La questione della sicurezza nei posti di
lavoro torna, di tanto in tanto, alla ribalta, magari in occasione di qualche
evento particolarmente funesto che colpisce l'opinione pubblica per la sua
gravità. Per qualche giorno i riflettori dei media restano accesi, dopodiché si
passa ad altro, in attesa del prossimo evento funesto.
Qualche mese fa, dopo una grave serie di
incidenti, tanto grave che persino i giornali, il mondo politico-istituzionale
e il Presidente della Repubblica avevano dovuto occuparsi del tema della
sicurezza nei luoghi di lavoro, PM fece un comunicato nel quale ricordava che
“di lavoro si muore sempre e non solo quando ne parla la televisione”.
Ma forse è il “destino” di questa epoca, in
cui la realtà sembra esistere solo quando viene raccontata dai mass media, solo
quando viene illuminata dai riflettori della televisione. Senza televisione non
c'è realtà. O, perlomeno, la realtà resta nella penombra, oscura, ignota,
irreale. Ecco dunque che per rendere viva questa realtà di morte, di sfruttamento,
di alienazione… che è il lavoro, accendiamo i nostri piccoli “riflettori” per
tenere vigile l'attenzione di tutti sui rischi che i lavoratori corrono ogni
giorno - non solo, appunto, quando ne parla la televisione -, e per salari da
fame.
Qualche anno fa, la teologa Adriana Zarri
sosteneva una tesi di questo tipo: tanto più il lavoro è alienante, pericoloso,
nocivo… tanto meglio dovrebbe essere retribuito, dal momento che chi già ha la
fortuna di svolgere un lavoro piacevole e soddisfacente non dovrebbe aver
bisogno di essere gratificato anche con alti stipendi.
Ecco, noi viviamo in un mondo in cui tanto
più il lavoro è piacevole, tanto meglio viene retribuito (fino al punto che chi
non lavora per niente, ma sfrutta il lavoro altrui, se la spassa nel lusso); un
mondo in cui, al contrario, tanto più il lavoro è gravoso, pericoloso, nocivo,
stressante… tanto meno viene pagato. È un paradosso ? No, è il capitalismo.
Il dato del 2006 ci parla di 1280 morti sul
lavoro, 3,5 al giorno se calcoliamo 365 giorni in un anno. Ma considerando una
media di giorni lavorati di 250 (50 settimane di 5 giorni) la media sale già a
5,12. E se a questi aggiungiamo i morti non conteggiati perché “trasparenti”
alle statistiche (non denunciati, lavoro nero, spostamenti, malattie
professionali…) ecco che il dato dei morti legati al lavoro sale
vertiginosamente.
Già, perché i lavoratori più sfortunati,
quelli che rischiano di più la vita perché precari o “a nero” in posti dove non
ci sono sindacati, né controlli delle ASL, dove il ricatto del padrone e del
capo è diretto, immediato, imprescindibile… quei lavoratori non vengono neppure
conteggiati nelle statistiche. Muoiono nella realtà, ma non nella statistica. E
la statistica è come la televisione; è un “riflettore”. Se non sei nella
statistica non esisti, non conti; anzi, non vieni contato.
Ai “limiti dell'immaginazione”, verrebbe da
dire, ci sono anche i morti direttamente ammazzati.
Pensiamo, ad esempio, agli assassinii di
lavoratori immigrati (soprattutto polacchi) nelle campagne pugliesi denunciati
qualche anno fa in un'inchiesta dell'Espresso. Quelli sparivano (e
probabilmente continuano a sparire) senza tanti complimenti. Non finiscono
certo nelle statistiche, visto che a malapena si sa che esistono. Eppure sono
uccisi nell'ambito di un rapporto semi-schiavile di lavoro e vengono
assassinati quando a tale rapporto tentano in qualche modo di ribellarsi.
Pensiamo a quegli immigrati, lavoratori “in
pectore”, gettati a mare dagli scafisti per sfuggire alla Guardia Costiera.
O pensiamo alle “prostitute” che quando
ricevono dallo sfruttatore – o, per meglio dire, dalle bande di sfruttatori,
c'è una “evoluzione” anche in questo senso - solo una piccola parte del denaro
“guadagnato” in cambio dei servizi erogati, sono a tutti gli effetti
lavoratrici (e lavoratori) dipendenti. Anche lì, malattie professionali e morti
(magari per ammazzamento da parte degli “imprenditori” o dei clienti). Qualcuno
dirà che è “profano” accostare i metalmeccanici di Torino con le “lucciole”
delle nostre metropoli. Ma lo è solo per chi non capisce che entrambi sono
vittime dello stesso modo (capitalistico) di produzione, almeno nelle forme in
cui oggi si esplicano entrambi i sistemi di sfruttamento.
Quando si contestano alle imprese e alle
istituzioni i dati relativi al numero di morti legati al lavoro spesso sentiamo
rispondere che l'Italia “è nella media europea” (vedi, ad esempio, Alberto
Bombassei, vice Presidente di Confindustria su Il sole 24 ore del 9 febbraio
2007, “Sicurezza. Stop alla delega” o anche DatiINAIL, febbraio 2006,
“Statistiche Eurostat: una conferma per l'Italia”) . Come a dire: siamo messi
“come gli altri” e dunque il dato è “fisiologico”. E se invece di 1300 i morti
fossero 10.000, “come nel resto d'Europa” ? Andrebbe bene lo stesso ? E come
mai le medie europee vanno bene come termine di paragone quando si presume - peraltro
del tutto arbitrariamente - che facciano comodo (morti e infortuni sul lavoro)
e non, invece, quando non fanno più comodo (salario, servizi sociali…) ?
Senza contare che stiamo parlando di
infortuni denunciati e l'Italia è un paese in cui il “sommerso” è di gran lunga
superiore che negli altri paesi. Il rapporto per il 2008 dell'Eurispes riporta
che: “…l'economia sommersa nel nostro Paese ha generato nel 2007 almeno 549
miliardi di euro. Sempre secondo i calcoli dell'Istituto, il nostro sommerso attualmente
equivale ai PIL di Finlandia (177 mld), Portogallo (162 mld), Romania (117mld)
e Ungheria (102mld) messi insieme”. Si potrebbe quindi prendere l'insieme del
numero di morti e infortuni in Finlandia, Portogallo, Romania e Ungheria e
sommarli alla statistica dell'Inail, tanto per avere un indice di grandezza
della sottostima dei dati.
E il dato sul sommerso è a sua volta
sottostimato in quanto, proprio per la loro “invisibilità”, molte attività non
sono note, né quantificabili neppure in via di stima. Ma sicuramente stiamo
parlando di un dato gigantesco e di una condizione lavorativa conseguente
enormemente gravosa, sia in termini di sicurezza, che di diritti, che di
salario.
Diritti, sicurezza, salario sociale (“busta
paga”, TFR, pensioni, servizi sociali…), sono elementi che si legano l'uno
all'altro e che non posso essere staccati l'uno dall'altro, così come non
possono essere disgiunti dall'analisi del costo della vita (prezzi, bollette,
affitti). Come ogni lavoratore ben sa, un aumento formale in busta paga serve a
poco quando il costo della vita cresce più di questo aumento (non è questa
l'esperienza che facciamo negli ultimi decenni in cui il tenore di vita dei
lavoratori è diminuito costantemente, sia in termini “relativi”, ma ormai anche
in termini “assoluti”?). E se i soldi mancano, gli straordinari diventano
necessari. E più si lavora, più si è stanchi, più si rischiano gli infortuni. I
lavoratori, questo, lo sanno bene. E cosa fa il governo ? De-tassa gli
straordinari in modo che le aziende ne possano abusare a proprio piacimento.
Se ti tolgono salario e diritti perché
dovrebbero lasciarti più sicurezza e salute ? E' o non è, la sicurezza dei
lavoratori, un costo per le imprese ? E quando le imprese parlano di riduzione
del “costo del lavoro” pensiamo che si riferiscano solo alla già misera busta
paga ? E ovvio che, per “aumentare la competitività” ovvero il profitto dei
padroni, questo costo deve essere in tutti i modi contenuto. Meglio pagare
mazzette agli ispettori delle ASL perché non facciano il loro mestiere, meglio
pagare tangenti ai politici perché chiudano un occhio e magari anche l'altro
sulle norme e il loro rispetto, meglio prendersi qualche multa “una tantum”
(dato che le inadempienze nelle norme di sicurezza non sono un reato dell'imprenditore,
ma una contravvenzione)… piuttosto che pagare fior di soldi per garantire la
vita e la salute dei lavoratori. Del resto - dice la “falsa coscienza”
padronale - se dovessimo rispettare tutte le norme non saremmo competitivi con
chi, nei vari paesi del mondo, le norme non le rispetta e quindi “usciremmo dal
mercato” con conseguente fine di ogni rapporto di lavoro. Insomma, non lo fanno
per sé, per il proprio profitto, per la propria ricchezza…; lo fanno per noi,
per non metterci sul lastrico. Benefattori.
Questi ragionamenti non sono ipotetici.
Sono molto concreti. Quante volte si è saputo di accordi tra imprese e
sindacati in cui, in nome del mantenimento dei posti di lavoro, si è ceduto su
salario, diritti, rispetto delle norme di sicurezza ?
Quante volte le imprese sono state
“graziate” e i lavoratori morti beffati due volte (cause per amianto, sostanze
chimiche nocive, ecc…) ?
E poi non tutti i morti sono uguali. Ci
sono anche i morti “sfigati”, quello che muoiono durante i mondiali di calcio o
durante una delle periodiche campagne elettorali o mentre l'attenzione è
rivolta ai casi di cronaca nera (Cogne, Erba… ah, la famiglia…); di quelli,
stiamo certi, si parlerà ben poco.
E ci sono i morti “scontati”. Quelli che
“si sa” che rischiano. “Si sa” così tanto che la FIAT ha avuto la faccia tosta
di promuovere una campagna pubblicitaria in cui si vedono il portiere Buffon
(“vestito” da operaio edile) e un nuovo veicolo, entrambi su una impalcatura,
con la scritta “I migliori arrivano dove gli altri non arrivano” (dove
evidentemente “gli altri” che “non arrivano” sono gli operai edili che
“giocano” a fare gli equilibristi sui ponteggi).
Poi, si scopre, come alla ThyssenKrupp di
Torino, che la pelle si rischia anche dove il sindacato c'è, dove ci sono i
delegati, i controlli, nella “grande impresa europea” dove lavorano gli
italiani... E allora diventa uno shock. Invece, qualche mese prima, a Fossano,
sempre in Piemonte, un mulino era bruciato ed erano morti in 5. Nessuno ne ha
parlato se non a livello locale, e poco. Tra i 5 di Fossano e i 7 di Torino la
differenza non è data dal numero. È data dalla diversa percezione dell'opinione
pubblica ed è per questa ragione che i mass media hanno tenuto spenti i
riflettori in un caso e li hanno accesi nell'altro. Così come è diversa la
percezione dell'opinione pubblica verso i 5 e più lavoratori che ogni giorno
muoiono, “mediamente”, per il lavoro: quelli sono solo un dato, una statistica,
come dicevamo all'inizio.
E all'inizio torniamo.
Il problema della sicurezza e della salute
sul lavoro non è un problema tecnico. E non è neppure un problema “politico”.
E' un problema di civiltà. Lo dice anche il Governo nelle “linee guida” al
“Testo Unico per la sicurezza”, anche se, evidentemente, il nostro concetto di civiltà
e quello governativo sono assai più che diversi.
I lavoratori continuano a morire perché i
“valori” della ricchezza e del potere predominano su quelli della vita e della
salute. Finché il profitto delle imprese sarà un “valore” prioritario al rispetto
della vita dei lavoratori, i lavoratori continueranno a morire, a farsi male,
ad ammalarsi. E nel capitalismo, il “valore” del profitto sarà sempre
predominante su ogni altro valore: altrimenti non vivremmo nel capitalismo che,
come dice la parola, si basa sul capitale ovvero sulla realizzazione di
profitto. Questo profitto deve essere realizzato in qualsiasi modo: se serve
una guerra si fa la guerra, se serve ridurre le norme di sicurezza, si
riducono. Punto e basta. Non c'è limite ai crimini che i capitalisti sono in
grado di compiere e non ci sono limiti alle merci che sono disposti a vendere
in cambio di profitto. Se nel capitalismo si commercia di organi di bambini del
terzo mondo per fornire “pezzi di ricambio” ai ricchi del primo mondo, figuriamoci
quanti problemi morali possono esserci a dilazionare il riempimento delle
bombole anti-incendio o il controllo dei sistemi elettrici o qualsiasi altra
delle mille cose che i padroni non rispettano per guadagnare di più e più in
fretta.
Si dirà che chi commercia in organi di
bambini è un criminale. Invece, impedire loro di curarsi per il mancato
rilascio dei brevetti anti-AIDS da parte delle industrie farmaceutiche o farli
giocare con le mine anti-uomo prodotte nelle rispettabili fabbriche
occidentali, quello non è criminale ? Esporre i lavoratori al rischio della
salute e della vita in nome del profitto non è, anche questo, criminale ?
Di leggi in Italia ce ne sono. Non sono
adeguate, certo, ma il vero problema è che non vengono applicate. E dunque che
senso ha fare sempre nuove leggi se neppure quelle esistenti vengono applicate
? E perché non lo sono ? Perché se fossero effettivamente applicate le imprese
sarebbero costrette a cedere una parte dei propri profitti o, più
probabilmente, visto che i capitalisti tutto sono disposti a cedere meno che il
profitto, de-localizzerebbero in paesi in cui non si va molto per il sottile
(la Nike si sta spostando dalla Cina al Vietnam perché la Cina sta omai
diventando troppo “onerosa”…). Questa è la legge della capitalismo globale.
Ecco come questo capitalismo influenza la nostra vita quotidiana.
A questo proposito, viene da fare una
riflessione. Con le pesanti de-industrializzazioni e de-localizzazioni che si
sono avute negli ultimi anni (e il trasferimento di produzioni all'estero verso
i paesi della fascia ex-“comunista”, verso la Cina, l'India, l'America Latina,
il Medio Oriente), il lavoro operaio manuale in Italia si è parzialmente
ridotto. Invece non si è ridotto il tasso di infortuni e di morti (come ci si
sarebbe dovuti aspettare); questo significa che la diminuzione del numero di
addetti a lavorazioni “a rischio” è stato compensato dall'aumento dei ritmi e
dal peggioramento delle condizioni generali di lavoro e di sicurezza (cioè
dalla nascita di nuovi rischi).
In conclusione, se aspettiamo ASL o
istituzioni, di strada, sul tema della sicurezza e la salute dei lavoratori, ne
faremo poca. Senza una mobilitazione permanente, attiva, dei lavoratori stessi,
dal basso, le cose potranno solo peggiorare. Perché c'è un solo limite al
peggioramento graduale ed inesorabile della nostra esistenza, fuori e dentro i
luoghi di lavoro: il limite che noi lavoratori, con la nostra forza, saremo in
grado imporre.
È della nostra pelle e della nostra salute
che stiamo parlando. Se riponiamo le nostre aspettative in sindacati
compiacenti o politici e giudici conniventi con le imprese vuol dire che non
abbiamo capito nulla. Noi siamo una classe e i padroni sono un'altra classe.
Noi da una parte, loro dall'altra.
O con noi o contro di noi.