Da co.co.co a co.pro.

Come la legge Biagi modifica i contratti di collaborazione coordinata e continuativa

 

Uno degli obbiettivi contenuti nella legge n.30/2003 (“Legge Biagi”) e, successivamente, nelle norme attuative contenute nel D.L.vo n.276/2003 è quello di “regolamentare” una particolare tipologia “contrattuale” (anche se il termine è inesatto) introdotta alcuni anni fa “per far emergere il sottobosco del lavoro nero” e per “rendere più dinamico e flessibile il mercato”: i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, altrimenti detti co.co.co. I co.co.co (che sono arrivati a coinvolgere la cifra record di oltre 2 milioni e mezzo di lavoratori) sono stati una vera manna per le imprese. Il datore di lavoro non è più un “padrone”, ma un interlocutore “alla pari” con cui “coordinare” il lavoro; non sfrutta più, è magnanimo, tanto magnanimo che non è più necessario regolamentare i diritti, basta solo eliminarli tutti... Non più malattia, non più infortunio, né maternità, né ferie! D’altro canto il lavoro non è più da considerarsi subordinato, dal momento che i lavoratori coordinano idillicamente le proprie esigenze con l’impresa... Risultato: con i co.co.co. si è reso ancora più precario il mondo del lavoro e non è stato eliminato il lavoro nero il quale è piuttosto divenuto lo strumento per spremere al massimo chi è preso per il collo (come, ad esempio, i clandestini).

ad esempio, i clandestini).

Ma non è bastato. I co.co.co non erano ancora sufficienti, il mercato del lavoro doveva essere ancora più flessibile: nascono così i contratti a progetto: i Co.Pro. Gli articoli da 61 a 69 del D.L.vo n. 276/2003 dettano le modalità operative relative ai nuovi contratti a progetto che nella previsione dell’art. 61, comma 1, rappresentano una modalità di esplicazione di attività autonoma riconducibile a “uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”. In sostanza, la nuova norma non ha abrogato le varie fattispecie di lavoro autonomo ma ha inteso disciplinare, in qualche modo, quella caratterizzata dal coordinamento. Infatti, il Dicastero del Welfare ha precisato, con la circolare n. 1 dell’8 gennaio 2004, che il contratto a progetto non esaurisce la vasta gamma della c.d. “parasubordinazione”; infatti, sia l’art. 61 che altre disposizioni escludono dai contratti a progetto una serie di rapporti: 1) le prestazioni occasionali (che sono quelle la cui durata complessiva, presso lo stesso committente è soggetta a due limiti: trenta giorni nell’anno solare e 5.000 euro); 2) gli agenti e rappresentanti di commercio che trovano una specifica regolamentazione del loro rapporto in leggi speciali; 3) le professioni intellettuali per il cui esercizio è richiesta l’iscrizione in Albi professionali (la disposizione legislativa fa riferimento agli Albi esistenti alla data del 24 ottobre 2003); 4) le collaborazioni rese a favore delle società sportive dilettantistiche e le loro associazioni affiliate alle federazioni sportive nazionali ed agli Enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI; 5) i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società; 6) i partecipanti a collegi e commissioni; 7) collaboratori titolari di pensioni di vecchiaia; 8) i soggetti con contratto d’opera disciplinato dall’art. 2222 e ss. cc.; 9) le prestazioni di lavoro sportive rese con rapporto di lavoro autonomo ex art. 3 della legge n. 81/1991; 10) le prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da particolari soggetti per un massimo di 30 giorni nell’anno solare e 3.000 euro di compenso; 11) i contratti di collaborazione coordinata e continuativa presso le Pubbliche Amministrazioni.

 

La nuova disposizione riportata all’art. 44, comma 2, della legge n.326/2003 risolve i problemi della contribuzione oltre i 30 giorni, ponendo a carico del committente (come per le collaborazioni coordinate e continuative) l’obbligo del versamento alla gestione separata (due terzi a carico dello stesso ed un terzo a carico del prestatore). Quindi i rapporti di collaborazione devono essere riconducibili a uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di lavoro, predeterminati dal committente e gestiti in autonomia dal collaboratore, prescindendo dal tempo impiegato (anche se la durata massima di un progetto non può essere superiore ad un anno).

In via transitoria i contratti di collaborazione in essere (ovvero già stipulati alla data del 24.10.2003) che non rientrano nell’ambito di un progetto mantengono efficacia fino alla loro scadenza e non oltre un anno dall’entrata in vigore del decreto (cioè massimo fino al 3.10.2004).

Va ricordata, però, la possibilità che con accordi in sede aziendale, stipulati con rappresentanti delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, si arrivi ad una proroga delle collaborazioni oltre il periodo massimo previsto. In questi casi, il termine può diventare “flessibile”. Ciò, tuttavia, sarà possibile soltanto in quelle imprese ove è istituita la rappresentanza sindacale aziendale: questo significa che, ad esempio, nelle imprese sottodimensionate alle 15 unità non si potrà avere alcuna proroga oltre il 24 ottobre 2004,e collaborazioni coordinate e continuative che, alla scadenza, non possono essere ricondotte ad un progetto, ad un programma o ad una fase di esso potranno essere convertite in rapporto di lavoro subordinato, utilizzando sia le vecchie che le nuove tipologie contrattuali.

Ma la parte più “bella” arriva con i diritti: in caso di gravidanza il rapporto è prorogato di 180 giorni, salvo previsioni più favorevoli (nel periodo di estensione non viene pagato il corrispettivo); in caso di malattia e infortunio il rapporto di lavoro, salvo diversa previsione, può cessare. Più precisamente il lavoro a progetto cessa: 1) in caso di malattia e infortunio che si protraggono oltre 1/6 (un sesto) della durata del contratto (se determinata) o oltre 30 giorni (se la durata è determinabile); 2) al momento della realizzazione del progetto o programma di lavoro; 3) prima della scadenza per giusta causa o per le ragioni indicate nel contratto.

Con queste nuove forme di sfruttamento legalizzato il lavoratore è sempre più sfruttato, annientato, schiavizzato; la nuova legge indica, però, che il collaboratore a progetto non è un lavoratore dipendente e che perciò non deve essere sottoposto a vincoli di subordinazione ! Infatti il Co.Pro., per essere tale, deve svolgere la sua attività in base al progetto o programma di lavoro assegnatogli dal committente, può gestire autonomamente la propria attività. Inoltre, a differenza del lavoro dipendente, il committente non deve esercitare su di lui il potere direttivo e il potere disciplinare. La principale novità introdotta dalla legge 30/2003, che differenzia le collaborazioni a progetto dagli altri contratti di collaborazione coordinata e continuativa, è che i contratti di collaborazione a progetto devono contenere indicazione di uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal datore di lavoro (committente) e in base ai quali saranno stipulati i contratti individuali di lavoro. Il Co.Pro. quindi è libero ? Si, è “libero” di coordinare il proprio lavoro in funzione del risultato da raggiungere, ma, soprattutto è “libero” di coordinarsi con le esigenze del datore di lavoro. Cioè, il decreto attuativo della legge 30/2003, in palese contraddizione, stabilisce contemporaneamente che il lavoratore a progetto gode di autonomia nelle modalità di esecuzione della prestazione ma, all’interno del contratto individuale, è possibile anche prevedere forme temporali di coordinamento per l’esecuzione della prestazione lavorativa. Questo significa che nel contratto individuale si può legittimamente definire anche un orario preciso della prestazione.

Chiaramente questo accordo, per essere valido, deve essere stipulato in forma scritta.

Purtroppo la risposta data a tutto questo da parte dei sindacati confederali e delle Pubbliche Amministrazioni è stata quella di adeguarsi e di aprire sportelli informativi per i lavoratori atipici.

Prima si crea la precarietà (come, tanto per fare due esempi noti, con il Pacchetto Treu e con la Legge Biagi), poi la si sfrutta, ricordandosi che anche quello della “tutela” può essere un buon affare. L’importante è che i precari abbiano i loro sportelli, rigidamente separati da quelli degli altri lavoratori e in questo modo capiscano chiaramente che sono diversi e che per loro non c’è nessuna lotta generale, ma solo una difesa individuale/giuridica dagli abusi più plateali e la sempre più remota speranza di un bel “bingo”: un posto di lavoro “sicuro”.

 

Paola Freschi