(prima parte)
La riforma
E’ bene precisare anzitutto che la riforma del sistema
previdenziale (proposta recentemente dal governo Berlusconi in applicazione
della legge delega sulle pensioni approvata a suo tempo) è ancora “in corso
d’opera”.
Sono ancora in sospeso, infatti, alcune questioni
importanti come quella del Trattamento di Fine Rapporto (TFR), della de-contribuzione
e dell’estensione al pubblico impiego.
Come noto, la “riforma” si articola in 2 fasi: prima e
dopo il 2008 (e già questo crea un ingiusto “scalino” tra i lavoratori).
L’elemento centrale del “prima-2008” riguarda gli
incentivi a continuare il lavoro: “i lavoratori del settore privato che
matureranno, entro il 31.12.2007, i requisiti per la pensione di anzianità (35
anni di contributi e 57 anni di età) e che decideranno di rimanere al lavoro,
riceveranno un aumento in busta paga pari al controvalore dei contributi
previdenziali versati all’ente di previdenza, vale a dire il 32,7% della loro
retribuzione. L’aumento sarà esente da ogni tipo di imposta” (Ministero del
Lavoro, http://www.welfare.gov.it).
Se un lavoratore matura i requisiti per andare in
pensione ma resta a lavorare prende un “aumento” pari all’equivalente dei
contributi che prima pagava allo stato.
Dal 2008 questo inventivo non ci sarà più.
La parte pesante viene dopo il 2008 (anche perché si
tratta della parte obbligatoria).
Viene introdotto un requisito unico per la pensione: “viene
confermata la regola generale del requisito unico per andare in pensione: 40
anni di contributi o 65 anni di età (60 per le donne)” e si ha una “correzione”
al meccanismo delle pensioni di anzianità: “anche dopo il 2008 sarà possibile
andare in pensione anticipata, anche se (per incentivare la permanenza al
lavoro) la pensione di anzianità sarà calcolata sulla base del metodo
contributivo”.
Come detto, rimangono in sospeso i temi del trattamento
di fine rapporto (“occorre decidere se il conferimento del TFR maturando ai
fondi pensione (negoziali e chiusi) per finanziare la previdenza complementare
debba essere volontario o obbligatorio”), della decontribuzione (“la
decontribuzione sino a 5 punti degli oneri contributivi, per incentivare
l’assunzione di giovani con contratto a tempo indeterminato”) e del
pubblico impiego (“l’estensione progressiva degli incentivi e della
previdenza complementare ai dipendenti pubblici dei ministeri, delle regioni,
degli enti locali, delle università..., è affermata nella delega in linea di
principio, ma la sua attuazione concreta comporta notevoli oneri di spesa
pubblica, e deve quindi essere oggetto di confronto e negoziato con le parti
sociali e le regioni”).
Abbiamo preso questi stralci dalla “nota esplicativa
sintetica” pubblicata sul sito web del Ministero del Welfare (ex Min. del
Lavoro) perché nella sua semplicità ci consente di valutare quali siano gli
aspetti a cui il governo da priorità.
La partita sul TFR
La partita sul TFR è una partita centrale perché investe
tutta una serie di questioni.
Proprio per la delicatezza della questione (e perché coinvolge
interessi contraddittori per lo stesso padronato) viene discussa da anni con
modesti risultati.
Dal punto di vista dei padroni ci sono due tipi di
interessi.
Da un lato il TFR è già nella loro disponibilità e
possono usufruire di questa massa enorme di denaro come forma di
auto-finanziamento.
Dall’altro lato un TFR destinato obbligatoriamente ai
fondi pensione integrativi darebbe una spinta molto forte a questi in una
situazione di oggettiva difficoltà. I fondi pensione integrativi (sia quelli chiusi,
cioè “categoriali” - metalmeccanici, chimici... -, sia quelli aperti,
cioè “intercategoriali” non hanno avuto un grande sviluppo da quando sono stati
introdotti. Solo una percentuale molto limitata di lavoratori ha “investito” in
fondi pensione integrativi (malgrado incentivi come il famoso “1%”) e le
perdite che questi fondi hanno subito in questi anni (al punto tale da
risultare meno produttivi rispetto allo stesso tasso fisso su cui matura il
TFR) potrebbero risultare ulteriormente disincentivanti.
Lo scenario internazionale degli ultimi anni aggrava
ulteriormente la situazione. I giganteschi crolli di alcuni colossi industriali
USA (tra gli altri, Enron e WorldCom) e di interi paesi come l’Argentina
mostrano diversi possibili rischi.
I fondi pensione integrativi agiscono sul mercato dei
capitali a tutti gli effetti come “capitale di rischio” e per valorizzarsi
devono essere investiti in attività produttive o speculative.
La tendenza affermatasi negli USA è quella della
creazione di fondi pensione integrativi aziendali ad alto rendimento che
attirano gli investimenti, ma che possono portare a situazioni catastrofiche.
I lavoratori della Enron (sesta azienda USA per
capitalizzazione di borsa prima del crollo), ad esempio, si sono ritrovati dopo
il crack simultaneamente senza lavoro e senza pensione perché i fondi pensione
erano investiti in azioni dell’azienda e queste aziono sono state azzerate (da
circa 100 a mezzo dollaro).
Se non si è “al sicuro” investendo in azioni di colossi
industriali e finanziari internazionali capaci (e i crack Enron e WorldCom si
sono realizzati soprattutto per i trucchi contabili del management e delle
società di revisione dei conti) è chiaro che il rischio è ancora più grave per
investimenti relativi ad aziende meno forti.
Se poi interi paesi (come l’Argentina) hanno di fatto
annullato i capitali investiti nei loro buoni pubblici (solo in Italia si parla
di 300.000 persone interessate) si capisce che non ci sono garanzie di alcun
tipo e destinare il frutto del proprio lavoro ad investimenti sul mercato
finanziario (soprattutto in una situazione di crisi economica internazionale) è
come gettare una bistecca ad branco di pirana.
Naturalmente non si è al riparo neppure dal crack interno
del paese in cui si pagano le pensioni pubbliche ma questo è un ulteriore
problema che attiene al controllo che i lavoratori dovrebbero imparare ad
esercitare nei confronti di chi a livello politico amministra il loro denaro.
Da non dimenticare che all’interno dei consigli di
amministrazione delle società di gestione dei fondi pensione integrativi chiusi
siedono rappresentanti delle organizzazioni sindacali confederali assieme ai
rappresentanti delle principali banche e imprese italiane e internazionali.
Questa co-gestione sindacati-padroni dei fondi pensione
integrativi non suggerisce ai lavoratori alcun moto di preoccupazione ? E’
veramente possibile che gli interessi dei padroni e quelli dei lavoratori
possano magicamente coincidere ?
La decontribuzione
La decontribuzione del 5% per i neo-assunti suggerisce
due ordini di problemi.
Da un lato si pone in linea di continuità con le altre
misure a favore dei padroni previste in altre deleghe (pensiamo a quelle
relative alla legge 848bis che prevede la sospensione “sperimentale”
dell’art.18 per i neo-assunti e in certe aree del paese). In questo caso si
tratta di un bel regalo economico che naturalmente ricadrà integralmente sulle
spalle dei lavoratori (e sulle casse dell’INPS). Infatti, con il passaggio al
metodo contributivo la pensione viene calcolata, appunto, in base alla
contribuzione pensionistica effettuata lungo l’arco della propria vita. Una
de-contribuzione, dunque, si traduce in un abbassamento del livello economico
della futura pensione. Si tratta di un passaggio del 5% dalle tasche dei
lavoratori giovani verso le tasche del padronato (e anche in una minore
disponibilità dell’INPS a pagare le pensioni che ancora oggi si calcolano in
base al sistema retributivo colpendo così anche una grossa parte degli attuali
pensionati).
Il secondo ordine di problema è quello che gli
“incentivi” all’assunzione dei giovani entrano in contraddizione con gli
incentivi per restare al lavoro dei “vecchi”.
Siccome i posti di lavoro non vengono creati magicamente
(tanto più, ripetiamolo, in una situazione di crisi economica nazionale e
internazionale) è evidente che si mettono in moto meccanismi di tipo opposto
solo per consentire che vengano usati a seconda delle situazioni ma sempre e
comunque nell’interesse del padrone.
Ecco che per posti di lavoro dove l’esperienza
professionale è molto importante il padrone rinuncerà ad assumere un giovane e
chiederà al “vecchio” di restare (a discapito della formazione dei giovani).
Dove invece il lavoro avrà poca professionalità e ci sarà
bisogno soprattutto di “buone braccia da lavoro” il padrone tenderà al
turn-over continuo sui giovani usando le forme di precarizzazione introdotte
dalla legge Treu e dalla legge Biagi e usufruendo anche dei vantaggi della
de-contribuzione.
(Continua nel prossimo numero di PM)