre più crescente di lettori (e di elettori!). Inizia così il suo iter
politico che lo porterà a raggiungere posizioni di primo piano. Accetta
infatti la candidatura che la Sinistra gli offre a Pescia per le elezioni
del novembre di quell'anno e dopo intricate vicissitudini elettorali nel
1876, sotto il primo ministero Depretis entra in Parlamento (ci siederà per
più di quarant' anni!). Pur militando per lungo tempo nei banchi della
Sinistra parlamentare Martini
sfuggirà sempre a rigide catalogazioni di appartenenza politica come,
appunto, già all'inizio dimostrano i suoi rapporti col "Fanfulla".
Nel 1879 crea e dirige il supplemento letterario di quel quotidiano, il poi
famoso "Fanfulla della domenica",
primo settimanale di respiro nazionale con cui entreranno via via in
contatto tutti i letterati del tempo (1879-1919) dal Carducci al Dannunzio.
Nel 1881 Martini lascia la direzione del settimanale all'Avanzini e fonda
"La Domenica letteraria" e poi il "Giornale per i
bambini" su cui Collodi pubblica a puntate la sua Storia di un
burattino, il celebre capolavoro Pinocchio. Nel 1884 diviene
sottosegretario alla Pubblica Istruzione di cui sarà Ministro nel 1892/93
durante il Governo Giolitti. La breve e travagliata vicenda di quel Governo
non diede tempo a Martini di avviare il suo serio programmma di rinnovamento
dell' Università che, scontrandosi con consolidati interessi clientelari,
prevedeva, tra l'altro, la riduzione e il rammodernamento delle sedi
accademiche. Di tale coraggioso progetto rimarrà traccia in due articoli
pubblicati dalla "Nuova Antologia"
del marzo-aprile 1884. La passione di erudito e la curiosità intellettuale
portarono Martini, a studiare con serietà e competenza anche i problemi
dell'Africa divenendone il maggior esperto parlamentare. Fu così che venne
nominato Vicepresidente di una Commissione d'inchiesta inviata in Eritrea
per esaminare il comportamento scorretto di alcuni funzionari governativi e
che pubblicò il libro Nell'Affrica Italiana, intenso e suggestivo
resoconto dei suoi appunti di viaggio. Fu poi dal 1897 al 1907 Governatore
dell'Eritrea, ma senza interrompere il suo lavoro intellettuale, alternando
gli studi su Giuseppe Giusti (di cui fu il maggiore storico, malgrado che,
nel tempo, fra le due famiglie in Valdinievole, sembra fosse intercorso
qualche dissapore) con i rapporti sulla Colonia. Di quell'esperienza ci
rimangono i quattro volumi del Diario Eritreo pubblicati postumi.
Studi recenti hanno sfrondato alcuni miti, sorti prima e durante il
fascismo, circa il Governatorato di Martini. Martini non fu nè il salvatore
della colonia Eritrea contro un governo (Giolitti) che avrebbe voluto
disfarsene, nè il suo valorizzatore economico, nè il colonialista
"buono" particolarmente attento alle esigenze dei nativi e nemmeno
il precursore dell'Impero fascista. Arrivato in Eritrea appena dopo la
disfatta di Adua, Martini facendo ricorso al buonsenso di conservatore
illuminato che sempre lo contraddistiguerà, salvò (e conservò) il
salvabile, opponendosi alle velleità dei militari che cercavano l'incidente
per riaprire sconsideratamente la partita e lasciò sostanzialmente la
strada aperta per successive espansioni. Nel 1908, ormai insofferente del
suo ruolo "africano", riuscì a tornare, anche contro la volontà
di Giolitti, in Italia. Per inciso tra Giolitti e Martini non corse mai buon
sangue: troppo "politico" e rigidamente "piemontese"
l'uno, gran signore toscano l'altro, intellettuale rigoroso e colto, ma
anche ironico e disincantato, tanto da definire, ad esempio, lo statista di
Mondovì come "un carabiniere travestito
da guardia di pubblica sicurezza in borghese". Giolitti
gliela farà poi pagare nel 1919 rifiutandosi di nominarlo senatore. Deluso
della politica e dai politici, Martini si ritira a Monsummano nella quiete
della sua prediletta Valdinievole per attendere ai suoi studi ed ai suoi
scritti. Alla vigilia della prima guerra mondiale torna alla politica
avvicinandosi decisamente allo schieramento conservatore: Ministro delle
Colonie nel Governo Salandra fu risoluto interventista. Una scelta forse
dettata da spirito irredentista risorgimentale, dalla predilezione per la
cultura francese, ma, concretamente motivata da mire egemonistiche verso
l'area balcanica e centroeuropea. Il suo Diario
1914-1918 ci rivela, tra l'altro, che
in pratica furono Martini e Salandra a decidere (a Frascati il 17 settembre
1914) l'entrata in guerra dell'Italia contro l'Austria. I turbolenti anni
del dopoguerra, l'esplodere della lotta di classe, videro la fine del
vecchio sistema politico fondato sul prestigio personale sancita nelle
elezioni del 1919 (tenutesi col "proporzionale"), anche in
Valdinievole, dalla sconfitta degli esponenti più rappresentativi del
liberalismo: Martini non venne rieletto e amareggiato tornò a vita privata.
Trascorse le giornate nella sua ricchissima biblioteca raccontando
cinquant'anni di vicissitudini personali (e di storia del Paese) nelle due
raccolte di Confessioni e ricordi,
ritenute da tutta la critica la sua opera migliore di grande memorialista.
Allarmato per la svolgersi degli avvenimenti durante il "biennio-rosso",
preso anche fisicamente di mira come "guerrafondaio" Martini, come
del resto altri esponenti della classe politica liberale del tempo, finì
per vedere nell'affermarsi del fascismo l'unico argine al
"disordine" montante. Non risulta che aderisse al movimento, come
il Regime dopo la sua morte volle far apparire, ma ne fu un autorevole
fiancheggiatore ed il fascismo gli fu riconoscente nominandolo Senatore nel
marzo 1923 e Ministro di Stato nel 1927. Morirà a Monsummano il 24 aprile
del 1928. Gli eredi vendettero la sua ricchissima biblioteca, ricca di circa
15.000 volumi e 12.000 opuscoli, giornali toscani, edizioni originali,
cinquecentine, codici etiopici, alla Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia
che l'affidò alla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia di cui adorna, anche
nelle sue suggestive strutture in legno, la Sala V. (Originale
dell’articolo: C.O.Gori, Ferdinando Martini: profilo di un letterato impegnato in
politica, “Microstoria”,a. 3, n. 17 (mag./giu. 2001). Policarpo
Petrocchi (1852-1902) Un vocabolario, fra
Ottocento e Novecento, ebbe notorietà, diffusione e prestigio superiori a
quello che (solo per fare un esempio fra tanti) può avere oggi l'ottimo e
notissimo Devoto-Oli. Il Novo dizionario universale della lingua
italiana del pistoiese Policarpo Petrocchi, pubblicato dai Fratelli Treves
di Milano, uscì a dispense fra il 1884 e il 1890 fu poi raccolto nei due
volumi del 1887 e del 1891 e ristampato più volte fino al 1931... Affiancato
da varie edizioni minori e da un vastissimo corredo di grammatiche, antologie
e testi scolastici, ugualmente scritti dall'infaticabile Petrocchi ed
indirizzati ad un'utenza diversificata, il Novo dizionario fu - come
ricorda Luciano Bruschi autore del fondamentale Policarpo Petrocchi. Un
tempo, un uomo - "per oltre mezzo secolo il vocabolario più diffuso in
Italia e molto ricercato dagli stranieri … perché, utilmente, dà
l'indicazione esatta della pronuncia, separando nettamente la lingua viva
dalla lingua morta ed è infine , ricchissimo di esempi raccolti dalla stesso
autore"... Di questa opera considerata per lungo tempo il vocabolario
della lingua italiana per antonomasia, ancora nel 1952, veniva scritto che "non
vi è italiano, anche di modesta cultura, che non conosca ed adoperi anche
oggi col massimo profitto il Dizionario Universale di Policarpo Petrocchi".
Lo scopo del Novo
Dizionario era quello, cominciando fin dai banchi della scuola elementare,
di unificare linguisticamente un Paese scarsamente alfabetizzato e talmente
diviso dai dialetti che, ad esempio, i numerosissimi emigrati liguri e
campani, presenti fin da fine Ottocento in Argentina, riuscivano ad intendersi
bene fra loro solo parlando in castigliano. L'autore da uomo del Risorgimento
e convinto seguace delle teorie manzoniane, aveva infatti scritto: "Attenendoci
ad una sola misura, stando a una sola parlata, faremo come tanti bravi soldati
intorno a una sola bandiera: forti e uniti combatteremo da forti; faremo
finalmente un vocabolario, una grammatica sola, chiara, facile anche per gli
stranieri che trovan tanto indigesta la nostra lingua: noi tutti allora ci
piglieremo più amore e non ci avverrà più di scambiare quelli del nostro
paese per inglesi e tedeschi." Ancora oggi l'opera del
Petrocchi, esaurito il suo compito pedagogico, resta la testimonianza più
viva e più ricca dell'uso del fiorentino (e del toscano) parlato tardo
ottocentesco; ma Petrocchi non si limitò a questa impresa ed alla sua nota e
vasta produzione di letteratura per la scuola. Sempre instancabile lavoratore,
anche quando dagli anni Novanta in poi la sua salute cominciò a vacillare, fu
brillante conferenziere in prestigiosi circoli culturali, autore di una
notevole produzione letteraria e saggistica della quale ci limitiamo qui a
ricordare un'ottima traduzione dell'Assomoir di Zola, elogiata dallo
stesso autore, il libro di novelle Nei boschi incantati, il volume Fiori
di campo. Letture toscane, la commedia I Vespri, un saggio
sull'impresa coloniale in Africa, alcune poesie, altri saggi critici sul
teatro popolare, sulla letteratura ed in particolare sul Manzoni e sul
Carducci, che di Petrocchi fu sempre amico malgrado nel 1895 avvenisse un
memorabile scontro fra i due. Pistoiese di montagna,
Policarpo Petrocchi nacque nel piccolo e suggestivo borgo di Castello di
Cireglio il 16 marzo 1852 da Luigi di Francesco e da Carolina Geri. Di
famiglia non povera per quei tempi, ma nemmeno benestante, Policarpo fu
mandato in città presso lo zio prete a studiare da esterno al locale
Seminario. Il ragazzo, intelligente e sensibile, abituato alla libertà
agreste, ricordò sempre con amarezza la permanenza cittadina in casa dello
zio autoritario, con una zia zitella e frustrata e la nonna rustica, anche gli
studi non furono brillanti sebbene il livello dell'insegnamento fosse più che
dignitoso. Nel 1869 il giovane
Policarpo si innamora di quella che sarà poi la donna della sua vita
Clementina Biagini, figlia di un noto medico pistoiese e destinata al
matrimonio col benestante notaio Arcangeli dal quale successivamente si
separerà... Sempre nelle stesso anno abbandona Pistoia e si reca a Martinengo,
nei pressi di Bergamo, per insegnare italiano in un collegio fondato da un
monsignore amico dello zio prete. L'anno successivo troviamo Petrocchi ad
insegnare a Torino presso l'Istituto del prof. Lanza. Iniziò così l'altra sua
fondamentale attività, l'insegnamento, che svolse sempre con passione, sia
come precettore presso privati, sia in varie scuole d'Italia, ma soprattutto
al Collegio militare di Milano (poi trasferito a Roma) dove così lo ricordava
il Maresciallo d'Italia Enrico Caviglia, già suo allievo: "Fra i miei
insegnanti egli ha lasciato nella mia memoria, nella mia anima l'impronta più
profonda ... ci apprese ad amare i nostri grandi poeti antichi e moderni
...Faceva il suo dovere d'insegnante con la coscienza scrupolosa di un
apostolo, e nello stesso tempo , per la sua natura franca e leale ci apprese
ad esprimere apertamente le nostre idee ed a giudicare con libera mente gli
uomini e con spirito critico le idee". Di questa indole Petrocchi
diede più volte personalmente viva testimonianza come ad esempio nel 1899
quando, vinto il Premio Siccardi con il libro pacifista La Guerre, trovò
coerente presentare le dimissioni (subito respinte) dalla cattedra che aveva
al Collegio militare; tra l'altro, con la somma del premio, fece poi
lastricare la piazza di Castello di Cireglio. L'amore per Castello,
testimoniato dall'opera postuma Il mio paese, fu infatti costante in
Petrocchi. Vi tornava da Milano e poi da Roma ogni estate, con la famiglia che
diveniva via via sempre più numerosa, e nel 1880 vi fondò la Società Onore
e Lavoro con lo scopo di dotare il borgo di quei servizi e di quelle
infrastrutture necessarie che l'amministrazione comunale di Pistoia non si
decideva a fare. La gestione della cosa pubblica da parte di una classe
dirigente pistoiese giudicata da Policarpo avida ed ottusa fu infatti uno dei
suoi principali crucci tanto che nel 1901, lui che a Milano ed a Roma aveva
frequentato personaggi del calibro di Filippo Turati o Enrico Ferri, non poté
fare a meno di intervenire nelle vicende elettorali cittadine appoggiando,
senza successo, lo schieramento dei "partiti popolari" radicali,
repubblicani, socialisti. In politica Petrocchi,
dopo una giovanile ammirazione per Cavour e Vittorio Emanuele II, aveva
infatti col tempo maturato idee repubblicane. Ciò era avvenuto soprattutto
sulla scorta di un'avversione totale per la persona e per la politica corrotta
ed antipopolare in cui, dopo i trascorsi garibaldini e di
"sinistra", si era gettato il presidente del consiglio Crispi
sostenuto dall' "aiuto potente della compagine monarchica", mentre
rimanevano costanti in Petrocchi la stima per Garibaldi e lo spirito
fieramente anticlericale. L'anticlericalismo di
Petrocchi, che non fu mai né antireligioso né anticattolico, andava ben
oltre il dato storico-politico risorgimentale di avversione al potere
temporale caratterizzandosi per i suoi connotati morali di critica ad una
ipocrisia ecclesiastica il cui peso personalmente aveva già sperimentato in
gioventù presso lo zio prete e con la quale si era poi scontrato per la
vicenda della sua "illegittima", ma solida unione con l'amata
Clementina Biagini dalla quale ebbe ben sei figli. E proprio circondato da
quattro dei suoi figli e dai suoi affezionati compaesani, durante l'annuale
festa a Castello di Cireglio, lo raggiunse, il 25 agosto 1902, improvvisa la
morte, stroncando un'esistenza dedicata alla famiglia, al lavoro, allo studio,
all'onestà ed ad alti ideali. Il Comune di Pistoia e la
Società Onore e Lavoro 1880, presieduta dal nipote Guido Petrocchi, lo
ricorderanno quest'anno in occasione del Centocinquantesimo Anniversario della
nascita e del Centenario della morte con alcune pubblicazioni e quattro
manifestazioni ed iniziative la cui organizzazione è stata curata
dall'Assessorato alla Cultura, dalla Biblioteca comunale Forteguerriana (che
conserva le sue carte) della Provincia di Pistoia e dalla Circoscrizione 3. Il 18 agosto in Castello
di Cireglio, nel corso della festa paesana, sarà presentato il restauro al
suo monumento (opera dello scultore Lorenzo Guazzini, 1909); nella circostanza
parleranno il Sindaco di Pistoia Renzo Berti, Carlo Onofrio Gori,
Gianluca Chelucci, Federico Filoni e Guido Petrocchi. La
"Filarmonica P. Borgognoni" terrà poi un concerto e la serata sarà
conclusa dallo spettacolo teatrale "Policarpo la tua Valle ti
ricorda" della
"Compagnia dei Semplici" dell'Associazione Amici di Pupigliana e
della Valle del Brandeglio. Dopo l'estate, nei
pomeriggi dei giorni 30 ottobre, 7 e 21 novembre, condotto da Luciano Bruschi,
Andrea Ottanelli e Gianluca Chelucci, si terrà, presso l'Istituto comprensivo
"Cino da Pistoia" di via E. Rossi 13 (Belvedere), un corso
d'aggiornamento per insegnanti volto all'approfondimento della vita e
dell'opera di Policarpo Petrocchi . Il momento culminante
delle manifestazioni si avrà sabato 7 dicembre quando nella Sala Sinodale
dell'Antico Palazzo dei Vescovi della Piazza del Duomo di Pistoia inizierà un
Convegno di Studi con la partecipazione di eminenti linguisti, storici e
studiosi (Enrico Ghidetti, Paola
Manni, Gianni A. Papini, Giorgio Petracchi, Gianluca Chelucci, Andrea Fusari,
Guido Petrocchi, etc.) ed i cui Atti verranno pubblicati nel 2003. Infine è prevista la Cerimonia dell'apposizione di una targa e dell'intitolazione al grande lessicografo della Scuola Elementare di Cireglio. (originale dell’articolo: C.O. Gori: Il Dizionario di Petrocchi, manifesto per l’unità della lingua italiana. La vita e l’opera del linguista e letterato nato 150 anni fa a Cireglio, “Microstoria”, a. 4, n. 24 (lug./ago. 2002). II cognome Puccini, appena fuori Pistoia, evoca oggi ai più, il ricordo del grande musicista Giacomo, tuttavia il patrizio pistoiese Niccolò fu uomo di notevole spessore culturale e civile. Filantropo, letterato, patriota, ebbe corrispondenti illustri: dal Leopardi al Tommaseo, dal Giusti al Poerio, dal Vieusseux al Thouar, dal Gioberti al Guerrazzi, al Pepe, etc. Come tanti altri illustri personaggi, non avendo incontrato in epoche successive il biografo, il romanziere o il regista "di grido", la sua fama è rimasta confinata in ambito di élites culturali locali. Quanti, ad esempio, dentro e fuori Lucca, conoscono la figura di Francesco Burlamacchi, congiurato antimediceo di nobili ideali, oppure dentro e fuori Prato, sanno chi era Giuseppe Mazzoni, patriota e triumviro toscano nel 1849, che pure nelle loro città sono onorati da centralissimi monumenti? Il vero monumento pistoiese a Puccini è il suo magnifico parco di Scornio - da lui lasciato in testamento alla città - ricco di statue di italiani illustri, adornato da un laghetto artificiale e da edifici in stile neoclassico. Ma non vogliamo soffermarci oltre sulla figura di Niccolò, se non per un fatterello curioso occorsogli post-mortem, nel 1930. Un suo biografo, Alfredo Chiti, storico allora noto in Pistoia, richiesto dal fascio cittadino di una premessa al volume sui monumenti del giardino di Scornio da donare al Duce in occasione della sua visita in città, ebbe la bella pensata di vedere nel Puccini, morto nel 1852, addirittura un precursore… del fascismo, fondato come'è noto nel 1919. Il Chiti portò a sostegno della sua azzardata ipotesi le varie benemerenze patriottiche del patrizio pistoiese e fin qui niente di strano, ben più celebri risorgimentali padri della patria furono "adottati" durante il ventennio, ma fa veramente sorridere la sua tesi che ilPuccini nell' "...esaltazione della romanità antica ... concretò questo concetto col sovrapporre il Fascio Littorio a parecchi edifici quasi a voler significare fino da allora che il Futuro Benefattore di Italia, pel quale lasciò il posto vuoto in mezzo ai busti ai Grandi Italiani nel Pantheon fatto erigere nelle vicinanze del lago, non dovesse ispirare l'azione sua ad altro che al concetto di Roma imperiale.'" Evidentemente il Chiti, in preda ad eroici furori, si era dimenticato che il fascio, simbolo originariamente etrusco, oltre rappresentare l'autorità di Roma antica, divenne in epoche successive, con il berretto frigio, emblema della Rivoluzione francese, comparendo talvolta come icona di unità e libertà nel Risorgimento italiano - e forse per questo l'aveva adottato il Puccini - usato poi, fra Ottocento e Novecento, sia nella terminologia politica (es. Fasci siciliani), sia come insegna da organizzazioni socialiste, sindacaliste e repubblicane. Insomma un simbolo anche "di sinistra", ripreso poi dal fascismo nella sua accezione di romanità, ma forse ammiccando anche ad altri contenuti. Del resto ci fu ambiguità nel fascismo e nel nazismo nel dare varie connotazioni ai simboli adottati: camice nere degli arditi, ma anche dei rurali padani; la croce uncinata nazista inserita nella bandiera rossa, etc.. In sostanza il Chiti incorse nell' infortunio che capitò, su altro versante politico, a coloro che a Pistoia, dopo la caduta del fascismo, in piena furia iconoclasta, volevano togliere la corona e il fascio in bronzo posto ai piedi delmonumento equestre a Garibaldi. Fortunatamente allora qualcuno fece notare che la scritta sulla coccarda della corona posta sotto il fascio recitava: "Reduci garibaldini... giugno 1909"! Originale dell’articolo: C.O. Gori, Niccolò Puccini "fascista”, “Microstoria”, (a. 1, n. 16 (dic. 1999). Leda
Rafanelli fu una delle figure più importanti del movimento anarchico italiano
del primo ventennio del secolo. Scrittrice autodidatta, riuscì a conciliare
in una originale sintesi di vita le sue idee politiche ed il suo femminismo
con la convinta adesione alla fede musulmana sufita, tuttavia si è scritto di
lei soprattutto
come “amante” di Benito Mussolini,
giovane direttore dell’ “Avanti!”. Nasce a Pistoia da genitori livornesi, il 4 luglio del
1880, ancora adolescente mostra già una
precoce vena poetica e una notevole sensibilità sociale tanto che
Filippo Turati che farà pubblicare su un giornale del partito socialista una
sua poesia, “Le gomene”. A
fine secolo, per difficoltà economiche emigra con la famiglia ad Alessandria
d’Egitto dove opera una consistente comunità italiana. Qui Leda ventenne si
avvicina ben presto agli ambienti anarchici della Baracca Rossa, frequentati
anche da Giuseppe Ungaretti e da Enrico Pea, e collabora
a “Il Domani” (Cairo, 1903). Giunge ad Alessandria predisposta
anche a lasciarsi sedurre da antichi miti egizi, scriverà infatti: «Fin
da bambina ho sempre detto, con ferma convinzione, che ero nata millenaria.
Tutti i miei personali ricordi, i sogni, le aspirazioni, i desideri erano
basati, sistemati, orientati verso l'antico Egitto, mia patria d'elezione»
(Memorie di una chiromante, inedito). Nel contempo si innamora
profondamente del mondo
mediorientale, impara l’arabo ed aderisce
all’islamismo sufita:
«Nessuno, che non sia un bruto, può
sfuggire alla malia del deserto, al fascino delle oasi …Chi ha vissuto
qualche anno fra gli arabi ne sentirà l'influenza per sempre» (L'oasi). L’Egitto
è dunque l’ unico punto di partenza delle sue due grandi fedi, anarchismo
ed islamismo. Come potranno convivere in lei
tendenze di pensiero così diverse? Forse la chiave di interpretazione,
considerando la sua complessa personalità, va trovata più negli aggettivi
che nei sostantivi. Il suo anarchismo era individualistico, quello
della frangia più intellettuale del movimento anarchico che spesso si
contrapponeva all’ala collettivistico-organizzativa. Gli individualisti
affermavano in sostanza che i soli cambiamenti strutturali non sarebbero
bastati per far avanzare l'umanità, se non accompagnati da profondi mutamenti
delle idee. Leda mutuerà dal pensiero anarchico-individualista, il tema della
centralità dell’individuo contro i meccanismi alienanti e il falso
umanesimo della società capitalistica, ma socialista libertaria,
prenderà sempre le distanze sia da certe forme di individualismo
vicine al terrorismo e sia dalla possibile degenerazione borghese delle teorie
di Max Stirner che: “mentre possono avere un gran valore come potenzialità
intellettuale e originale di un individuo, adattate alle lotte sociali …
verrebbero ad essere una nuova tirannia e una nuova imposizione esercitata
dall'individuo forte, a danno dell'individuo debole». In quanto al suo
islamismo Leda era sufita. Il Sufismo,
conosciuto oggi nel mondo occidentale soprattutto per le suggestive immagini
dei balli di una sua confraternita, i dervisci tourneurs della nota
canzone di Franco Battiato, è corrente dell’islamismo sunnita,
mistica e tollerante, non priva di suggestioni esoteriche. Considerato
che la Rafanelli interpreta la sua fede anche come alternativa al mondo occidentale industrializzato,
disumanizzato e schiavo del denaro, il suo
anarchismo e il suo islamismo possono anche sembrare l’uno il completamento dell’altro. Torniamo però ad
Alessandria ai primi del secolo: Leda, sempre portata alla ricerca del simbolo
e del mistero, vede uno scarabeo di terracotta esposto in mezzo ai libri nella
vetrina di un negozio, desidera l’oggetto per la sua forza di suggestione ed
è così che fa momentanea conoscenza del librario, l’anarchico Ugo Polli.
Rientrati poi in Italia casualmente si incontrano di nuovo alla Camera del
Lavoro di Firenze. Si innamorano, si sposano e ben presto fondano, con
l’aiuto di Olimpio Ballerini, figlio della nota anarchica fiorentina Teresa
Ballerini, la Casa Editrice Rafanelli-Polli. Leda,
che già al suo rientro aveva pubblicato presso l’editore Nerbini novelle
popolari a sfondo sociale o anticlericale quali ad es. La bastarda del
principe (1904) o Le memorie di un prete (1906), appreso ora il
mestiere di tipografo-compositore, può stampare, oltre che per il movimento,
anche propri saggi come Valide braccia (contro il sistema
carcerario), Contro la scuola, ecc.
Qualche tempo dopo entra in contatto col ventenne tipografo anarchico
aretino Giuseppe Monanni che a Firenze pubblica, fra il 1907 e il 1908, la
rivista individualista d’idee e d’arte “Vir” sulla quale
compare tra l’altro anche una poesia del pratese Sem Benelli, poi noto
drammaturgo, dal significativo titolo “Il rifiuto”. Leda,
ventisettenne, si innamora di Monanni, si separa dal marito (col quale rimarrà
in buoni rapporti) e ben presto si trasferisce col nuovo compagno a Milano, su
invito degli esponenti anarchici Ettore Molinari e Nella Giacomelli, per
mandare avanti la nota rivista
“La Protesta umana”. La
coppia Rafanelli-Monanni pubblica anche riviste in proprio come ad es. “Sciarpa
nera” e nel 1910 fonda la Libreria Editrice Sociale che diverrà la
più importante impresa editoriale libertaria italiana. Il pittore Carlo Carrà,
per breve tempo amante di Leda, ne disegnerà il logo dove si vede un volto
demoniaco e sullo sfondo il motto “che solo amore e luce ha per confine”.
Leda in questo periodo pubblica suoi vari romanzi e saggi
tra i quali Bozzetti sociali, Seme
nuovo, Verso la Siberia. Scene della rivoluzione russa e, insieme a Monanni, da cui nel frattempo ha avuto un figlio,
fonda le riviste “La Rivolta” (1910) e “La Libertà” (1913-14).
Su quest’ultima firma, nel marzo 1913, un entusiastico resoconto di
una commemorazione della Comune di Parigi tenuta da Benito Mussolini. Il
direttore dell’”Avanti!” legge e, lusingato, risponde subito: fra
i due nasce una profonda amicizia che durerà fino a quando Leda, pacifista
convinta, si scontrerà duramente con Benito divenuto ormai interventista.
Leda, al contrario di Mussolini, negherà sempre di esser stata sua amante.
Scriveranno in molti su questa vicenda, ad esempio Arrigo Petacco in L'archivio
segreto di Mussolini, sosterrà la tesi di quest’ultimo, altri invece
saranno di diverso parere, ma lo stesso libro di Leda, Una donna e
Mussolini, in fondo non farà
che alimentare i dubbi. Quel che è certo è che il giovane socialista
rivoluzionario, allora diviso fra la Balabanoff e la Sarfatti,
si sente intellettualmente stimolato dalla sofisticata Leda, mentre
quest’ultima sembra a volte scoraggiare il suo spasimante:”Ti ho
già detto siamo due mondi in contrasto …è come se tu fossi l’Europa ed
io l’Affrica. L’Europa… la vuole per opprimerla sfruttarla, adattarla al
suo modo di vivere …L’Affrica barbara vive la sua vita pura, istintiva”.
Un appunto scritto da Leda sulla prima pagina di un proprio opuscolo,
Abbasso la guerra! (1915),
ritrovato successivamente fra le sue carte, ci rivela quale sarà la
sua successiva considerazione per
Mussolini: «Opuscolo letto e approvato, in
tutto, dal mio amico d'allora BM che divenne poi guerrista e poi fascista,
capo del governo per 25 anni e poi ucciso dai gloriosi partigiani». A proposito della guerra,
sebbene anche in campo anarchico si fossero verificate alcune defezioni,
l'impegno pacifista di Leda fu costante, mentre nel dopoguerra svolse, tra
l’altro, un'attenta analisi critica del mutamento avvenuto nel ruolo sociale
e economico delle italiane: «Mentre il capo di casa, l'uomo giovane e
forte ( ... ) si faceva ammazzare, la donna, emancipatissima, invadeva le
officine, produceva per la guerra. Quale progresso!... ». L’avvento del
fascismo e la distruzione della Società Editrice Sociale nel 1923 sancisce il
suo definitivo silenzio politico. Leda pubblica ancora qualche opera narrativa
di atmosfera “orientale” (Incantamento, (192l),
Donne e femmine, (1922); L'oasi, (1926).
Successivamente vive
tra Milano e Genova e, costretta da ristrettezze economiche, fa la chiromante.
Non smette però di scrivere e ricostruisce mediante memorie autobiografiche
in forma di romanzo (Nada, La signora mia nonna, Le memorie di una
chiromante) momenti sovente amari dell’ultima parte della sua vita, come la
burrascosa fine della convivenza con Monanni e la morte del loro figlio Aini.
Leda muore a Genova nel 1971. Alcuni suoi scritti saranno raccolti da Aurelio
Chessa, che con il suo Archivio Famiglia Berneri, vera memoria storica
dell’anarchismo, operò per vari anni a Pistoia e che per motivi di lavoro
ebbi il privilegio di conoscere. L’Archivio, oggi intitolato
“Berneri-Chessa” e diretto a
Reggio Emilia con diligente passione dalla figlia Fiamma Chessa, ha
recentemente acquisito in deposito conservativo la raccolta di tutti i suoi
documenti autobiografici e delle opere edite ed inedite che costituiscono
attualmente il Fondo Leda Rafanelli. Carlo Onofrio Gori Figure del fascismo pistoiese 1919-1945 Quasi tutto il fascismo toscano delle origini, anche quello pistoiese, fu
tributario del suo sviluppo al violento e fazioso squadrismo fiorentino del
“granduca” Dino Perrone Compagni, dei Dumini, dei Tamburini, dei Barlesi,
ecc., tuttavia durante l’arco del ventennio, il fascismo pistoiese non
espresse in sede locale figure “forti” capaci poi di affermarsi anche a
livello nazionale come, ad esempio, uno Scorza a Lucca, un Ricci a Massa
Carrara, un Chiurco a Siena, i Ciano a Livorno, un Pavolini nella stessa
Firenze. A Pistoia parte decisiva nella genesi del fascismo locale la ebbe
Dino Philipson: ricco proprietario terriero fiorentino con possedimenti nel
pistoiese, di origine ebraica, massone, avvocato, ex-combattente, deputato
liberale nel 1919 che, pur rivendicando poi esperienze squadristiche, non fu
mai un fascista in senso vero e proprio e che, in anni successivi, troveremo
nelle file dell’antifascismo. La paura suscitata dal “biennio rosso”
1919-20, determinò il vero scopo.di Philipson, quello di servirsi delle
squadre fasciste per distruggere le organizzazioni operaie e contadine ed in
un secondo tempo ricondurre il fascismo nell’alveo della legalità. A tal
fine nel marzo-aprile 1922 ispirò la nascita dell’Unione Democratica
Pistoiese privando così il fascio locale (nato ufficialmente il 22 gennaio
1921 sotto la guida di Nereo Nesi) dell’apporto diretto di vari esponenti
del notabilato agrario e conservatore. Ciò aprì la strada all’affermazione
della componente della media e piccola borghesia urbana che ebbe l’esponente
di punta nella figura di Enrico Spinelli, studente universitario di farmacia,
ex-combattente. Violento nelle imprese squadristiche lo Spinelli, che
partecipò alla marcia su Roma guidando una colonna pistoiese (l’altra
colonna era guidata da Ilio Lensi), non era tuttavia privo di una parte
propositiva riassumibile in alcune teorie, più volte espresse sul foglio “Azione
fascista”, riconducibili al cosiddetto “fascismo di sinistra”:
primato dell’industria, collaborazione fra un capitale “controllato” e
il lavoro, lotta alla rendita parassitaria, un partito di “duri e puri”.
Si circondò inizialmente di collaboratori provenienti dall’ interventismo
repubblicano, ex-socialista, sindacalista, quali Filippo Civinini, Giovanni
Martini, Ildebrando Targioni. Il fascismo agrario pistoiese, mai
definitivamente battuto, individuò il suo uomo di punta nel commerciante Ilio
Lensi, squadrista rozzo, violento ed ambizioso. Spinelli tuttavia resse con
forza il partito riuscendo, dopo clamorose faide interne, a far espellere
quest’ultimo ed i suoi seguaci ed epurando poi la componente massonica dei
Civinini, dei Martini, dei Lavarini. L’esigenza mussoliniana di “normalizzazione”
determinò il tramonto di Farinacci e dell’ala intransigente a livello
nazionale ed anche le fortune dello “spinellismo” cessarono nel 1926
quando il gruppo fu espulso dal partito. L’uomo che condusse il PNF
pistoiese sui binari dell’equilibrio imposti dal “fascismo-stato” fu il
federale e podestà avvocato Leopoldo Bozzi. Enfatizzando i valori
risorgimentali pistoiesi e raccordandoli a quelli fascisti condusse,
mobilitando l’establishment culturale cittadino, felicemente in porto
l’ “operazione-Provincia”, creata nel 1927 ed ampliata con la
Valdinievole nel 1928. Allargò la base del partito cercando di sviluppare il
consenso al regime anche con lo sviluppo delle organizzazioni socio-politiche
“collaterali” e con l’avvio di opere pubbliche, orientò l’economia
della provincia in senso agricolo e artigiano. La sua prematura morte, in
seguito ad incidente, privò Pistoia di una importante figura di raccordo e di
mediazione, sia con Roma, sia all’interno del fascio pistoiese dove
ripresero le lotte fra le varie fazioni e l’instabilità. Da allora non ci
pare emergano nomi significativi (a parte quello di Armando Barlesi, ma solo
perché fondatore nel ’32 de “Il Ferruccio”), infatti in seguito
ad una ispezione effettuata nel 1941 dal “centro” sulla federazione
fascista si rileva tra l’altro che a quella data si erano avvicendati alla
sua guida “ben 14 federali” alcuni dei quali non pistoiesi. Le esigenze
belliche ridiedero il primato all’industria e fiato, specie con i federali
Alzona e Pigli, all’ala intransigente del partito che ebbe poi modo di
affermarsi soprattutto nel periodo della repubblica di Salò con i federali
del PFR Giorgetti e Lorenzoni. Emergono in quest’ultimo periodo, raccolte
attorno al periodico “Tempo nostro” le figure di giovani
irriducibili combattenti repubblichini: Valerio Cappelli (GNR) e il “parà”
Rolando Chelucci caddero in combattimento, Ruy Blas Biagi
(“NP” Decima Mas) fu fucilato a Firenze dopo un’azione di
sabotaggio oltre le linee nemiche ed al suo nome venne poi intitolata la
Brigata Nera di Pistoia alla quale appartennero Giorgio Pisanò e Agostino
Danesi, arresisi in Valtellina solo dopo la morte di Mussolini, Mafilas Manini
morì in clandestinità a Milano nel ’45. Alcuni, come Pisanò,
avranno un ruolo nel neo-fascismo del dopoguerra. Si segnala infine,
soprattutto per la sua ambiguità politica, la figura di un altro giovane
fascista, Licio Gelli, ma questa è un’altra storia. (Originale dell’articolo: C.O.Gori, Figure del fascismo pistoiese, “Microstoria”, a. 3, n. 16 (mar.apr. 2001).
Qualche
convegno e alcuni libri nel corso di questi ultimi anni hanno riproposto la
figura, interessante e controversa del "fascista eretico" Berto
Ricci, poeta, letterato, matematico, giornalista, la cui memoria rimane a
tutt'oggi circoscritta in ambito letterario o in area politica di destra.
Eppure negli anni Trenta con i suoi attesissimi Avvisi che apparivano
su "L'Universale" influenzò sensibilmente molti
giovani. Anche molti dei giovani universitari pistoiesi, cresciuti nel
fascismo, li leggevano " come una rivelazione destinata a trasformare il
mondo " Il suo anticonformismo piaceva
- rilevò Paolo Spriano - anche
ai fuorusciti comunisti, come Ruggero Grieco. Trotzki lo citò in un articolo
apparso su un giornale francese. Benedetto Croce nei "Quaderni della
Critica" nella sua generale condanna del fascismo assolve soltanto
quei giovani fascisti alla Ricci cui "deve rendersi giustizia ".
Infatti la sua vita, al di là di alcune sue apparenti contraddizioni, è
stata un paradigma di rara onestà intellettuale e coerenza. Roberto Ricci
nasce il 21 maggio 1905 a Firenze da famiglia piccolo-borghese. I suoi
interessi giovanili rivelano la prima "contraddizione": la passione
verso la matematica, che lo porterà a laurearsi in questa materia nel 1926 ed
ad insegnarla nelle scuole superiori e gli interessi poetico-letterari nei
quali fin dai quindici anni, fonde il mazzinianesimo e l'anticlericalismo del
primo Carducci con il suo giovanile anarco-populismo. L'altra importante
contraddizione dell'anarchico Ricci è la sua richiesta di adesione al
fascismo. Siamo nel 1927, il fascismo sta consolidandosi come
"regime", ma il suo non è un calcolo utilitaristico, è la scelta
di un "critico", che vuole riproporre, con l'entusiasmo del neofita
e con intensità e sofferta partecipazione, i postulati sociali del programma
"sansepolcrista" del 1919. Scriverà Romano Bilenchi che per capire
Berto Ricci bisogna "rendersi conto che nel fascismo c'era un'anima di
sinistra…ci nauseava il fatto che Mussolini, pur rispolverando di tanto in
tanto il suo "socialismo" si cacciasse (credendo di dirigere il
giuoco e in realtà finendo giuocato) nelle mani del re, del papa, della
confindustria". Viene chiesto a Ricci perché non si fosse iscritto
prima, e lui risponde: "Perché ero di idee contrarie". Per
l'opposizione di Alessandro Pavolini, allora "federale" di Firenze,
Ricci riceverà la tessera del partito solo nel febbraio del 1934 dopo la
notorietà acquisita da tre anni di successi de "L'Universale".
Nel frattempo collabora con Il libro italiano e un'antologia del 1928, Il
Meglio del Petrarca, è la sua prima opera. Conosce varie lingue, traduce
Ovidio e Shakespeare e scrive numerosi articoli sulla letteratura europea
contemporanea. In seguito all'incontro e all'amicizia con quelli che saranno i
futuri fondatori de "L'Universale", Ottone Rosai, Romano
Romanelli, Gioacchino Contri, Mario Tinti, inizia la collaborazione con la
rivista "Selvaggio" di Maccari. Gli interventi sul quel
foglio saranno caratterizzati da liriche e da prose di contenuto
anti-borghese, in stile sarcastico, colorito, tagliente. Ma al di là dell'
influsso dell'ambiente vociano e lacerbiano di Papini e Soffici , nella prosa
di Ricci si ritrova il Carducci con la sua toscanità anti-retorica e
anti-manzoniana e si riscoprono Dante e Jacopone da Todi. Toscanità intesa
come italianità essenziale, acuta e popolare, una tradizione culturale che
non é ripetizione, ma interpretazione della modernità secondo le categorie
mussoliniane. Ad esempio Ricci si batterà a favore del progetto dell'
architetto razionalista pistoiese Michelucci per la nuova stazione di Firenze
ricevendo il decisivo appoggio di Mussolini. Nel '29 inizia la collaborazione
a "Critica fascista" e a "Il lavoro fascista"
e conosce Bottai e Volpicelli. E' tuttavia il 1931 il suo anno di svolta:
pubblica i saggi Errori del nazionalismo italico e Lo scrittore
italiano, (lodato anche da Vittorini ne "Il Bargello") e
nel gennaio fonda a Firenze il bimensile "L'Universale" dove
é coadiuvato da una redazione di allievi-amici: Bilenchi, Roberto Pavese,
Indro Montanelli, Edgardo Sulis, Dino Garrone, Diano Brocchi e Camillo
Pellizzi (oltre a quelli già ricordati). E' senz'altro una rivista scomoda:
gli unici maestri riconosciuti non sono che i classici della letteratura
toscana, il Machiavelli soprattutto, niente più lacerbiani e vociani,
critiche alla scuola gentiliana, erede dell'idealismo ottocentesco, sarcasmo
verso i "fastidiosi" esibizionismi dannunziani, accuse di "passatismo"
ai futuristi per la loro raggiunta accademicità. Ben presto "L'
Universale" comincia a dar noia all'autorità ed a scandalizzare i
moderati. Ricci scrive infatti che la Russia "con la rivoluzione dei
comunisti ha fatto bene a sè stessa" ed elogia gli italiani che avendo
dato col fascismo una mazzata al liberalismo e a tutti i socialismi
trasformisti, "non possono sentirsi più vicini a Londra parlamentare e
conservatrice, che a Mosca comunista...L'antiroma c'é, ma non é a Mosca.
Contro Roma, città dell'anima, sta Chicago, capitale del maiale". Tocca
inoltre il tema scabroso della proprietà affermando: La proprietà
inviolabile...é un dogma liberale non fascista, inglese e non romano: da noi
proprietario é depositario e non altro. Si dichiara apertamente in contrasto
con Gentile e la sua concezione dello Stato etico, oppure, come in un Avviso
dell'ottobre 1932, "non entusiasta " del concetto di
"corporazione proprietaria", esposto da Ugo Spirito durante il
Convegno di Ferrara. Inoltre il suo Manifesto Realista del gennaio
1933, sottoscritto e pubblicato dal Professore e dai suoi amici, indubbiamente
definisce il marxismo "incompatibile con la natura umana e soprattutto
con la natura italiana - ma
teorizza che - il tramonto
inarrestabile del sistema liberale esiga da una parte l'eticità
dell'economia, dall'altra la graduale partecipazione dei lavoratori alla
gestione delle aziende e la fine d'ogni proletariato…la società futura
avrà a fondarsi sul dovere del lavoro e sul diritto del produttore alla
proprietà e ..all'iniziativa individuale... nei limiti utili allo
Stato". A tal proposito Gramsci noterà come il fascismo pur avendo
instaurato un regime totalitario senza un'opposizione politica, dovesse tenere
a bada giovani critici nati dalle sue stesse fila. Per Ricci questa, non era
una contraddizione da poco se il gerarca cremonese Farinacci dalle pagine del
suo "Regime Fascista" lo accusava di " bolscevismo
" e se la polizia era di casa in tipografia e il sequestro del giornale
era sempre un rischio concreto e presente. Ruggero Zangrandi a questo
proposito afferma: "Non so quali protezioni avesse Ricci, se non quella
che gli derivava dal suo temperamento aggressivo e dalla povertà in cui
viveva, in una casa modesta, insegnando in un liceo di Prato (il che lo
costringeva a andare avanti e indietro ogni giorno) e dedicando il resto del
tempo e tutta la sua energia all'impegno che si era assunto di trasformare il
fascismo". Tuttavia Ricci non era uno sprovveduto, riusciva a costruirsi
amicizie importanti creando così dei rapporti umani che lo salveranno in
molte situazioni. Ad esempio, malgrado il contrasto con Gentile, collaborava
alla gentiliana "Vita Nova", o ad altri fogli, come "Il
Cantiere" (di "sinistra") o il "Secolo fascista"
(di "destra"). Fondamentale in tal senso anche l'amicizia con Ciano
allora direttore dell'ufficio stampa del duce; inoltre Berto Ricci riteneva
inscindibile il binomio Mussolini-fascismo e il duce ne ricambiava la stima,
leggeva i suoi Avvisi e considerava il professore fiorentino quasi il
prototipo dell'italiano nuovo nato dal fascismo. Ricevette infatti a Roma gli
"universali", li incitò a proseguire ed offrì loro la
collaborazione a "Il Popolo d'Italia". Rosai sconsigliò
Ricci di accettare, perché probabilmente intuiva il tentativo da parte del
duce di controllare direttamente quegli "eretici" troppo aggressivi
per quei finanzieri, industriali e borghesi che, in fondo, davano a Mussolini
la possibilità di governare. Ricci intuisce le intenzioni di Mussolini, ma lo
stima troppo per non accettarne l'offerta. Tuttavia la diffidenza di Rosai,
risultò ben motivata tanto che arriverà un provvedimento di censura della
rivista. Nel frattempo Ricci, che nel 1932 si era sposato e insegnava
all'Istituto "Tullio Buzzi" di Prato, parte come semplice volontario
per la guerra d'Etiopia : " i suoi compagni seppero – noterà l'amico
Paolo Cesarini – che era un professore soltanto quando i superiori comandi
lo inviarono d'autorità a seguire un corso ufficiali a Sanganeti". Dal
giugno all'agosto 1935 Bilenchi, il suo più vicino collaboratore, lo
sostituisce nella direzione de "L'Universale" non attenuando
i suoi toni polemici, ma la guerra e l'unanimismo preteso in tali frangenti
dal duce, contribuiscono alla chiusura del giornale, che avviene il 25 agosto
1935. Ricci obbedisce alla volontà del Capo. Un successivo progetto di varo
de "La Tribuna dell'Universale" fallirà sia per la sua
ritrosia ad insistere presso Mussolini, sia per la vincita di un concorso alla
cattedra di matematica all'istituto tecnico-industriale "Vittorio
Emanuele III" della città Palermo dove temporaneamente si trasferisce
continuando comunque la collaborazione al "Popolo d'Italia"
ed a "Critica Fascista". L'importante lettera circolare
scritta ai collaboratori il 3 aprile 1938 (l'anno delle leggi "in difesa
della razza") per annunciare il tentativo (poi fallito) di rinascita del
periodico testimonia il pensiero dello scrittore fiorentino riguardo la
Germania: «Rispetto e e simpatia per la nazione tedesca... avversione
assoluta all'ideologia razzista e specialmente a qualunque sua introduzione in
Italia»; inoltre sull'importanza del pensare con la propria testa: «Affogare
nel ridicolo chi vede nella discussione il diavolo; chi non capisce la
funzione dell'eresia; chi confonde unità ed uniformità... muoversi saper
sbagliare. Sapere interessare il popolo all'intelligenza... libertà da
conquistare, da guadagnare, da sudare... una libertà come valore eterno,
incancellabile, fondamentale» e poi sulla giustizia sociale: «Un socialismo
di Stato anche attuato completamente e cioè una politica di
"assistenza" sarebbe semplicemente semplice demagogia... bisogna
ricreare l'antitesi Fascismo-Capitalismo... finché non si organizza su nuove
basi la produzione e non solo la ripartizione, si resta nel sistema
borghese...». Ma qualcosa ormai sta cambiando, si agitano venti di guerra, e
alcuni dei suoi più stretti collaboratori cominciano perdere la fiducia sulla
possibilità di cambiare il fascismo dall’interno. Indro Montanelli lo va a
trovare a Firenze e francamente glielo dice. Ricci l’ascolta “senza
mostrare né sopresa né indignazione” e poi gli risponde “Queste sono
faccende in cui s’ha da vedersela con la propria coscienza
e nessuno può essere d’aiuto a nessuno… pensa che se imbocchi
quella strada devi batterla fino in fondo fino al confino sino all’esilio:
questo solo ti chiedo di poter stimarti come avversario visto che devo cessare
di stimarti come amico e alleato. Perché per me, purtroppo il problema non si
pone, sebbene le mie delusioni non siano state meno gravi delle tue: sono già
convertito e non mi posso riconvertire…”. Romano Bilenchi che lo aveva
incontrato per la stessa ragione, così racconta il loro colloquio alla
vigilia della partenza di Ricci per la seconda volta come volontario per la
guerra « “Tu sei comunista “ mi diceva …”Io dico quel che ho detto
sempre” gli rispondevo “e quel che sempre hai detto anche tu. Non siamo
stati certo noi a tradire”. No" replicava, "bisogna che ci sia
qualcuno che faccia il proprio dovere fino in fondo. Io non cambio, queste
sono le mie idee". E io ribattevo…"…Io non mi sento di far
deleghe a chi mi parte dal verde e mi arriva al turchino". Ma non c'era
verso di fargli cambiare idea: non credeva più ma voleva esser fedele a
quello in cui aveva creduto. E ripeteva che andava a combattere contro gli
inglesi "di fuori" per aver poi il diritto di eliminare tutti gli
"inglesi" di dentro. Sapevo che non sarebbe tornato. Non tornò».
Infatti alle 9.30 del 2 febbraio del '41 a Bir Gandula, Cirenaica,
venne colpito da uno Spitfire inglese mentre "triste e calmo"
guidava la sua batteria. Moriva a così a 35 anni, risparmiato all'esperienza
di Salò (o della Resistenza?!) uno dei maggiori esponenti del fascismo
"socialista", quel tipo di fascismo che farà definire a Togliatti
nel 1948, rivolgendosi ai reduci della RSI come "dovuta per gran parte a
malinteso la convinzione che fra noi e una massa ingente di giovani fascisti
– esistesse – una distanza enorme". Occorre osservare tuttavia che
forse ciò che rendeva “breve” la distanza fra queste due opposte sponde
era, oltre al medesimo “sentire sociale”, la comunanza nella devozione per
un “capo”, per uno “stato forte”, per un “partito forte”:
in sostanza la vocazione al “totalitarismo”. Nel dopoguerra si
accese una polemica: Ruggero Zangrandi, che lo conobbe, scrisse (e così la
pensava anche Bilenchi) che la partecipazione di Berto Ricci alla guerra (che
più volte sollecitò a Pavolini ed infine ottenne), fu "un consapevole
suicidio" mentre la moglie di Berto parlò di una decisione dettata da
"un punto d'onore" di un amareggiato, ma non di un rassegnato. La
destra anche oggi lo ricorda come "eroe fascista" in molti siti
internet gestiti soprattutto dai giovani della cosiddetta "destra
sociale".
(Originale dell’articolo: C.O. Gori, Il fascismo impossibile del professore fiorentino Berto Ricci. Dalle colonne de l’Universale il sogno di un fascismo di sinistra, “Microstoria”, [a. 3, n. 20 (nov./dic. 2001). Bruno Fanciullacci (1919-1944) Se nella Firenze degli Anni Trenta la ricerca sofferta, tormentata e contraddittoria di un itinerario politico di sinistra, segna la vita del fascista "eretico" Berto Ricci e dei suoi amici, Romano Bilenchi ed Ottone Rosai, che ritroveremo anche in queste vicende, la figura di Bruno Fanciullacci, si contraddistingue invece per la determinazione e la coerenza nell'imboccare fin dalla prima giovinezza la via della lotta antifascista, della liberazione nazionale e del riscatto proletario. Una "lunga strada" che per Bruno terminerà in un caldo pomeriggio del 14 luglio 1944. Nasce nel 1919 a Pieve a Nievole, il padre Raffaello, fiorentino trasferitosi in Valdinievole dal 1907, di sentimenti anticlericali ed anarco-socialisti, dal 1929/30 diviene inviso ai fascisti locali per alcuni suoi atteggiamenti "non allineati" e boicottato, deve chiudere la sua piccola azienda meccanica artigiana, tornare con la numerosa famiglia a Firenze ed adattarsi a lavori saltuari. Uscito da una classe operaia schiacciata e mortificata dal regime, Bruno non può andare oltre gli studi elementari. A diciassette anni trova un lavoro stabile come lift in un noto albergo fiorentino e viene ricordato come un giovane magro e silenzioso, parco di gesti, professionalmente impeccabile, dotato di una intelligenza e maturità superiore all'età ed agli studi compiuti che riesce ad infondere in chi lo incontri simpatia istintiva e fiducia. Entra ben presto in contatto con un gruppo di militanti ed intellettuali antifascisti che fa capo a Piero Calamandrei, distribuisce volantini che attacca persino nei corridoi della questura e infaticabile, scrive sui muri accuse a Mussolini ed al regime. Vittima di un agente provocatore rimane impigliato nel 1938 con un centinaio di altri antifascisti in una vasta retata della polizia e viene poi condannato a sette anni di reclusione. Nel carcere di Castelfranco Emilia, entra in contatto con l'organizzazione del PCI e "l' università del partito" trasforma l'adolescente antifascista senza tessera in un cosciente militante comunista. Liberato poco prima della caduta del fascismo e tornato al lavoro, entra in clandestinità subito dopo l'armistizio dell'8 settembre e l'arrivo dei tedeschi. Opera a Marciola sulle colline vicino a Firenze, poi il suo gruppo si unisce a quello di Faliero Pucci nella zona di Greve in Chianti. E' di questo periodo l'attentato allo zelante responsabile repubblichino del distretto militare di Firenze col. Gobbi e l'uccisione di una spia fascista. Il PCI intanto aveva costituito il comando militare partigiano per la Toscana con a capo Sinigaglia, Pucci, Tagliaferri e dalla fine del settembre 1943 stava organizzando, sull'esperienza della Resistenza francese, i Gruppi di Azione Patriottica. I GAP, a differenza delle formazioni partigiane dislocate in montagna, operavano clandestinamente nel cuore delle città in piccoli gruppi 3-4 uomini. Il loro compito era creare il panico colpendo con attentati e sabotaggi i caporioni, le sedi e le attrezzature del nemico nazifascista. Per questo venivano richieste al gappista doti non comuni: coraggio, determinazione, sangue freddo, sacrificio, disciplina, esperienza militare. Figure di gappisti come quelle, tra gli altri, di Giovanni Pesce o Dante Di Nanni sono divenute leggendarie nella Resistenza italiana. Per questo sarà bene ricordare innanzitutto, a chi ha voluto stabilire un assurdo parallelo (giocando anche sul fatto che alcuni gruppi estremistici hanno poi ripreso la sigla "gap") fra il gappismo di allora ed i fenomeni anche recenti di lotta armata, condannando il tutto come "terrorismo", che nel '43/'45 era in corso una guerra e c'erano l' occupazione tedesca ed una dittatura da combattere. Le azioni dei GAP miravano ad acquisire un consenso popolare alla Resistenza, per il gappista catturato la tortura e la morte non erano certo un evento casuale, ma la certezza: si calcola che fra i caduti della Resistenza un gappista su tre abbia fatto questa fine! A Firenze sotto la guida di Alessandro Sinigaglia i GAP si organizzarono inizialmente in quattro gruppi di quattro uomini ciascuno; Cesare Massai ne era il comandante operativo ed Alvo Fontani commissario politico. Fanciullacci ("Maurizio") venne posto al comando del gruppo "B" costituito da alcuni compagni che erano con lui a Marciola: Tebaldo Cambi, Luciano Suisola, ed il giovanissimo Aldo Fagioli che, come abbiamo già visto in un precedente articolo, ritroveremo poi nelle vicende del Gruppo di Combattimento “Cremona”. Il periodo che va dal gennaio all'aprile del '44 è il periodo eccezionale del gappismo fiorentino, non passa giorno senza qualche difficoltà per i fascisti e Fanciullacci è l'uomo di punta dell'organizzazione. Innumerevoli sono le azioni alla quale partecipa, ad esempio quella in cui travestito da ufficiale fascista si introduce nella sede del PFR in via dei Servi e vi lascia una bomba che esploderà poco dopo devastandola completamente. Uguale sorte tocca alla sede del sindacato fascista dove si stavano compilando per i tedeschi elenchi di aderenti allo sciopero del 4 marzo, oppure quella della Feldgendarmerie di via del Campuccio. Tuttavia Fanciullacci viene generalmente ricordato per l'uccisione di Giovanni Gentile, forse l'azione più controversa di tutta la Resistenza, insieme a quella di via Rasella a Roma. Indubbiamente Gentile era figura di primo piano: filosofo eminente, già ministro fascista della pubblica istruzione, aveva aderito con entusiasmo alla repubblica di Salò, tuttavia a volte aveva impegnato il suo prestigio per salvare alcuni resistenti dal plotone d'esecuzione. Non così era accaduto il 23 marzo del 1944 quando alcuni giovani renitenti alla leva furono fucilati a Campo di Marte, anzi Gentile, in un discorso da lui pronunciato in precedenza come presidente dell'Accademia d'Italia e poi comparso su "Civiltà fascista", aveva rivolto un chiaro invito alla rappresaglia indiscriminata non solo nei confronti dei partigiani, ma anche contro i "neutrali e i prudenti". Alcune interpretazioni, anche recenti, hanno ipotizzato che l'ordine dell'eliminazione di Gentile sia venuto dagli Alleati contro i quali aveva pronunciato infuocati discorsi ai quali Radio Londra aveva risposto definendolo "arlecchino filosofo drappeggiato di croci uncinate" e incitando alla "…santa rabbia che animò il popolo italiano nelle sue ore più belle." Altri, come lo storico Luciano Canfora, affermano che elementi estremisti fascisti sapessero che il filosofo era in pericolo e non facessero niente per proteggerlo. L'ordine comunque viene portato a Firenze dall'esponente comunista in seno al CTLN Luigi Gaiani, in esso si dice che la sentenza deve eseguirla Fanciullacci ed un gruppo di fuoco misto costituito da elementi del gruppi "A" e "B". Alle ore 13,30 Fanciullacci si trova con un altro compagno davanti all'abitazione fiorentina del filosofo a Villa De Marinis al Salviatino mentre altri due gappisti attendono nei pressi con compiti di copertura. La macchina con Gentile arriva alla villa, un gappista si avvicina e chiede: "È lei Giovanni Gentile?", "si" risponde il filosofo: "Questo lo manda la giustizia popolare" e spara. La macchina corre verso l'ospedale mentre due gappisti si allontanano scendendo per via Lungo l'Affrico e Bruno ed il suo giovanissimo compagno prendono per viale Righi fatti segno ad applausi e a voci di approvazione della gente affacciata alla finestre alla quale Bruno ingiunge di ritirasi dicendo "ma che siamo a teatro?". Poco tempo dopo, il 26 aprile, la fortuna volge le spalle a Bruno che, nel corso di un'azione condotta da un altro gruppo, viene casualmente catturato a un posto di blocco. Interrogato una prima volta dal famigerato Mario Carità, viene poi seriamente ferito con un pugnale da un altro ufficiale fascista. Ricoverato nell'ospedale di via Giusti è liberato l'8 maggio con un'audace azione condotta da Chianesi, Martini, Gattai, Suisola, Menicalli e Fagioli. I fascisti da ciò intuiscono l'importanza del personaggio e Bruno viene invitato dall'organizzazione a lasciare Firenze, ma non accetta e resta per un periodo nascosto, con Suisola e Fagioli, in casa di Ottone Rosai, già da tempo in contatto con la Resistenza. Restano a testimonianza di questa amicizia i ritratti del pittore ai tre partigiani. Proprio in casa di Rosai viene progettata l'ultima azione alla quale Bruno partecipa, la liberazione dal carcere di S.Verdiana della gappista Tosca Bucarelli avvenuta il 9 luglio. Ma il cerchio della repressione ormai si stringe sui Gap fiorentini, alcuni sono caduti, i "ricambi" non sono forse stati all'altezza degli "iniziatori", forse qualcuno sotto tortura ha parlato. Si moltiplicano gli arresti ed anche Bruno, tre settimane prima della liberazione della città, il 15 luglio del 1944, malgrado un travestimento che ne altera la figura, è riconosciuto ed arrestato in Piazza Santa Croce. Viene subito condotto in via Bolognese nella famigerata Villa Triste, centro di torture organizzato dalla polizia politica del magg. Carità che tuttavia in questo periodo si era già trasferito al Nord. Interrogato dal vice di Carità, Bernasconi, Bruno resiste e portato in cella esorta i compagni a "tener duro". Riportato ai piani superiori nel primo pomeriggio vede un finestra aperta e vi si getta compiendo un volo di oltre venti metri dal lato di via Trieste. In fin di vita spira a Villa Triste alle 15, 30 del 17 luglio e viene seppellito a Trespiano in una fossa comune. La sorella Rina e la famiglia sapranno, anche tramite le ricerche di Romano Bilenchi, da tempo impegnato nell'attività clandestina della Resistenza, della morte di Bruno solo il giorno 22. Nel 1945 la salma venne riesumata e dopo una commossa cerimonia pubblica il partigiano fu sepolto nel cimitero di Soffiano sotto una lapide bianca con la scritta "Bruno Fanciullacci, medaglia d'oro" . (Originale
dell’articolo: C.O.Gori, La “lunga strada” di Bruno Fanciullacci. Il percorso
antifascista dell’uomo che uccise Giovanni Gentile,
“Microstoria”, a. 4,
n. 21 (gen./feb. 2002)
(Carlo Onofrio Gori) La foto di una classe, una quinta ginnasio del 1935, che compare sulla copertina di un libro uscito quasi trent’anni fa, “La scuola nel regime fascista: il caso del liceo classico di Pistoia”, ritrae alcuni studenti del “Forteguerri” che, non molti anni dopo, posti di fronte alla dura prova dell’armistizio dell’8 settembre 1943, sapranno “reagire e scegliere con sicurezza e maturità” (1). Un loro compagno di classe, il medievalista ing. Natale Rauty, in una sua recensione a quel libro ricordava i nomi di tre caduti: Mario Caterini, Iacopo Barbi, Silvano Fedi, leggendario capo partigiano pistoiese, ed infine quello di “Pier Luigi Bellini delle Stelle, che al comando di bande partigiane del Comasco arrestò Mussolini a Dongo” (2). Di Bellini delle Stelle, a parte le vicende strettamente connesse a quello storico episodio, si è parlato e si sa ancora molto poco (3). Nasce a Firenze il 14 maggio 1920, compare nell’elenco ufficiale della nobiltà italiana del 1934 insieme al padre Ernesto ed alle sorelle Maria Luisa ed Eleonora. Nel 1926 il padre, colonnello, trasferisce la famiglia a Pistoia che va a risiedere in un palazzo di via Porta San Marco dove ora al n. 11 ha sede la Chiesa Evangelica. Alcuni amici pistoiesi ricordano Bellini come un ragazzo semplice ed alla mano che non ostentava la propria appartenenza nobiliare in un tempo in cui era quasi d’obbligo il farlo ed anche in seguito, chi lo conobbe, confermerà i tratti di modestia e riservatezza di questo gentiluomo fiorentino, leale, intelligente e colto, delineando la figura di “un uomo indimenticabile” (4). Nel settembre del 1936 i Bellini tornano a Firenze andando ad abitare in via Pacinotti n. 3 nei pressi della Stazione di Campo Marte. Per ricostruire gli eventi successivi che portarono il conte Bellini a combattere nelle “Brigate Garibaldi” che erano organizzate dal PCI, anche se ovviamente non tutti i “garibaldini” erano comunisti, occorre leggere la prima parte del suo libro, tradotto in varie lingue, ma oggi ormai quasi introvabile, “Dongo ultima azione” edito da Mondadori nel 1962 (poi ripubblicato nel 1975 col titolo “Dongo: la fine di Mussolini”) e scritto sulla base dei genuini appunti vergati in quei giorni insieme al suo fedele e noto vice Urbano Lazzaro (“Bill”). Dopo l’armistizio le notizie dei rastrellamenti e delle fucilazioni compiute dai nazifascisti e la vista dei prigionieri ammassati nei carri bestiame che sostavano alla Stazione di Campo Marte e delle violenze tedesche verso alcune donne che cercavano di portare acqua e cibo ai disgraziati, portano Bellini a maturare la convinzione che “…Mussolini e i suoi erano solo degli usurpatori che si reggevano al potere solo in virtù dell’appoggio tedesco e di spietati metodi di repressione…il mio sdegno contro gli uni e contro gli altri – scrive – aumentava di giorno in giorno…Mi convinsi così che mi sarebbe stato impossibile rimanermene con le mani in mano ad attendere la salvezza e la liberazione da altri, che era una questione di dignità umana prendere parte attiva…l’acquiescenza specie in simili tragici eventi in cui è in giuoco il destino dell’umanità stessa, diventa complicità” (5). In seguito ad una visita alla sorella Eleonora che insegnava a Gravedona sul lago di Como, e per suo tramite, ha l’occasione di mettersi in contatto con i partigiani locali, i “garibaldini” di uno dei distaccamenti che componevano la 52ª Brigata “L. Clerici”, il “Giancarlo Peucher Passavalle”. Può così ai primi di giugno del ’44 portare col nome di battaglia di “Pedro” il suo “…contributo alla lotta di Liberazione, il cui scopo finale – scrive – era quello di riscattare la pesante ipoteca della guerra perduta”(6). Lo attendono, sul monte Berlinghera, situato in una posizione strategica a nord-ovest del lago, lunghi mesi di una dura vita partigiana che egli ci descrive con una vivida e scarna narrazione senza nulla concedere alla fantasia o alla retorica. Un’esperienza fatta di audaci assalti ai sottostanti presidi nazifascisti, di sabotaggi e alle vie ed ai mezzi di comunicazione, di eroismi e di fughe durante gli spietati rastrellamenti, di fame e di notti invernali passate a volte all’addiaccio a oltre 1000 metri d’altezza, di aiuti da parte della popolazione, ma anche di spie sempre pronte alla delazione, di coraggiosi compagni caduti e di altri che invece non sopportano più i pesanti sacrifici e “gettano la spugna” rifugiandosi in Svizzera o tornando clandestinamente alle proprie case. Mesi, nei quali emergeranno le sue non comuni doti che lo porteranno prima al comando del “Peucher” e successivamente di tutta la 52ª Brigata. E’ il 26 aprile 1945 quando Pedro giunge, ad appena 25 anni e quasi per caso, al suo appuntamento con la “grande” storia. Scende infatti con 7 uomini sul lago a Domaso per acquistare del tabacco e lì dalla radio e dalla popolazione festante apprende che è in atto l’insurrezione. Da questo punto in poi le versioni dei fatti, se si eccettuano quelle strettamente connesse alla fucilazione di Mussolini ed all’esistenza ed alla sorte del carteggio Mussolini-Churchill di cui anche recentemente si è molto parlato in discusse trasmissioni televisive, sono ampiamente note su di esse le testimonianze, salvo qualche dettaglio, generalmente concordano, pertanto le riassumeremo. Pedro, richiamati dalla montagna la ventina di uomini di cui può disporre in quel momento ed armati alcuni popolani disponibili, contando sul fattore sorpresa, con abili manovre tattiche ed intelligenti trattative costringe alla resa importanti presidi fascisti e tedeschi della zona ed occupa Dongo. Quando si ha notizia dell’arrivo di un forte contingente tedesco con alla testa una grossa autoblinda della Brigata nera di Lucca, Pedro mobilita gli abitanti della zona fingendo di disporre di numerosi armati, poi va a trattare col comandante tedesco della colonna, rimasta bloccata da sbarramenti stradali. Prende tempo e con la scusa di andare a ricevere ordini a Chiavenna si trascina dietro il comandante cap. Fallmeyer che rimane impressionato dal fatto che numerosi suoi camerati si siano già arresi a quello che gli appare come un notevole dispiegamento di forze partigiane. Alla fine Pedro consente ai tedeschi di proseguire verso Merano, ma solo dopo esser stati perquisiti a Dongo ed aver consegnato i fascisti. Nel frattempo Mussolini trasborda dall’ autoblinda nella quale si trovava in un camion tedesco, travestito da soldato della Luftwaffe. Dopo varie vicissitudini i fascisti, fra i quali numerosi gerarchi, vengono catturati sul posto mentre i tedeschi proseguono per Dongo sottoponendosi alla perquisizione, è in questa circostanza che Bill scopre ed arresta Mussolini. Pedro e Bill A Dongo vengono trasferiti tutti i prigionieri che Pedro tratta, per riconoscimento unanime, con correttezza ed umanità (7). Preoccupato poi per possibili colpi di mano di gruppi fascisti volti a liberare il duce, idea ed attua, con la collaborazione di Michele Moretti (“Pietro”) e di Luigi Canali (“Neri”), il “doppio” trasferimento di Mussolini: il primo, “semisegreto”, a Germasino, il successivo, veramente segreto, in altra località che dopo varie peripezie risulterà essere la cascina De Maria a Bonzanigo. Sarà qui che per l’ultima volta vedrà Mussolini. Infatti nella tarda mattinata del 28 aprile giungono a Dongo i partigiani inviati dal comando garibaldino di Milano e la gestione della situazione passa nelle mani di Walter Audisio (“Valerio”) e di Aldo Lampredi (“Guido”) che hanno il compito di giustiziare Mussolini ed i suoi. Pedro non vuole che il duce cada nelle mani degli Alleati, ma non è d’accordo su questa soluzione così affrettata e “rivoluzionaria”, vorrebbe un regolare processo, tuttavia deve ubbidire ai superiori e farsi da parte. Le successive vicende sia di Mussolini e della Petacci, che dei gerarchi concentrati e poi fucilati sul lungolago di Dongo, hanno così il loro epilogo. Dal dopoguerra si hanno di Bellini poche notizie. Scrive, quasi “a caldo”, un lungo articolo per “L’Unità” sui fatti di Dongo, poi dal 1952, avvocato, risiede a Como e si sposa con Miriana Berio. Il suo nome torna successivamente alla ribalta nel 1957 durante il “processone” celebrato in Padova per stabilire che fine avesse fatto “l’oro di Dongo” sequestrato ai gerarchi. In esso, da parte delle sinistre, si vide una montatura politico-giudiziaria volta a colpire i partigiani comunisti. Il Presidente della Corte preannuncia la testimonianza di Bellini delle Stelle, attesa con comprensibile ansia sia dall’accusa che dalla difesa, come la più importante di tutto il processo, evidentemente perché il conte, pur essendo stato “garibaldino” non è comunista ed anzi si è trovato spesso in polemica con i partigiani comunisti. Nella sua deposizione del 21 maggio Bellini dichiara che i valori descritti nell’inventario sono quelli effettivamente sequestrati ai fascisti, affidati a Michele Moretti, e da questi regolarmente consegnati al Comando generale partigiano. I conti tornano. Quel giorno “L’Unità” può far precedere la cronaca del processo da un titolo a sei colonne: “Con la deposizione del partigiano Pedro crolla la montatura sul tesoro di Dongo”. Nel 1965 Bellini, che appare con “Bill” in una trasmissione televisiva per il ventennale della Resistenza, è funzionario della SNAM a Metanopoli nel comune di San Donato Milanese dove poi morirà il 25 gennaio 1984. Carlo Onofrio Gori Originale dell’articolo
comparso sul n. 37 (set./ott. 2004) di “Microstoria” 1)
N. Rauty, Bibliotheca pistoriensis, in “Bullettino storico
pistoiese”, n. 1/2, 1977, pp. 192-193. 2)
Ivi 3)
Cfr. M. Fini, Quel 25 aprile di 49 anni fa, in “L’Indipendente”,
29 marzo 1994. 4)
G. Bardaglio, I personaggi
del Corriere: Giuseppe Barbieri. Intervista, in “Corriere di Como”,
9 aprile 2000, 5)
P.L. Bellini delle Stelle (Pedro)-U. Lazzaro (Bill), Dongo: la fine
di Mussolini, Milano, Mondatori, 1975, pp. 14-15. 6)
Ivi 7) Cfr. G. Pisanò, Storia della guerra civile in Italia, Milano, FPE, 1966, pp. 1542-1648. Silvano Fedi, è stato indubbiamente il personaggio della Resistenza più popolare e più caro ai pistoiesi (1). Oggi, in città, portano il suo nome scuole, polisportive, palestre, piscine e l’ampio e centralissimo Corso Silvano Fedi, mentre, sulle pendici della collina di Montechiaro dove cadde insieme a Giuseppe Giulietti, svetta il monumento di Umberto Bovi a lui dedicato e realizzato nel 1979 con i fondi di una sottoscrizione pubblica promossa da un comitato voluto dall'ANPI di Bonelle. Monumento a
Silvano Fedi Tra gli elementi dell’opera, il cui metallo è oggi purtroppo deturpato da incisioni stupide ed offensive, una citazione - la copertina di Piaceri crudeli di Leone Tolstoi - ci rinvia all'esperienza di vita di Silvano che, seguendo un percorso difficile e originale per un giovane studente dell'epoca, parla di un’umanità affrancata dal bisogno in mondo senza frontiere e matura una convinta e coerente opposizione al regime fascista. Per questo a diciannove anni, il 12 ottobre 1939, venne arrestato insieme a Fabio Fondi, Giovanni La Loggia e Carlo Giovannelli, denunziato poi al Tribunale Speciale e condannato ad un anno di detenzione. Quando, dopo qualche tempo, la pena gli venne condonata, Fedi rientrò a Pistoia e si gettò nuovamente con entusiasmo nella lotta antifascista, saldo nel suo ideale anarchico, o come lui preferiva definirlo, “comunista libertario”. Ricordiamo che a Pistoia gli anarchici vantavano una tradizionale presenza politica fin da quando Giuseppe Manzini, padre della nota scrittrice Gianna, iniziò a fine Ottocento la stampa dell’ “Ilota”. Negli anni Venti solo il piccolo nucleo locale degli Arditi del Popolo, composto prevalentemente da elementi anarchici e animato – come ha recentemente ricordato Alberto Ciampi in un suo pregevole articolo – da Virgilio Gozzoli (2), saprà opporsi ai fascisti sul loro stesso terreno. Fra gli anni Trenta e Quaranta la vecchia generazione anarchica pistoiese (Egisto Gori, Archimede Peruzzi, Tito Eschini ecc.), nella sua attività cospirativa, entrerà in contatto il gruppo dei giovani studenti via via raccoltosi intorno a Fedi (La Loggia, Giovannelli, Filiberto Fedi, Raffaello Baldi, i fratelli Bargellini, ecc.) ai quali in seguito si uniranno alcuni operai e tecnici delle Officine San Giorgio (Tiziano Palandri, Oscar Nesti, Giulio Ambrogi ecc.) ed il gruppo del Bottegone (Sergio Bardelli, Francesco Toni, ecc.). La presenza dei giovani liceali, apportatrice di entusiasmo e forze nuove nel già variegato tessuto sociale che costituiva il sostrato dell’anarchismo pistoiese, fece sì che il movimento, anche con la costituzione Federazione Comunista Libertaria, si allargasse e divenisse competitivo nei confronti del Partito Comunista, che nella clandestinità si stava accreditando come la forza antifascista più consistente. Già dopo il 25 luglio del '43 Fedi, che era stato tra gli animatori di una manifestazione popolare per le vie di Pistoia, veniva arrestato dalla polizia badogliana, ma era subito dopo liberato a furor di popolo. Dopo l’Armistizio Silvano in seguito a dissidi politico-organizzativi emersi con gli anarchici della “vecchia guardia”, ed in particolare con Tito Eschini, costituisce nell'ottobre 1943 una propria formazione partigiana composta inizialmente da una cinquantina di uomini, le “Squadre Franche Libertarie”, che, pur collegata al Partito d'Azione, rivendica una completa autonomia, anche dal CLN, ed è formata prevalentemente da militanti anarchici o comunque di idee libertarie. Sceglie di non salire in montagna, ma di muoversi incessantemente tra la città e la campagna, dove ha maggiore possibilità di rifornirsi di armi e munizioni, sia nel versante di Pistoia sino alla zona di Quarrata e alle colline del Montalbano, sia in quello di Fucecchio e Lamporecchio, dando vita con particolare abilità ad una serie di azioni clamorose basate soprattutto sul fattore sorpresa. Audacissimo e spericolato si presenta infatti con una impresa che ha il sapore della beffa: dal 17 al 20 ottobre ’43 attacca infatti, con soli sei uomini (Danilo Betti, Brunello Biagini, Marcello Capecchi, Santino Pratesi, Giulio Vannucchi,) per ben tre volte consecutive il munito caposaldo fascista della Fortezza di Santa Barbara, dove preleva una gran quantità di armi, munizioni e viveri, una parte dei quali viene trasportata in montagna. Silvano, anche in seguito, destinerà sempre parte dei materiali ricavati dai suoi attacchi ai presidi nazifascisti di città e dintorni, condotti spesso senza spargimento di sangue, al rifornimento di altre formazioni partigiane pistoiesi, da quella di “Pippo” (Manrico Ducceschi), a quelle del Partito Comunista e del Partito d'Azione. Su queste imprese di Silvano abbiamo recentemente avuto la fortunata occasione di registrare un lungo colloquio con Artese Benesperi. Artese Benesperi Benesperi, nato il 19 agosto 1915, conosce Fedi nel novembre del 1943, tramite Tiziano Palandri ed altri amici di Bonelle, da allora in poi Artese è nella lotta armata a fianco di Silvano in tutti gli altri momenti decisivi e clamorosi del suo eccezionale ed intrepido impegno antifascista ed antinazista. “Silvano - ci dice Artese - aveva anche un grande genio e lo dimostrò in molti casi, come nell'episodio in cui io rimasi ferito, quando fu ammazzato quell'ufficiale tedesco in Valdibrana e lui riuscì ad organizzare la cosa facendo in modo che non venisse fucilato nessuno”. Artese si riferisce a quanto accadde nella notte del 29 marzo del 1944 quando lui, Silvano, Tiziano Capecchi e un altro compagno erano usciti per recuperare armi e vettovagliamento e casualmente si imbatterono in un ufficiale tedesco che amoreggiava con una ragazza e ne nacque una sparatoria dagli esiti suddetti. Si trattava di evitare la rappresaglia dei tedeschi che già avevano programmato la fucilazione di dieci persone e Silvano, dopo aver fatto curare Artese, si mosse abilmente per evitarla recandosi la sera successiva a Serravalle, nella villa dove si era ritirato il noto drammaturgo Giovacchino Forzano e lo indusse, con successo, ad utilizzare la sua amicizia con Mussolini per evitare la strage. Artese ricorda che successivamente Silvano decise di avvicinare il pistoiese Licio Gelli (in tempi più recenti assurto alle cronache nazionali per la vicenda della Loggia P2), un tenente di 25 anni ufficiale di collegamento fra il fascio pistoiese e la Kommandantur tedesca che già da qualche tempo aveva offerto la propria collaborazione alla Resistenza. Gelli, ormai gravemente compromesso agli occhi degli antifascisti pistoiesi, di fronte all’ inesorabile avanzata Alleata, cercava di acquisire meriti “partigiani” presso il CLN per poter salvare la pelle, come poi accadde; Fedi, invece, cercava una copertura per poter condurre altre clamorose e temerarie imprese, che vennero ben presto. Infatti Silvano ed i suoi, in questo periodo, riescono con successo innanzitutto ad attaccare (per la quarta volta!) la Fortezza, poi a disarmare gli agenti nei locali della Questura repubblichina di P.za S. Leone, ed infine ad assaltare il carcere delle Ville Sbertoli (3). In quest’ultima occasione partecipa direttamente all’azione Licio Gelli che, insieme ai partigiani Enzo Capecchi, Giovanni Pinna, Iacopo Innocenti, travestiti da fascisti, si fa aprire le porte fingendo di tradurvi Silvano ed Artese, apparentemente ammanettati. Ben presto i partigiani impugnano le armi disarmano le guardie e liberano 54 prigionieri, fra i quali due ebrei ed il resto quasi tutti politici. Il sodalizio di Silvano con Gelli, come i fatti dimostrano e come poi tutti compresero, era ovviamente un’intesa strumentale, ma occorre ricordare che, sulle prime, aveva suscitato in alcuni ambienti della Resistenza pistoiese, notevoli perplessità, fugate solo dall’intervento chiarificatore di “Pippo” che aveva confermato la piena fiducia a Silvano (4). Tuttavia qualcosa si incrinò nei rapporti fra Fedi ed alcuni suoi più cari compagni fra i quali Panconesi, Giovannelli, Nerozzi e Brunetti e, soprattutto, Tiziano Palandri che lasciò Silvano per andare in montagna ad unirsi alla formazione di “Pippo”, divenendone poi un autorevole vice-comandante. Al riguardo, tuttavia, Artese oggi ribadisce quanto ebbe a suo tempo a dichiarare allo storico Renato Risaliti, trovando conferma in una analoga rivelazione fatta a quest’ultimo dallo stesso Palandri e cioè che il dissidio tra i due essenzialmente nacque perché Silvano “coerentemente alle sue idee” mostrava l’intenzione di proseguire la lotta armata per un mondo nuovo, “per la libertà del popolo…anche dopo l’arrivo degli Angloamericani”(5). L’estremo sogno rivoluzionario di Fedi, che forse probabilmente sarebbe rimasto solo tale e che oggi Artese vede con un certo distacco (“Silvano aveva grandi ideali, forse difficilmente realizzabili e grande capacità organizzativa, ma per fare le cose grandi ci vogliono anche grandi mezzi: gli americani hanno vinto la guerra perché erano capaci di costruire una nave al giorno, mentre noi, con poche pistole e qualche mitra, avremmo potuto fare ben poco”), venne tuttavia interrotto il 29 luglio 1944. Nel primo pomeriggio, in una stradina di campagna nei pressi della Croce di Vinacciano, mentre Silvano con alcuni compagni attendeva che alcuni malfattori, i quali avevano abusato del nome della “Fedi”, consegnassero alla formazione (secondo quanto stabilito un paio di giorni prima da un tribunale del CLN pistoiese riunito a Ponte alla Pergola) della merce rubata da restituire ai proprietari, cade in un'imboscata tesagli dai tedeschi e nel successivo conflitto a fuoco muore insieme a Giulietti. Nella circostanza viene ferito Marcello Capecchi, che come quasi tutti gli altri partigiani che accompagnavano Fedi, riesce fortunosamente a salvarsi, eccetto Brunello Biagini che verrà catturato e fucilato il 1° agosto. La presenza di un forte contingente di soldati, ben nascosti ed appostati, in quel posto e a quell'ora, ancora oggi non trova per molti convincente spiegazione e per questo pensano che Silvano sia stato tradito da una delazione. Lo pensa anche Artese, ma sull’identità dei presunti delatori non si sbilancia. Il giorno dopo “... è effettuato un rastrellamento alla Collina di Pontelungo: gli arrestati sono portati nei locali della ex-Gil di Pistoia, in piazza S. Francesco, per essere sottoposti ad interrogatorio” (6). Fra questi anche Artese ed Enzo Capecchi che riescono rocambolescamente a fuggire (7). Essi assumeranno il comando della “Fedi” sino alla liberazione Pistoia, nella quale la formazione giungerà dopo aver occupato, in seguito a duri scontri con i tedeschi e varie perdite, Vinci, Lamporecchio e Casalguidi (8). Carlo Onofrio Gori Edizione originale dell’articolo comparso sul n. 38 (nov./dic. 2004) di “Microstoria" 1)
Vd. C.O. Gori, Arrivano i partigiani, Pistoia è libera, in
“Microstoria”, n. 35 (mag./giu. 2004). 2)
A. Ciampi, Virgilio Gozzoli, vita irrequieta di un anarchico
pistoiese, in “Microstoria”, n. 37 (set./ott. 2004). 3)
Cfr. S. Bardelli-E. Capecchi-E. Panconesi, Silvano
Fedi. Ideali e coraggio, Pistoia, Nuove esperienze, 1984, pp. 45-68. 4)
Cfr. G.
Petracchi, Al tempo che Berta filava.
Alleati e patrioti sulla linea gotica (1943-1945), Milano, Mursia, 1996,
pp. 89-91. 5)
R.
Risaliti, Antifascismo e Resistenza nel
Pistoiese, Pistoia, Tellini, 1976, pp. 213-214. 6)
Marco Francini (a cura di) La
guerra che ho vissuto. I sentieri della memoria, Pistoia, Unicoop
Firenze-Sezione soci Pistoia, 1997, p. 364. 7)
R. Corsini, Le tappe della vita di Silvano Fedi, in “Bollettino
Archivio G. Pinelli”, n. 5 (lug. 1995). 8) Su Silvano Fedi, oltre ai già citati, vd. anche: R. Bardelli-M. Francini, Pistoia e la Resistenza, Pistoia, Tellini, 1980, pp.59-61; I. Rossi, La ripresa del Movimento Anarchico e la propaganda orale dal 1943 al 1950, Pistoia, RL, 1981, pp. 26-30, 133-143; P. Bianconi, Gli anarchici italiani nella lotta contro il fascismo, Pistoia, Archivio Famiglia Berneri, 1988, pp. 83-97; Gli anarchici contro il fascismo: Pistoia, in “A Rivista Anarchica”, n. 20 (1973); La scuola nel regime fascista: il caso del Liceo classico di Pistoia, Pistoia, Amministrazione comunale, 1977, pp. 51, 55. Torna a "Ottocento e Novecento" - Sommario
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