In genere, quando si parla di repressione nel mondo del
lavoro si tende a pensare all’azione disciplinare nei confronti di singoli o
collettività di lavoratori oppure alle cariche della polizia attuate per far
entrare crumiri.
La lotta degli autoferrotranvieri, e in particolare di
quelli dell’ATM di Milano, ci mostra che in realtà il ventaglio dei dispositivi
repressivi attuato contro i lavoratori è molto più ampio di quanto si possa
pensare.
Il “caso ATM” è interessante perché tutti i dispositivi
repressivi sono stati messi all’opera.
Innanzitutto, nel settore dei servizi pubblici essenziali
esiste uno straordinario strumento di repressione preventiva: la legge n.
146/90, così come modificata dalla legge n. 83 del 2000.
La l. 146/90 si prefigge lo scopo di “contemperare
l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali con il
godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita,
alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione,
all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di
comunicazione” (art. 1, co. 1 e 2).
Sciopero dei lavoratori addetti ai mezzi di trasporto
pubblico e libertà di circolazione: due diritti che, secondo il legislatore,
devono essere “contemperati” per evitare che l’esercizio dell’uno finisca per
negare l’esercizio dell’altro.
Nel nostro sistema giuridico il meccanismo del
bilanciamento tra interessi e/o diritti contrapposti è un elemento centrale che
di volta in volta il potere giudiziario, attraverso il legislatore, è chiamato
a risolvere. La soluzione al conflitto tra diritti di eguale rango, ad esempio
costituzionale, è ovviamente il riflesso di determinati rapporti di forza di
natura sociale, economica e politica.
Attraverso una legge come la 146/90 la libertà di
circolazione che risulterebbe violata in occasione di uno sciopero del servizio
di trasporto pubblico locale, come nel caso dell’ATM, viene posta come
preminente rispetto al diritto di sciopero del lavoratore del trasporto stesso.
In effetti, è innegabile la rilevanza del trasporto
pubblico locale sia in relazione allo spostamento di persone (produttori e
consumatori), sia in relazione al trasporto delle merci (ad esempio, viaggianti
con le persone, come i documenti...). Indirettamente, poi, il blocco del
trasporto pubblico spinge al ricorso di mezzi di trasporto propri con un
effetto potenzialmente paralizzante dell’intera area urbana.
La prevalenza che il nostro sistema giuridico appresta
arbitrariamente a favore della libertà di circolazione a danno del diritto di
sciopero è il riflesso del principale valore su cui si fonda una società
capitalistica come la nostra, ossia il profitto. Gli scioperi del
dicembre-gennaio di un anno fa ebbero, infatti, una ricaduta in termini
economici immediata e profonda.
Dopo un decennio di operatività la legge 146/90 è stata
sostanzialmente riformata, in particolare potenziando il metodo preventivo
(negli accordi sui servizi pubblici indispensabili devono essere previste
procedure di conciliazione e di raffreddamento), irrigidendo il sistema
sanzionatorio e conferendo maggiori poteri alla Commissione di garanzia, sia
sotto il profilo della prevenzione, sia sotto quello della repressione degli
scioperi “illegittimi”.
Nei servizi essenziali l’esercizio del diritto di
sciopero è consentito nel rispetto di una serie di condizioni: adozione di
misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili
definite e concordate nei contratti collettivi nazionali; osservanza di un
preavviso minimo, non inferiore a dieci giorni, che deve avvenire in forma
scritta e indicare la durata e le modalità di attuazione dello sciopero, nonché
le motivazioni di esso; obbligo di dare alle utenze informazioni circa lo
sciopero da parte delle amministrazioni o delle aziende erogatrici dei servizi
pubblici che devono dare comunicazione agli utenti almeno cinque giorni prima
dell’inizio dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione dei servizi nel
corso dello sciopero; esperimento di un tentativo di conciliazione, vincolante
e obbligatorio per le parti, che può svolgersi sia secondo le procedure
stabilite nei contratti collettivi, sia in sede amministrativa.
I contratti collettivi integrano la 146/90 in quanto
individuano: le prestazioni indispensabili, nonché le modalità e le procedure
di erogazione; gli intervalli minimi da osservare tra un’astensione e quella
successiva; le procedure di raffreddamento e di conciliazione, obbligatorie per
entrambe le parti e da esperire prima della proclamazione dello sciopero.
Quest’ultimo elemento costituisce una novità della legge
83/2000 (non fa male ricordarlo, approvata con un governo di centro-sinistra
sotto la forte pressione di Sergio Cofferati in persona, all’indomani di una
serie di scioperi proclamati dal sindacalismo di base e autorganizzato), una
legge che rappresenta un ulteriore e grave attacco al diritto di sciopero,
finalizzato a prevenire lo sciopero attraverso la “concertazione” tra le parti,
ossia tra sindacati e enti erogatori del servizio pubblico. Ma è soprattutto
sull’apparato sanzionatorio che è intervenuta la legge 83/2000, inasprendolo
pesantemente e attribuendo maggiori poteri alla Commissione di garanzia.
A Milano, contro i lavoratori dell’ATM sono partite più
di 4000 denunce e altrettante sanzioni pecuniarie per il mancato rispetto delle
regole imposte dalla l. 146/90. Certo, la famigerata procura milanese dalle
“toghe rosse” avrà avuto un bel da fare nel redigere più di 4000 fascicoli per
altrettanti lavoratori che sono stati costretti ad attuare uno sciopero duro e
forte, stante l’“indifferenza”di sindacati e governo di fronte ad un mancato
rinnovo del contratto o ad accordi al ribasso siglati tra sindacati e governo
contro la volontà degli stessi lavoratori.
Ma la vicenda dell’ATM di Milano si colloca all’interno
di un ulteriore livello di repressione di carattere politico e, se così si può
dire, psicologico-culturale. All’indomani dello sciopero del dicembre 2003 e di
quelli del gennaio 2004 tutti i mass-media, quasi tutti i partiti
istituzionali, i sindacati confederali, la stampa… si sono scagliati
violentemente contro i lavoratori del trasporto pubblico locale in lotta con
l’obbiettivo di fare terra bruciata attorno ai lavoratori e indebolirli
isolandoli.
Si è tentato di costruire uno scontro artificiale tra
lavoratori e utenti arrabbiati a causa del disagio provocato dallo sciopero dei
mezzi pubblici. In televisione sono apparse quasi esclusivamente interviste di
pendolari impossibilitati a recarsi al lavoro o di vecchietti intrappolati in
casa senza possibilità di spostarsi per la città, con l’obbiettivo di aizzare
l’opinione pubblica contro gli autoferrotranvieri corporativi ed egoisti.
Per fortuna l’operazione non è riuscita, almeno non come
era nelle intenzioni di chi l’aveva promossa. Nessuno ha parlato in televisione
o scritto sui giornali della solidarietà che altri lavoratori e utenti hanno
dimostrato, non solo a parole ma anche concretamente.
L’operazione “terra bruciata” è particolarmente
significativa alla luce di un’altra lotta importante che si era sviluppata in
precedenza e cioè la lotta dei lavoratori della FIAT di Termini Imerese. In
quel caso l’atteggiamento tenuto dai mass-media, dai sindacati e dai partiti fu
completamente differente.
I lavoratori di Termini Imerese hanno ricevuto il plauso
di tutti, mentre quelli dell’ATM hanno ricevuto l’ostilità aperta di tutti. A
questo punto, non possiamo non domandarci perché.
Innanzitutto, la strategicità del controllo del sistema
del trasporto locale. Poi, il livello di controllo sindacale dei lavoratori in
lotta. Terzo, il controllo politico. Quarto, il potenziale espansivo della
lotta a livello nazionale.
La lotta ATM è “andata oltre” su tutti i terreni, non
riconoscendo “padrini” né politici, né istituzionali, né sindacali.
L’autorganizzazione dei lavoratori ha fatto tremare le burocrazie sindacali,
abituate a contenere la lotta nel solco della concertazione e che sono state di
fatto scavalcate. E così partiti e istituzioni.
Un motivo fondamentale per cui questa lotta ha scatenato
il panico e dunque l’avversione generalizzata da parte del potere
mediatico-politico-istituzionale-sindacale è stato quello dell’oggettiva
perdita di controllo su questi lavoratori e la dimostrazione pratica, non solo
teorica, del potenziale che i lavoratori hanno quando decidono di muoversi con
fermezza e coraggio.