Le origini, le ragioni, le lotte, la storia!
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Lo sciopero, dipinto di Robert Koheler del 1886. In quell'anno, una riproduzione del dipinto fu pubblicata il primo maggio nell'Harper's Weekly. |
u.a. 02/09/2008
Primo Maggio 1919 |
Il l° maggio è una "data simbolo" per la classe lavoratrice in tutto il mondo. Nato nel 1886 a Chicago nella lotta per le otto ore, fu assunto dalla Seconda Internazionale nel 1889 quale giornata internazionale di mobilitazione per la riduzione dell'orario di lavoro. Ha quindi segnato oltre cento anni di storia di questa giovane classe: anni di estensione quantitativa e crescita qualitativa, di lotte economiche e politiche, di vittorie e di sconfitte. La formazione della coscienza di classe ha vissuto momenti favorevoli e stagioni difficili. Questa storia va propagandata, conosciuta, studiata dagli stessi lavoratori.
«La fissazione della giornata
lavorativa normale è il risultato di una lotta multisecolare
tra capitalista e operaio» scrive Marx nel Primo Libro del
Capitale. Molteplici sono i risultati di questa lotta. Questa grande
esperienza storica ci ha dato un insegnamento generale, un principio
politico, una conferma teorica!
La crescita delle società industriali
moderne fu accompagnata dalle lotte operaie per la riduzione della
giornata lavorativa. Per questo, fin dai primi decenni
dell'Ottocento, prese forma negli Stati Uniti e in Inghilterra
l'obiettivo di ridurre l'orario della giornata di lavoro a dieci ore.
Conquistate localmente — a Filadelfia — qualche anno
prima, le dieci ore divennero giornata lavorativa legale per i
dipendenti pubblici statunitensi nel 1840; in Inghilterra invece il
«Ten Hours Act»' fu approvata nel 1847. Ma l'esistenza
delle leggi non voleva dire che esse fossero osservate. Gli
imprenditori erano ovunque più che restii a ridurre la
giornata lavorativa. E tuttavia, mentre ancora si stava lottando per
generalizzare le dieci ore, prese a poco a poco consistenza una
rivendicazione ancora più radicale: la giornata di otto
ore.
Era la stessa rapida e generale introduzione delle
macchine, che innalzavano continuamente la produttività del
lavoro, a rendere plausibile per i lavoratori l'ulteriore
riduzione.
Non soltanto negli Stati Uniti e in Inghilterra,
perfino in Australia la nuova parola d'ordine operaia si fece strada.
Nell'aprile 1856, le otto ore appena conquistate da alcune categorie
operaie a Melbourne vennero rivendicate dai lavoratori in sciopero
per l'intero paese. Gli slogan su drappi e stendardi dicevano: «8
ore di lavoro — 8 ore di ricreazione — 8 ore di riposo».
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Le tre rivendicazioni che vennero dette dei
«tre otto». Negli Stati Uniti, l'agitazione per le otto
ore fu rallentata allora dalle ripetute crisi economiche,
dall'immigrazione di masse di irlandesi poveri e affamati e infine
dallo scoppio della guerra civile nel 1861. La guerra ebbe un effetto
acceleratore sull'industria e al termine del conflitto la «questione
delle otto ore» si ripresentò più pressante sulla
scena industriale e politica statunitense.
Ira Steward, un
meccanico di Boston, organizzò nel 1865 la Lega per le otto
ore del Massachusetts, cui fecero immediatamente seguito decine di
altre organizzazioni analoghe in tutte le aree industrializzate del
paese. Nel 1866, si formava la National Labor Union, il primo
tentativo postbellico di costituire una centrale sindacale nazionale
e il primo veicolo per la diffusione in tutto il paese della
rivendicazione delle otto ore. La «giornata corta» fu
l'obiettivo principale indicato nel programma: «La prima e
grande necessità d'oggi, la liberazione del lavoro di questo
paese dalla schiavitù del capitale, è l'approvazione di
una legge in base alla quale otto ore devono essere la giornata
lavorativa normale in tutti gli stati dell'Unione americana. Noi
siamo decisi a impiegare tutte le nostre energie perché questo
obiettivo glorioso venga raggiunto». Un mese più tardi,
la Prima Internazionale (scheda
1) riunita in congresso a Ginevra si esprimeva in termini
simili: «La riduzione legale delle ore di lavoro è il
requisito preliminare di ogni miglioramento della condizione operaia
e della sua definitiva emancipazione. Noi proponiamo otto ore di
lavoro come limite legale della giornata lavorativa. La riduzione
della giornata lavorativa viene adesso generalmente richiesta dai
lavoratori americani; noi la chiediamo per i lavoratori di tutto il
mondo».
Il «connubio» tra la lotta per le
otto ore e il primo giorno di maggio avvenne a Chicago nel 1867. In
quella occasione più di diecimila lavoratori sfilarono in
quello che il Chicago Times definì «il corteo più
grande che si sia mai visto a Chicago». Perché proprio
quella data? Le ragioni furono diverse. La più immediata: lo
stato dell'Illinois aveva approvato la legge sulle otto ore nel marzo
1867, disponendo la sua entrata in vigore per il primo maggio. Già
prima di quella data era apparso chiaro che molti padroni non erano
intenzionati a rispettare la legge; la manifestazione doveva
dimostrare che i lavoratori non erano disposti ad accettare
l'illegalità padronale. Ma prima ancora, perché
l'entrata in vigore di quella legge (e di altre, contemporanee, negli
stati di New York e del Connecticut) era stata fissata proprio al
primo maggio? Alcune motivazioni vanno ricercate nell'ambito delle
consuetudini legate al mondo popolare e del lavoro. All'inizio di
maggio riprendeva il lavoro nell'edilizia, ricorda lo storico William
Adelman, e i contratti di lavoro venivano rinnovati allora. Anche i
contratti d'affitto, ricorda a sua volta Maurice Dommanget, scadevano
il primo maggio e la gente faceva allora i suoi traslochi. Anche in
agricoltura quei giorni erano di stasi, dopo le semine primaverili.
Alle tradizioni del mondo agricolo si possono
collegare infine le ultime probabili ragioni, le più profonde
e forse meno dimostrabili ma certo tra le più vive, sottese
anche alle «scadenze» consuetudinarie appena ricordate.
In tutte le tradizioni nordiche, come ricordano studiosi del folklore
e delle religioni e delle tradizioni popolari (da James Frazer a
Vladimir Propp, da Mircea Eliade ad Alfonso Di Nola), l'inizio di
maggio era l'inizio della primavera, la data simbolica del
rinnovamento della vita sulla terra. E non v'è dubbio che
nella rivendicazione operaia delle otto ore fosse esplicita
un'intenzione di rinnovamento generale della vita operaia e,
attraverso essa, della vita degli uomini di tutto il mondo.
Se l'insieme di queste motivazioni, immediate e
remote, confluì nel «primo» primo maggio del 1867,
esse rifluirono nuovamente attraverso il movimento dei lavoratori che
ridiede slancio alla rivendicazione delle otto ore anni più
tardi. Gli operai del '67 infatti furono sconfitti dalla rigidità
padronale e dal disinteresse degli stati a far rispettare le leggi.
Poi, per quasi tutti gli anni Settanta, anche la crisi economica
aveva indebolito la forza operaia e sindacale.
All'inizio del decennio successivo una piccola
confederazione sindacale nata nel 1881, la Federation of Organized
Trade and Labor Unions (FOTLU), riprese l'agitazione. Nel 1884 si
fece promotrice di un movimento nazionale tendente a imporre le otto
ore al padronato statunitense. Nel lanciare la sua campagna, la FOTLU
propose a tutte le forse operaie di unirsi per far sì che le
otto ore costituissero «la giornata lavorativa a partire dal
primo maggio 1886». Per quella data fu convocato uno sciopero
generale operaio in tutte le maggiori città statunitensi. La
data del primo maggio era stata proposta al congresso della FOTLU dal
carpentiere di Chicago G. Edmonston, per stabilire un richiamo
esplicito e una continuità con il 1867.
Il primo maggio 1886 quasi quattrocentomila
lavoratori scioperarono in tutto il paese; ottantamila nella sola
Chicago, che stava diventando una delle maggiori e più
combattive concentrazioni operaie. Sindacalisti, socialisti,
anarchici e aderenti al movimento riformatore dei Knights of Labor
parteciparono allo sciopero.
Le lotte di fabbrica in corso
davano alla manifestazione di Chicago una tensione particolare, che
si protrasse nei giorni successivi. E furono gli avvenimenti di
questi giorni ad avere poi un'influenza decisiva sul movimento
operaio mondiale: il il 2 maggio, domenica, le dimostrazioni si
ripeterono; il lunedì 3, davanti alla fabbrica McCormick in
sciopero, la polizia uccise alcuni scioperanti; il martedì 4,
durante un comizio di protesta per i morti operai, fu lanciata una
bomba tra i ranghi dei poliziotti che stavano caricando i presenti,
facendo morti e feriti.
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Scontri tra polizia e partecipanti ad un comizio tenuto a Chicago il 4 maggio del 1886 dall'anarchico August Spies. |
Otto esponenti anarchici furono arrestati come
responsabili del lancio della bomba, mentre veniva scatenata nel
paese una vera e propria caccia all'anarchico. Al termine di un
processo tragicamente viziato dal pregiudizio del giudice e della
corte, sette di loro furono condannati a morte.
L'11 novembre 1887 George Engel, Adolph Fischer, Albert Parsons e August Spies furono impiccati; Louis Lingg si uccise (o fu ucciso) prima dell'esecuzione; Samuel Fielden, Oscar Neebe e Michael Schwab furono risparmiati grazie alla commutazione della condanna in lunghi anni di prigionia. Sei anni dopo, nel 1893, il governatore dell'Illinois John P. Altgeld riconobbe l'ingiustizia del processo e l'innocenza dei condannati, liberando Neebe, Fielden e Schwab. Il giorno prima, nel cimitero di Waldheim, era stato inaugurato il monumento a quelli che erano già diventati in tutto il mondo i Martiri di Chicago.
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L'effetto immediato degli avvenimenti di Chicago fu estremamente negativo. La repressione, isterica nei confronti degli anarchici, investì anche i socialisti e i Knights of Labor, che con i suoi più di cinquecentomila membri era la maggiore organizzazione operaia del paese. La causa delle otto ore fu nuovamente, per il momento, sconfitta. Dovettero passare due anni dal 1886 perché l'American Federation of Labor (AFL), la nuova centrale sindacale in cui era confluita anche la vecchia FOTLU, riprendesse l'agitazione. Nel suo congresso di St. Louis del 1888, l'AFL ripropose nuovamente un primo maggio, quello del 1990, come data ultimativa oltre la quale i lavoratori statunitensi non avrebbero più accettato di lavorare per più di otto ore al giorno. Per prevenire le accuse di sovversivismo scagliate due anni prima contro gli anarchici, l'AFL propose lo slogan: «Eight Hours, Firm, Peaceable, and Positive» (Otto ore: decisamente, pacificamente, senza dubbio).
Negli Stati Uniti si riorganizzava dunque il
movimento, nuovamente su iniziativa dei sindacati. Ma a questo punto
sarebbe entrato in gioco l'intero movimento operaio internazionale e
il primo maggio avrebbe presto acquisito una ben diversa rilevanza.
Se «la manifestazione del primo maggio è
di origine americana, in Europa l'iniziativa è francese»,
ha scritto Edouard Dolléans nella sua Storia del movimento
operaio. La Féderation nationale des syndicats et des groups
corporatifs aveva infatti deciso, nel suo congresso di Bordeaux della
fine del 1888, che «per dare una maggior forza al movimento
delle rivendicazioni operaie, è necessario concentrare tutta
l'azione dei sindacati su un numero ristretto di rivendicazioni, le
più generali e le più importanti». Tra queste, la
riduzione della giornata lavorativa a otto ore occupa il primo posto.
Il 10 febbraio dell'anno seguente si ha in Francia una specie di
prova generale di manifestazione per la legislazione del lavoro, con
delegazioni operaie che si recano nei municipi e nelle prefetture a
reclamare leggi che sanciscano le rivendicazioni degli operai
francesi.
A Parigi, nel luglio 1889, sono convocati due
congressi operai, definiti l'uno «marxista» e l'altro
«possibilista». I due congressi riflettono nella loro
composizione, e nelle differenti istanze che li contraddistinguono,
le principali tendenze presenti nel movimento operaio internazionale.
Quello «possibilista» appare caratterizzato dalla
preponderanza numerica della delegazione francese, organizzata nel
Parti ouvrier socialiste révolutionnaire, fondato da Paul
Brousse nel 1882 e ispirato a una linea che contrapponeva
all'esigenza di centralizzazione dei marxisti una politica fondata
sull'iniziativa e l'autonomia locale e la rivendicazione
dell'indipendenza dell'azione sindacale e della sua parità
d'importanza rispetto a quella del partito. Dal congresso «marxista»,
dove la rappresentanza delle varie nazioni è più ricca
e articolata, emerge come la presenza di alcune delle più
importanti delegazioni nazionali (tedesca, francese, belga) sia
organizzata perlopiù nella forma del partito politico. Sarà
questo secondo congresso a dar vita al primo maggio come
manifestazione operaia internazionale.
Il delegato francese Raymond Lavigne suggerisce
nel corso del congresso di riproporre la manifestazione del 20
febbraio dell'anno precedente, della quale egli era stato il
principale organizzatore, trasformandola in una manifestazione
internazionale. Nella sua mozione propone: «Sarà
organizzata una grande manifestazione internazionale a data fissa, in
modo che contemporaneamente in tutti i paesi e in tutte le città,
nello stesso giorno, i lavoratori intimino ai poteri pubblici di
ridurre legalmente la giornata di lavoro a otto ore e di applicare le
altre risoluzioni del congresso internazionale di Parigi».
Quando il delegato statunitense Hugh McGregor, rappresentante
dell'AFL, chiede la solidarietà del movimento operaio
internazionale sulla data del primo maggio 1890, già adottata
dalla sua organizzazione, il Congresso risponde con un'ultima
decisione: «Atteso che una simile manifestazione è stata
già decisa per il primo maggio 1890 dalla Federazione
americana del lavoro nel suo congresso del dicembre 1888 a St. Louis,
questa data è adottata per la manifestazione internazionale».
Attraverso la mediazione di un'organizzazione
sindacale, l'AFL, che si sta allontanando dal socialismo in nome del
«sindacalismo puro e semplice» teorizzato dal suo leader
Samuel Gompers, il socialismo internazionale fa sua l'unione tra la
battaglia per le otto ore e il primo maggio della tradizione
radicale, sindacale, socialista e anarchica statunitense. Gli
anarchici hanno motivo di sentire. al r e
no in parte, la scelta
socialista del primo maggio come un'espropriazione. Essi non solo
manterranno come propria la celebrazione dell'11 novembre, a ricordo
dei Martiri di Chicago, ma non risolveranno mai la contraddittorietà
del loro atteggiamento verso il primo maggio internazionale, di cui
non condividono i caratteri ispiratori — la data fissa, le otto
ore da ottenere con una legge dello stato — e da cui però
non possono separarsi per la presa che ha sul proletariato e per le
potenzialità di lotta generalizzata che esso esprime.
Tra i socialisti invece, mentre resta aperto il
dibattito sul carattere e le forme della manifestazione, la questione
delle origini passa in secondo piano. Chicago recupera comunque il
significato di un precedente rispetto all'impostazione corporativa
dell'AFL di Gompers, che si separa sempre più nettamente dal
movimento socialista, e l'immagine del movimento operaio americano
che Richardt Sorge presenta sulla Neue Zeit nella sua serie di
articoli su Die Arbeiterbewegung in den Vereinigten Staaten (I1
movimento operaio negli Stati Uniti) restituisce comunque ai fatti
del 1886 il suo valore di svolta e ai militanti anarchici di Chicago,
insieme all'alone del martirio, il merito politico di primi
organizzatori del movimento. Uno dei principali storici
dell'Internazionale, Julius Braunthal, ha definito la decisione del
congresso di Parigi «un'azione che ha radicato la realtà
dell'Internazionale nella coscienza delle larghe masse».
Il fatto stesso che il congresso successivo,
quello di Bruxelles nell'agosto del 1891, si ponesse come sviluppo di
quello «marxista» di Parigi e non di quello
«possibilista», e che fosse quindi il primo ad essere
considerato il vero congresso di fondazione della Seconda
Internazionale, fu dovuto in buona parte al successo incontrato dalla
risoluzione sul primo maggio, e al legame che le grandi
manifestazioni del 1890 e quelle successive stabilirono o
consolidarono tra le diverse forze del movimento operaio europeo.
La dialettica tra nazionale e internazionale —
nella quale, nei decenni conclusivi del XIX secolo, ciascuno dei due
termini non solo non può fare a meno ma anzi si arricchisce,
si contamina dell'altro — fa da sfondo alla manifestazione del
primo maggio a partire dal suo primo motivo ispiratore, le otto ore,
e ne condizionerà inevitabilmente lo svolgimento, che non può
non tener conto delle situazioni esistenti nei diversi paesi, come
riconosceva l'ultimo capoverso della risoluzione di Parigi: «I
lavoratori dei vari paesi daranno luogo alla manifestazione entro i
limiti imposti dalla particolare situazione di ciascun paese».
Questa affermazione, come molte altre prese di posizione di carattere
generale della Seconda Internazionale, era destinata non già a
chiudere ma ad alimentare, nel movimento socialista internazionale,
una grande quantità di dibattiti a proposito delle modalità
della manifestazione (in particolare, la proclamazione o meno dello
sciopero) e della sua stessa data (il primo di maggio o la prima
domenica del mese). Per quanto riguarda i contenuti, la decisione di
ripetere regolarmente la manifestazione del primo maggio,
trasformandola in una «asserzione annuale della presenza di
classe» (Hobsbawm), implicava già di per se stessa un
progressivo allentamento del legame con la specifica motivazione
iniziale, come con qualsiasi altra rivendicazione esclusiva.
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Un'immagine del Great Dock Strike, lo sciopero dei portuali a Londra nel 1889 |
Nell'agosto del 1891 il Il congresso dell'Internazionale, riunito a Bruxelles, assunse la decisione di rendere permanente la ricorrenza.
D'ora in avanti il 1 Maggio sarebbe stato la "festa dei lavoratori di tutti i paesi, nella quale i lavoratori dovevano manifestare la comunanza delle loro rivendicazioni e della loro solidarietà".
Il 1891 è un anno da ricordare per l'Italia; a Milano in Aprile, viene organizzato un comizio internazionale per i diritti dei lavoratori nel corso del quale l'anarchico Luigi Galleani presenta un odg in favore della partecipazione al 1° maggio. Già in gennaio gli anarchici al Congresso del Partito Socialista Anarchico Rivoluzionario avevano deciso l'adesione al 1° maggio con l'intento di dare alla manifestazione un carattere «il più possibile rivoluzionario» e allo scopo si invitavano «tutti gli operai a uno sciopero generale a datare dal 1° maggio». La ricorrenza del primo maggio è, per la seconda volta, anche lo sbocco dell'attività del movimento socialista.
Antonio Labriola dal 1888 al 1° maggio 1891 svolge una attività frenetica: tiene oltre duecento discorsi e partecipa ad altrettante riunioni oltre alla fondazione di circoli e alla stampa di opuscoli. Il giorno del 1° maggio è oggetto di una violenta repressione poliziesca. Gravi incidenti a Roma dove Amilcare Cipriani,il reduce della Comune (di Parigi del 1871), ha parlato. Centinaia gli arrestati e i processati tra cui lo stesso Cipriani, due i morti e un centinaio i feriti. La polizia interviene anche a Firenze, Milano, Bologna, Sampierdarena, Ravenna. A Cervia il municipio si associa allo sciopero. A Cremona conferenza dedicata alla "Organizzazione dei lavoratori" promossa dal gruppo socialista e dall'unione operaia della città. Il 15 maggio di fronte alla ascesa del movimento operaio e alle diffusioni delle concezioni del marxismo attestata anche dalle due grandi giornate del 1° maggio 1890 e 1891, il Vaticano vara l'enciclica "Rerum novarum" (scheda 2), in cui è esposta la dottrina della Chiesa cattolica sulla questione operaia.
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Un'immagine tratta da L'Illustration che documenta la repressione delle manifestazioni di Fourmies il primo maggio 1891 |
Il generale Fiorenzo Bava Beccaris |
Il 1 maggio diventa dunque un appuntamento al quale il movimento dei lavoratori si prepara con sempre minore improvvisazione e maggiore consapevolezza. L'obiettivo originario delle otto ore viene messo da parte e lascia il posto ad altre rivendicazioni politiche e sociali considerate più impellenti. La protesta per le condizioni di miseria delle masse lavoratrici anima le manifestazioni di fine Ottocento
Il 1 maggio 1898 coincide con la fase più
acuta dei "moti per il pane", che investono tutta Italia.
Quel giorno si hanno 3 morti a Minervino. Manifestazioni a Firenze e
a Sesto Fiorentino, dove la polizia spara alla schiena dei lavoratori
in fuga provocando 5 morti e 10 feriti e a Milano dove i militari,
comandati dal generale Bava Beccaris, reprimono la rivolta sparando
sui manifestanti con fucili e cannoni.
La carestia provoca il notevole aumento del prezzo del grano e, conseguentemente, di quello del pane, a cui si aggiunge la diminuzione dei salari del proletariato, sul quale è stato in gran parte fatto ricadere il peso della grave crisi economica che travaglia la nazione: basti pensare che nella Milano del ‘98 un operaio guadagnava 18 centesimi all’ora, e per acquistare un chilo di pane ne occorrono 40.
Da ciò il diffuso malcontento popolare che, pilotato dalle Sinistre per la prima volta alleate, sfocerà nell’imponente manifestazione di protesta del 6 maggio. La rivolta dei poveri, come qualcuno la chiamerà, dura quattro giorni, dal 6 al 9 maggio, e vede schierati 40 mila dimostranti, armati soprattutto di fame, contro 20 mila militari in assetto di guerra, sotto il comando di Fiorenzo Bava Beccaris, il ferreo generale nominato Regio Commissario con pieni poteri.
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Barricate
verso via Volta e Porta Garibaldi |
I primi scontri avvengono nel pomeriggio di venerdì 6: la truppa spara contro gli operai che assediano la caserma del Trotter, e alcuni morti restano sul terreno. Il giorno seguente, 7 maggio, viene proclamato lo sciopero generale. Dall’altra parte si risponde con lo stato d’assedio: è la guerra civile. Dai tetti, dalle finestre i dimostranti lanciano tegole e mattoni contro i militari che avanzano sparando: le strade, disselciate per ricavarne proiettili, si tingono di sangue. I tram vengono fatti deragliare e posti di traverso per fiaccare l’impeto della cavalleria e le cariche dei bersaglieri. A Porta Venezia, Vittoria, Romana, Ticinese e Garibaldi vengono erette, come nel ‘48 contro gli Austriaci, le barricate mentre, lungo i Bastioni, volteggiano gli squadroni della cavalleria a sciabole sguainate. Ovunque l’aria è lacerata dalle scariche di fucileria, cui fa eco il rombo dei cannoni attestati a Porta Genova, a S. Eustorgio, al Castello. Così trascorre anche la terza di quelle che saranno dette le Quattro Giornate del ‘98. Né lo scenario muta il giorno 9, che cade di lunedì e registra un odioso episodio di cui si rende responsabile la truppa.
All’inizio del viale Monforte in seguito ribattezzato viale Piave sorge un convento di Cappuccini che ha ereditato la fama di carità dello scomparso e omonimo cenobio di Porta Orientale celebrato dal Manzoni. All’alba, un militare appostato col binocolo scambia per rivoltosi dei mendicanti che attendono presso la porta del convento la quotidiana razione di minestra, e lancia l’allarme. In breve una batteria di cannoni viene distaccata sui prospicienti Bastioni (ora viale Majno). Partono alcuni colpi che aprono una breccia nel muro di protezione e, attraverso di essa, irrompono i fanti con le baionette innescate. Il convento è meticolosamente ispezionato alla vana ricerca di armi, poi frati e "barboni" vengono allineati e minacciati di fucilazione. Bilancio dell’"impresa": due mendicanti uccisi e una decina feriti. Inutili le proteste dei Padri che, anzi, sono tradotti, fra due ali di truppa schierata, in Prefettura. Qui subiscono un’umiliante perquisizione, e finirebbero addirittura in carcere se non fosse per alcuni illustri cittadini, capeggiati da don Achille Ratti il futuro Pio XI che garantiscono per i Cappuccini e ne ottengono così il rilascio.
I moti di Milano si concludono praticamente lo stesso giorno, verso sera, dopo che alla Foppa l’ultima barricata degli insorti è stata espugnata dai bersaglieri. Dalla Prefettura il Bava Beccaris può così finalmente telegrafare a Roma che la rivolta è stata soffocata.
L e otto ore sono quindi la prima, ma non certo
l'unica, delle grandi ideeforza che, attraverso il meccanismo della
ricorrenza, si legano al primo maggio: quella dell'eguaglianza,
perseguita sul piano della lotta politica attraverso le
rivendicazioni dei diritti civili e del suffragio universale; quella
dell'internazionalità, che si identifica in misura via via
dominante con la lotta per la pace; le istanze di emancipazione e di
liberazione che trascendono i singoli concreti obiettivi e investono
non solo la sfera economica, ma quella dei sessi, familiare,
culturale, ecc.
Nella successione dei primi maggi durante
l'epoca della Seconda Internazionale, e pur nella varietà
delle forze che promuovono la manifestazione e delle situazioni in
cui si svolge, quello del 1906 in Francia si distingue dagli altri
per l'evidenza con cui l'esempio di Chicago — che aveva
continuato a vivere tra gli anarchici o in settori sindacali ai
margini delle organizzazioni dominanti nell'Internazionale —
torna ad assumere un significato di massa nell'azione dei
sindacalisti rivoluzionari che dirigono la Confédération
Générale du Travail (CGT). La campagna per le otto ore,
avviata dall'organo della CGT La Voix du Peuple dal 1901, trova, nel
continuo richiamo al precedente del 1886, espresso anche con la
parola d'ordine «Imitons les Américains! », la via
per affermare il carattere «sindacalista» della
manifestazione, contro la gestione dei politici socialisti, contro il
metodo delle «passeggiate» o «processioni
platoniche», delle petizioni ai pubblici poteri.
La
risoluzione del congresso di Bourges della CGT nel 1904, che avvia la
campagna in vista del primo maggio 1906, si riferisce direttamente
alla forma d'azione degli operai americani del 1886 quando
stabilisce: «Il Congresso dà mandato alla CGT di
organizzare un'agitazione intensa e crescente affinché il
primo maggio 1906 i lavoratori cessino essi stessi di lavorare più
di otto ore».
L'organizzazione di un primo maggio come
quello del 1906 in Francia — dalla campagna per le otto ore
condotta dalla CGT alla dura prova di forza tra gli operai e il
blocco padronalegovernativo, scatenata anche dalla eco del tragico
incidente minerario accaduto presso Courriéres nei giorni
immediatamente precedenti e protrattasi per diverse settimane dopo il
primo maggio — non sarà più ripetuta nell'epoca
della Seconda Internazionale. A Parigi, il primo maggio dell'anno
successivo, sarà tra nella «Journée des flics»,
la cosiddetta giornata dei poliziotti, e definito da Jules Romains
«une simple promenade» (soltanto una passeggiata).
Per
gli stessi protagonisti del 1906 sarà difficile farne un
bilancio negli anni successivi, che vedono dapprima l'intensificarsi
della repressione contro il sindacalismo e poi lo sconvolgimento del
1914.
In quell'occasione tuttavia, l'esempio americano del 1886
si propone come un'alternativa al primo maggio socialista;
un'alternativa che non sarà più possibile lasciar
cadere o relegare nel limbo dei semplici precedenti storici.
Nei primi anni del Novecento il 1 maggio si
caratterizza anche per la rivendicazione del suffragio universale e
poi per la protesta contro l'impresa libica e contro la
partecipazione dell'Italia alla guerra mondiale.
Il 1
maggio 1919 i metallurgici e altre categorie di lavoratori possono
festeggiare il conseguimento dell'obiettivo originario della
ricorrenza: le otto ore.
Nel
volgere di due anni però la situazione muta radicalmente:
Mussolini arriva al potere e proibisce la celebrazione del 1
maggio.
Durante il fascismo la festa del lavoro viene spostata
al 21 aprile, giorno del cosiddetto Natale di Roma; così
snaturata, essa non dice più niente ai lavoratori, mentre il 1
maggio assume una connotazione quanto mai "sovversiva",
divenendo occasione per esprimere in forme diverse dal garofano
rosso all'occhiello alle scritte sui muri, dalla diffusione di
volantini alle bevute in osteria l'opposizione al regime.
Hitler, a differenza di Mussolini, giunto al potere per vie legali da pochi mesi, assorbe il 1° maggio nel suo rituale propagandistico, consacrandolo per decreto festa ufficiale e ribattezzandolo con l nome di "festa del lavoro nazionale".
Assai meno noto è ciò che avverrà con il plauso dei dirigenti sindacali riformisti che, precedendo di poche settimane buona parte dei loro compagni parlamentari, avevano cessato ogni opposizione al nazismo. In occasione del 1° maggio 1933 essi dichiararono: "ci congratuliamo nel vedere che di questo giorno che è il nostro, il governo ha fatto una festa riconosciuta. Il fatto che Hitler annunci che il 1° maggio servirà ad onorare il lavoro è di una importanza straordinaria. Quindi chiediamo a tutti i membri dell'A.D.G.B. di partecipare attivamente alla celebrazione del 1° maggio secondo le direttive del governo".
Subito dopo il 1° maggio che vide raduni di massa nelle principali città tedesche, Hitler procedette all'arresto dei sindacalisti e all'occupazione e confisca dei loro beni.
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All'indomani della Liberazione, il 1 maggio 1945, partigiani e lavoratori, anziani militanti e giovani che non hanno memoria della festa del lavoro, si ritrovano insieme nelle piazze d'Italia in un clima di entusiasmo.
Nel 1946 durante il governo di coalizione (DC, PSI,
PCI, ecc.), in aprile, un decreto dichiara il «25 aprile»
«Festa Nazionale». E stabilisce che il 1° maggio.
«festa del lavoro», sia «giorno festivo a tutti gli
effetti civili» unitamente all'«8 maggio»
anniversario della «Vittoria» in Europa. Per questi
giorni prevede «fino a quando non sia diversamente stabilito »
che sia pagata ai lavoratori la retribuzione giornaliera, e doppia
nel caso che prestino lavoro. Mentre lo imbalsamavano in una "festa
del lavoro", i partiti politici della borghesia e l'opportunismo
deformano il 1° maggio all'insegna dell'"unità
nazionale".
Appena due anni dopo il 1 maggio è
segnato dalla strage di Portella della Ginestra, dove gli uomini del
bandito Giuliano fanno fuoco contro i lavoratori che assistono al
comizio.
Dopo anni di sottomissione a un potere feudale la Sicilia stava vivendo una fase di rapida crescita sociale e politica. un grande movimento
organizzato aveva conquistato il diritto di occupare e avere in concessione le terre incolte. l'offensiva del movimento conta
dino, insieme alla vittoria elettorale del blocco del popolo alle elezioni per l'assemblea regionale, suscitarono però l'allarme delle forze reazionarie.
Intimidazioni contro sindacalisti
e esponenti dei partiti della sinistra erano frequenti e affidate al banditismo separatista. Il primo maggio del 1947, secondo una usanza che risaliva all'epoca dei fasci siciliani, circa 2000 contadini,
uomini, donne, bambini ed anziani, si erano dati appuntamento nella piana di portella della ginestra. Appostati sulle colline vicine, c'erano ad attenderli, armati di mitragliatrici, gli uomini della banda di salvatore giuliano, rinfoltita con alcuni elementi prezzolati. Aveva appena iniziato a parlare il primo oratore, quando si sentirono i primi colpi, per la folla non ci poteva essere scampo: alla fine si contarono 11 morti e più di 50 feriti. la notizia della strage di diffuse in tutta Italia e la cgil proclamò per il 3 maggio uno sciopero generale.
purtroppo le indagini furono
compromesse dalla volontà di una parte delle forze di governo ed in particolare del ministro dell'interno dell'epoca, Mario Scelba, di escludere in partenza la pista della strage politica. tutte le colpe furono addossate al bandito giuliano, malgrado il rapporto dei
carabinieri indicasse come
possibili mandanti, "elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali".
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Lo stesso giuliano fu eliminato, 3 anni dopo, dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta che a sua volta fu avvelenato in carcere nel 1954 dopo aver preannunciato clamorose rivelazioni sui mandanti della strage di portella.
L'opulenza sociale, la corruzione borghese, lo
sciovinismo sindacale e la pratica demolitoria dei partiti
opportunisti (sic) hanno portato al progressivo abbandono delle
tradizionali forme di celebrazione del 1 maggio, confinando la
giornata del primo maggio a scampagnata con fave e salame o a raduni
musicali all'insegna dello sballo solidale.
2003 Genova Italy |
La giornata del primo maggio celebrata in maniera tradizionale, cioè con un corteo per le vie del centro cittadino, vede presenti La CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) e i GLSC (Gruppi Leninisti della Sinistra Comunista). Altre organizzazioni extra parlamentari si attivano con conferenze o "Feste" di sezione, mentre i principali partiti della sinistra si radunano nei circoli ARCI (Associazione Ricreativa Comunisti Italiani) con rinfreschi e musica.
Comunque, ogni anno, la giornata del primo maggio, fatica a trovare posto nella coscienza dei lavoratori, sempre più dirottata verso interessi individualisti. Qualcuno cerca di puntare l'attenzione sulla giornata del primo maggio come giornata di lotta contro le ingiustizie, ma, chi cerca di farlo lo fa nella più totale indifferenza dei media.
Nonostante che l'opportunismo, cioè i partiti così detti di "sinistra", e le organizzazioni sindacali, abbiano abbandonato, o relegato la giornata del primo maggio a giornata senza contenuto, essa emerge quale unico momento politico in memoria dei martiri di Chicago per l'emancipazione di lavoratori che, loro malgrado, danno la propria vita sotto lo sfruttamento capitalista.
La giornata del primo maggio è l'unica ricorrenza in cui i lavoratori di tutto il mondo, di tutte le nazionalità, religioni e condizioni, si riconoscono, si uniscono, prendono coscienza di se stessi in quanto classe, classe produttrice, classe sfruttata (nel senso marxista del termine), classe proletaria.
La realtà rimane quella di un modo di produzione i cui "meccanismi caratteristici" restano più che mai quegli stessi che F. Engels attribuiva ad "ogni società fondata sulla produzione di merci".
Un mondo nel quale dominano le "leggi coattive della concorrenza", che agiscono "ciecamente senza i produttori e contro i produttori". Nel quale, "il prodotto domina í produttori".
Per questo la battaglia per affermare il
carattere sociale delle forze produttive si conferma in tutta la sua
urgente necessità. É questo il compito storico di una
classe giovane all'alba del nuovo secolo. Per questo, mai come
adesso, la giornata internazionalista dei Primo Maggio appartiene al
futuro.
"Grande esperienza storica" perché
attraverso di essa i lavoratori hanno dimostrato a se stessi e agli
altri di essere una classe, di rivendicare diritti, non individuali
ma collettivi, di dimensione storica. Scrive Engels nel 1850: «In
questa agitazione le classi lavoratrici hanno trovato un mezzo per
conoscersi, per prendere coscienza della propria condizione sociale e
dei propri interessi, per organizzarsi e rendersi conto della propria
forza. ...la classe operaia nel suo insieme, dopo aver partecipato a
questa lotta, è cento volte più forte, più
consapevole e meglio organizzata di prima... La classe operaia avrà
imparato dall'esperienza che nessun vantaggio duraturo potrà
derivarle da altri, ma che questo vantaggio dovrà procurarselo
da sé, conquistando in primissimo luogo il potere politico».
E quel rapporto non riformistico con lo Stato cui Lenin si riferisce nel 1900 quando parla di «rivendicazione di tutto il proletariato, rivolta non ai singoli imprenditori, ma al potere statale quale rappresentante di tutto il regime sociale e politico vigente, una rivendicazione rivolta all'intera classe dei capitalisti, che sono i detentori di tutti i mezzi di produzione».
L' "insegnamento generale" è
semplice ma di grande valore: ciò che ieri sembrava utopia è
oggi realtà quotidiana. Un'affermazione che vale anche per la
scienza e la tecnologia. Il volo umano progettato da Leonardo da
Vinci è oggi banale realtà nel movimento mondiale di
uomini e merci. L'uomo ha messo piede sulla luna, fotografa i pianeti
ed esplora le profondità degli oceani: i romanzi di Jules
Verne sono divenuti cronaca. Così è stato per le dieci
e poi le otto ore di lavoro, sebbene tali conquiste non siano mai
definitive neppure nelle metropoli e debbano ancora essere strappate
in ampie aree del mercato mondiale a più recente sviluppo
capitalistico. E ciò che oggi sembra utopia, una società
comunista, senza classi e senza Stato, sarà domani realtà
quotidiana.
Il "principio politico",
fondamentale, è l'internazionalismo. L'effettiva riduzione
dell'orario di lavoro è un risultato dell'azione della classe
lavoratrice in tutto il mondo, al di là di ogni divisione
nazionale, etnica o religiosa. Solo questa azione solidale del
movimento operaio ha potuto piegare la resistenza del capitale. La
contemporaneità delle manifestazioni del 1 ° maggio in
tutto il mondo, e l'aggiungersi di nuovi paesi, conseguenza del
carattere estensivo, oltre che intensivo, del lungo ciclo
capitalistico, ne sono testimoni.
Questo principio appare oggi irrinunciabile
proprio di fronte a una borghesia che idolatra lo Statonazione ma
internazionalizza l'economia. Crescente è infatti
l'internazionalizzazione dell'economia mondiale e italiana. [...].
Nel bacino del Mediterraneo si è determinato, tra la sponda Nord e la sponda Sud, il più grave squilibrio demografico del mondo. Basti pensare che da qui al 2020 la popolazione in età lavorativa nei paesi che si affacciano alla costa meridionale è destinata a più che raddoppiare, passando da circa 100 a circa 230 milioni di unità. Privo di un saldo principio internazionalistico, il movimento operaio è destinato a nuove sconfitte, divisioni, sbandamenti.
La "conferma teorica" appare
rilevante, soprattutto in un'epoca nella quale, almeno a parole,
tutti idealizzano il mercato e la libera concorrenza. Uno dei temi
che caratterizzò il dibattito sulle dieci ore fu infatti la
domanda "se" dovesse esserci una limitazione "per
legge" dell'orario di lavoro, se questo non dovesse rimanere
oggetto della "libera" contrattazione tra compratori e
venditori di forzalavoro. Vi era chi accusava i sindacati di
costituire una sorta di monopolio, di "turbativa di mercato".
Commenta Marx nel 1864: «Questa lotta per la restrizione
delle ore di lavoro si accese tanto più furiosamente proprio
perché, a parte gli spaventi degli avari, interessava da
vicino la grande disputa tra la cieca legge dell'offerta e della
domanda, su cui si fonda l'economia politica della classe media, e la
produzione sociale regolata dalla previsione sociale, che costituisce
l'economia politica della classe operaia».
Infine, il "duplice risultato pratico".
Una prima conseguenza è di ordine economico generale: la
riduzione dell'orario di lavoro, insieme alla lotta salariale, è
motore dello stesso sviluppo capitalistico. Spinge all'estrazione di
plusvalore relativo piuttosto che di plusvalore assoluto, sprona allo
sviluppo della forze produttive, favorisce fumo delle macchine e la
concentrazione del capitale. Senza lotte operaie per la riduzione
dell'orario non vi sarebbe stato ""progresso", nel
senso più ampio del termine. «Laddove sono state
introdotte le limitazioni [dell'orario di lavoro] gli
strumenti di produzione sono stati sviluppati con maggior forza che
non in altri settori» (Marx, 1868).
La borghesia è consapevole di questo
"risultato pratico". Il presidente del maggior gruppo
economico privato italiano, Gianni Agnelli, parlando, all'Università
di Oxford nel 1991, dell'Europa nella lunga prospettiva storica, si
concede il lusso di un'ammissione importante: «La
rivoluzione industriale è però anche rivoluzione
sociale, ben più profonda e più intensa di quelle che
hanno abbattuto il feudalesimo e l'autorità regia. Prima
ancora che Marx e Engels sviluppino le loro teorie, nascono in
Inghilterra le Trade Unions. Con il diffondersi
dell'industrializzazione il confronto di classe diventa europeo e
pervade il continente di tensioni e conflitti. Credo che, alla luce
della storia, noi dobbiamo riconoscere ad esso il merito di avere
contribuito alla profonda trasformazione della società in cui
viviamo. Una trasformazione che lo spirito europeo ha saputo
incanalare gradualmente sulla via dell'estensione delle garanzie e
dei diritti dei lavoratori, della riduzione delle iniquità,
del miglioramento del benessere generale».
«Alla luce della storia»,
Marx e Engels avevano ragione. Certo, Agnelli usa "confronto"
e "conflitto" per non dire "lotta" di classe;
immagina uno "spirito europeo" che avrebbe fecondato le
rivendicazioni dei lavoratori... Ma la lucidità complessiva è
notevole e induce a qualche riflessione se confrontata, per esempio,
alla subalternità teorica e politica delle ipotesi sulla
"codeterminazione" che negli stessi mesi i dirigenti del
sindacato italiano andavano proponendo.
Una seconda conseguenza pratica della riduzione
dell'orario di lavoro è la tutela dell'integrità fisica
e dello sviluppo intellettuale della classe lavoratrice. «Otto
ore per lavorare, otto ore per riposare, otto ore per educarsi»
dicevano i lavoratori un secolo fa. «Che cosa potreste chiedere
a un uomo che lavora 12 o 14 ore al giorno? Può, rientrando a
casa, trovare la forza di aprire un libro?» chiedeva nel 1866
il congresso di Ginevra della Prima Internazionale.
Marx vedeva la cosa allo stesso modo: «Una
riduzione dell'orario di lavoro era pur indispensabile, onde
concedere alla classe operaia più tempo per la sua formazione
spirituale». Certo, nessuno si illude. Non vi è
automatismo tra riduzione dell'orario di lavoro e «formazione
spirituale». È una "condizione necessaria, ma non
sufficiente". Meno orario di lavoro può significare solo
più "tempo libero". Il resto va conquistato con la
lotta e con l'impegno militante, soprattutto oggi.
[...] «Il proletariato è una
classe giovane che, per recente formazione storica, ha scarsa
preparazione storica e poca esperienza. Solo con la scienza del
marxismo può elevare la preparazione generale, tramandare la
sua esperienza ed allargarla, distillando, con metodo appropriato,
l'esperienza di classi più vecchie, la borghesia in primo
luogo. Solo in questo modo, conquistando e difendendo la sua
autonomia, può formare i suoi quadri capaci di battere i
quadri della borghesia e in grado di conoscerne tutto l'intimo
meccanismo di funzionamento, i punti di forza e le
contraddizioni».
«E uno sforzo continuo,
nell'arco del tempo storico delle generazioni del proletariato, per
conquistare posizioni all'indipendenza teorica, organizzativa e
politica della classe dominata; a volte avanza, spesso arretra, quasi
sempre può apparire come il lavoro di Sisifo. Ma è
l'unica via che ha una classe giovane per emanciparsi e per essere in
grado di utilizzare tutte le contraddizioni della classe dominante
per liberarsi» (Arrigo Cervetto, "Lotta Comunista",
agosto 1980).
Una classe sociale senza passato, senza storia
è come un uomo adulto che abbia perso la memoria: senza
coscienza del passato non c'è vero presente e neppure futuro.
(Dall'introduzione a: "1° MAGGIO, 100 anni di storia" Edizioni LOTTA COMUNISTA, aprile 1993)
ricevo e volentieri pubblico lettera di Giuseppe Casarrubea, presidente Associazione "Non solo Portella", scritta alla rivista "mezzocielo" (rivista femminile).
Partinico, 12 settembre 2002
Carissime,
pensandoVi,
riflettendo sulla Vostra solidarietà ho sentito istintivamente
una ricchezza nuova, attuale e antica, che mi è stata di
grande aiuto in questi giorni, per me intensi e faticosi. Ho avuto
momenti di sconforto e di solitudine, ho sentito ( e sento ) tardare
le parole che non costano nulla; ho toccato con mano lo smarrimento
della memoria collettiva.
Portella della Ginestra, i
sindacalisti e i dirigenti di partito ammazzati dalla mafia nel
secondo dopoguerra, fanno parte di una storia che ci appartiene.
Eppure è come se segnassero un tempo remoto, quasi arcaico,
estraneo alla nostra attuale vita democratica. I giovani (magistrati,
professori, medici, universitari, ecc.) non ne hanno mai sentito
parlare tranne eccezionali casi; i vecchi hanno altro a cui pensare;
i più giovani non hanno più i vecchi che raccontino
loro le storie di un tempo, le loro storie, i loro ricordi. Abbiamo
smarrito memoria e futuro, abbiamo difficoltà a coltivarli, a
dare senso alle cose. Tutto sembra appiattirsi, conformarsi. Forma e
sostanza della democrazia sono mutate, invertite. Regge ancora la
memoria del '92 in virtù del fatto che i ventenni di oggi
hanno impresso il baratro che si aprì davanti ai loro occhi di
adolescenti, in un momento delicato della loro crescita; i loro
genitori vissero quei segnali di guerra come la fine di un tempo e
l'inizio di una fase della nostra storia: quella in cui mutavano,
facendosi più sottili e invisibili, i primordiali intrecci tra
potere istituzionale e mafia, forme del controllo sociale e crimine
organizzato. Ma non voglio parlarVi di questo, anche se proprio
questo è il reticolo su cui si innesta una memoria per me più
sofferta, che scompiglia i ricordi e si fa sentire tenue e limpida
come una voce, un canto, una speranza. E' il ricordo di mia madre. Ho
quasi pudore a parlarne, ma sento di poterlo ( e doverlo) fare con
Voi, perchè siete donne.
Me la ricordo vestita a nero,
assolutamente indifesa. Dopo l'assalto alla Camera del lavoro in cui
mio padre perse la vita (22 giugno 1947, avevo allora poco più
di un anno) eravamo rimasti soli. Abitavamo in una piccola casa a
Partinico, in via La Perna, che ricordo ancora benissimo, come gli
inverni, il vento furioso che scuoteva le porte e filtrava attraverso
le fessure; le notti in cui ero accucciato con lei, che mi dava, col
suo respiro caldo, una certezza interiore che non ho mai smarrito: mi
teneva abbracciato come se avesse paura che qualcuno le togliesse
l'unica cosa che le era rimasta, anche questa indifendibile.
Sentivamo strani passi sui tetti e più volte ci alzavamo
d'improvviso a ispezionare la casa, il 'tetto morto', gli interni
degli armadi. Ricordo le lune rosse che ci accompagnavano la sera,
quando rientravamo dalla visita ai parenti, e i camini di quella
strada, e la fontana sempre zampillante, al quadrivio. Le notti della
mia infanzia sono state notti di continui soprassalti e di
persistenti certezze: i soprassalti della violenza che sentivamo
attorno a noi per l'uccisione di mio padre; la certezza che i
mandanti e persino i killer erano ancora liberi, e magari ci
guardavano di giorno commiserandoci; il soprassalto del trauma che
accompagnò mia madre dopo la tragedia, lo scuotimento che la
travolse lasciandole addosso i segni dell' angoscia e della paura; la
certezza del suo affetto e le sue mani sempre protese verso di me,
come un tesoro da custodire in uno scrigno. Ma c'è in questa
memoria la luce solare delle estati, i fichi secchi della vicina
stesi al sole, la vita quotidiana delle famiglie della borghesia di
Partinico, di cui seguivamo lo svolgersi coerente delle azioni,
dall'alba al tramonto lungo quelle stagioni. L'alba era segnata dal
rituale dei carri che si uscivano dalle stalle e s'attaccavano ai
cavalli, dalle voci di comando che i contadini davano agli animali
durante la 'bardatura', dal rumore delle ruote che lentamente
scorrevano lungo i selciati e si allontanavano verso le campagne. Poi
ci eravamo trasferiti da mia nonna, anche lei vedova, a pochi metri
dalla sede del PCI/Camera del Lavoro presa d'assalto quel giorno, e
dove mio padre era stato portato dopo la strage in cui aveva perso la
vita anche un altro militante sindacale comunista: Vincenzo Lo
Iacono. Ricordo quando le due povere donne andarono a Viterbo nel
1950'51, perchè erano state citate come testimoni al processo
che si doveva tenere in quella città.
Ero rimasto solo,
per qualche tempo, con mia nonna e di quel processo non ho altro
ricordo che il regalo che mi portò mia madre quando finalmente
fu di nuovo con me.
Ai giudici disse: "Voi che mi
state interrogando ne sapete più di me. Cosa volete che vi
dica io? Consegnatemi gli assassini e i mandanti dell'uccisione di
mio marito". Allora erano stati convocati anche i feriti
presenti a Portella, in quanto il processo per le due stragi era
stato unificato. I feriti partirono da San Giuseppe Jato e da Piana
degli Albanesi e San Cipirrello, senza che lo Stato predisponesse per
loro una qualche accoglienza. I giudici li ascoltarono e sentirono
quanto essi dissero contro i mafiosi che erano stati visti aggirarsi
a Portella quel giorno, di festa e di sangue dei lavoratori. Seppero
pure che don Peppino Troja, prima della strage, aveva tenuto un
incontro nella sua masseria di Kaggio, a qualche centinaio di metri
da Portella e che qualche giorno prima altro incontro si era tenuto
nella contrada Saraceno tra i capibanda guidati da Giuliano.
Seppero
anche che a quest'incontro aveva preso parte Salvatore Ferreri, alias
Fra' Diavolo, confidente numero uno del capo della polizia in
Sicilia, Ettore Messana. Non approfondirono più di tanto. Non
ordinarono perizie legali, non vollero sapere se per caso i feriti
che avevano ascoltato, portavano ancora in corpo le pallottole e le
schegge delle granate esplose quella mattina sul pianoro di Portella.
Che Francesco La Puma aveva in corpo un proiettile di mitra Beretta
cal. 9 l'abbiamo saputo dopo 50 anni, grazie all'Associazione 'Non
solo Portella' e al lavoro del medico legale Livio Milone; che
Cristina La Rocca, allora bambina, portava in corpo, a pochi
centimetri dal cuore, una scheggia metallica a forma stellare,
l'abbiamo saputo noi di 'Non solo Portella', dopo che nel
cinquantenario delle stragi del '47 abbiamo giurato sul 'sasso di
Barbato' che ci saremmo organizzati, che non potevamo accettare
l'oblio. I giudici non ci consegnarono nessun mandante; assolsero i
mafiosi e presero atto che i principali testimoni che avrebbero
potuto dire la verità erano stati già ammazzati
si disse in regolari conflitti a fuoco. Ma le stragi non si
cancellano col passare del tempo, la nostra memoria è scritta
sulla nostra pelle e nessun morto va in prescrizione. Vi sono perciò
grato per la Vostra solidarietà, testimonianza del Vostro
legame con un passato carico di senso e di storia che neanche Voi,
come me, volete archiviare, perché sia da monito e
insegnamento per le nuove generazioni.
Vi abbraccio
affettuosamente
GIUSEPPE CASARRUBEA
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primo maggio 2007 - Torino - Italia |
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2007 primo maggio p.zza San Carlo - Torino - Italia |
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Primo Maggio 2003 Genova, Via XX Settembre. Italia |
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Primo Maggio 2003 Genova, piazza della vittoria. Italia |
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Primo maggio 2002 Manhattan |
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Primo Maggio 2003 May Day in Tokyo Japan |
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Primo Maggio Bogotà 2005 |
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Primo Maggio 2004 Brescia Italy |
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Primo Maggio 2006 Brescia Italy |
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Primo Maggio 2005 Ecuador |
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Primo Maggio 1998 Havana |
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Primo Maggio 2005 plaza Buenos Aires |
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Primo Maggio 2005 Russia piazza d'ottobre |
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Primo Maggio 2005 union square |
LE INTERNAZIONALI
II 28 settembre 1864, a
Londra, allo scopo di collegare i gruppi che rappresentano il
proletariato, si costituisce l'Associazione internazionale dei
lavoratori, le cui linee d'azione sono decise da un comitato in cui
lo stesso Marx ha un ruolo di primo piano. Ben presto si evidenziano
forti contrasti fra proudhoniani (contrari alla lotta di classe) e
marxisti. Dopo l'episodio della Comune di Parigi (1871), gli
anarchici di Bakunin sono espulsi dall'Internazionale. Nel 1876
l'Internazionale si scioglie, dopo che la sua sede è stata
spostata a New York. Nel 1889 viene fondata la Seconda
Internazionale, con lo scopo di collegare le forze socialiste che dal
1872 hanno una struttura partitica. Allo scoppio della Grande Guerra
la questione dell'intervento divide i socialisti dai comunisti,
decisamente" contrari alla partecipazione alla guerra; gli
interessi nazionali finiscono per prevalere su quelli internazionali,
provocando una grave crisi, acuita nel 1917 dalla Rivoluzione
d'Ottobre e, due anni dopo, dalla fondazione a Mosca di
un'Internazionale comunista (Terza Internazionale) cui aderiscono i
socialisti di sinistra. Gli altri partiti socialisti costituiscono
nel 1923 l'Internazionale socialista.
LETTERA ENCICLICA DI S.S. LEONE XIII
Motivo dell'enciclica: la questione operaia
PARTE PRIMA IL SOCIALISMO, FALSO RIMEDIO
La soluzione socialista inaccettabile dagli operai
La proprietà privata è di diritto naturale
La proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine
Lo Stato e il suo intervento nella famiglia
La soluzione socialista è nociva alla stessa società
PARTE SECONDA IL VERO RIMEDIO: L'UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI
1 Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso
3 Relazioni tra le classi sociali
c) la vera utilità delle ricchezze
a) la diffusione della dottrina cristiana
b) il rinnovamento della società
c) la beneficenza della Chiesa
1 Il diritto d'intervento dello Stato
2 Norme e limiti del diritto d'intervento
3 Casi particolari d'intervento
a) difesa della proprietà privata
1 Necessità della collaborazione di tutti
2 Il diritto all'associazione è naturale
3 Favorire i congressi cattolici
4 Autonomia e disciplina delle associazioni
5 Diritti e doveri degli associati
6 Le questioni operaie risolte dalle loro associazioni
La
carità, regina delle virtù sociali
INTRODUZIONE
Motivo dell'enciclica: la questione operaia
1.
L'ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad
agitare i popoli, doveva naturalmente dall'ordine politico passare
nell'ordine simile dell'economia sociale. E difatti i portentosi
progressi delle arti e i nuovi metodi dell'industria; le mutate
relazioni tra padroni ed operai; l'essersi accumulata la ricchezza in
poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle
proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e
l'unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con
l'aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il
conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene
sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l'ingegno dei
dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le
deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che
oggi non vi è questione che maggiormente interessi il mondo.
Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a
bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere
encicliche sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la
Costituzione cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti che ci
parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima cosa
crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla questione
operaia. Trattammo già questa materia, come ce ne venne
l'occasione più di una volta: ma la coscienza dell'apostolico
nostro ministero ci muove a trattarla ora, di proposito e in pieno,
al fine di mettere in rilievo i principi con cui, secondo giustizia
ed equità, si deve risolvere la questione. Questione difficile
e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i
precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra
capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed
astuti, si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la
questione stessa a perturbamento dei popoli.
2. Comunque
sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia
di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con
opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si
trovano in assai misere condizioni, indegne dell'uomo. Poiché,
soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri,
senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le
istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito
cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e
indifesi in balda della cupidigia dei padroni e di una sfrenata
concorrenza. Accrebbe il male un'usura divoratrice che, sebbene
condannata tante volte dalla Chiesa., continua lo stesso, sotto altro
colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio
della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di
straricchi hanno imposto all'infinita moltitudine dei proletari un
gioco poco meno che servile.
PARTE PRIMA
IL
SOCIALISMO, FALSO RIMEDIO
La soluzione socialista
inaccettabile dagli operai
3. A rimedio di questi
disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l'odio ai ricchi,
pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i
particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per
mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della
proprietà da personale in collettiva, e con l'eguale
distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il
male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le
contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è
inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti
dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello
Stato, e scompiglia tutto l'ordine sociale.
4. E infatti
non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine
prossimo che si propone l'artigiano, è la proprietà
privata. Poiché se egli impiega le sue forze e la sua
industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il necessario alla
vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto
diritto, non solo di esigere, ma d'investire come vuole, la dovuta
mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei
risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un terreno,
questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima
travestita di forma, e conseguente proprietà sua, né
più né meno che la stessa mercede. Ora in questo
appunto, come ognuno sa, consiste la proprietà, sia mobile che
stabile. Con l'accumulare pertanto ogni proprietà particolare,
i socialisti, togliendo all'operaio la libertà di investire le
proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre
vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato,
e ne rendono perciò più infelice la condizione.
5.
Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una
aperta ingiustizia, giacché la proprietà prenata è
diritto di natura. Poiché anche in questo passa gran
differenza tra l'uomo e il bruto. Il bruto non governa sé
stesso; ma due istinti lo reggono e governano, i quali da una parte
ne tengono desta l'attività e ne svolgono le forze, dall'altra
terminano e circoscrivono ogni suo movimento; cioè l'istinto
della conservazione propria, e l'istinto della conservazione della
propria specie. A conseguire questi due fini, basta al bruto l'uso di
quei determinati mezzi che trova intorno a sé; né
potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente
dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura
dell'uomo. Possedendo egli la vita sensitiva nella sua pienezza, da
questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri
animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l'animalità
in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la natura umana,
le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il
gran privilegio dell'uomo, ciò che lo costituisce tale o lo
distingue essenzialmente dal bruto, è l'intelligenza, ossia la
ragione. E appunto perché ragionevole, si deve concedere
all'uomo qualche cosa di più che il semplice uso dei beni
della terra, comune anche agli altri animali: e questo non può
essere altro che il diritto di proprietà stabile; né
proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole,
ma anche di quelle che l'uso non consuma.
La proprietà
privata è di diritto naturale
6. Ciò
riesce più evidente se si penetra maggiormente nell'umana
natura. Per la sterminata ampiezza del suo conoscimento, che
abbraccia, oltre il presente, anche l'avvenire, e per la sua libertà,
l'uomo sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è
provvidenza a sé stesso. Egli deve dunque poter scegliere i
mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita,
non solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò
vale quanto dire che, oltre il dominio dei frutti che dà la
terra, spetta all'uomo la proprietà della terra stessa, dal
cui seno fecondo deve essergli somministrato il necessario ai suoi
bisogni futuri. Giacché i bisogni dell'uomo hanno, per così
dire, una vicenda di perpetui ritorni e, soddisfatti oggi, rinascono
domani. Pertanto la natura deve aver dato all'uomo il diritto a beni
stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso
di cui egli abbisogna, beni che può somministrargli solamente
la terra, con la sua inesauribile fecondità. Non v'è
ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché
l'uomo è anteriore alto Stato: quindi prima che si formasse il
civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere
a sé stesso.
7. L'aver poi Iddio dato la terra a
uso e godimento di tutto il genere umano, non si oppone per nulla al
diritto della privata proprietà; poiché quel dono egli
lo fece a tutti, non perché ognuno ne avesse un comune e
promiscuo dominio, bensì in quanto non assegnò nessuna
parte del suolo determinatamente ad alcuno, lasciando ciò
all'industria degli uomini e al diritto speciale dei popoli. La
terra, per altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a
servizio e beneficio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non
riceva alimento da essi. Chi non ha beni propri vi supplisce con il
lavoro; tanto che si può affermare con verità che il
mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro,
impiegato o nel coltivare un terreno proprio, o nell'esercitare
un'arte, la cui mercede in ultimo si ricava dai molteplici frutti
della terra e in essi viene commutata. Ed è questa un'altra
prova che la proprietà privata è conforme alla natura.
Il necessario al mantenimento e al perfezionamento della vita umana
la terra ce lo somministra largamente, ma ce lo somministra a questa
condizione, che l'uomo la coltivi e le sia largo di provvide cure.
Ora, posto che a conseguire i beni della natura l'uomo impieghi
l'industria della mente e le forze del corpo, con ciò stesso
egli riunisce in sé quella parte della natura corporea che
ridusse a cultura, e in cui lasciò come impressa una impronta
della sua personalità, sicché giustamente può
tenerla per sua ed imporre agli altri l'obbligo di rispettarla.
La
proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine
8.
Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire come
abbiano potuto trovar contraddizioni presso alcuni, i quali,
rinfrescando vecchie utopie, concedono bensì all'uomo l'uso
del suolo e dei vari frutti dei campi, ma del suolo ove egli ha
fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano la proprietà.
Non si accorgono costoro che in questa maniera vengono a defraudare
l'uomo degli effetti del suo lavoro. Giacché il campo
dissodato dalla mano e dall'arte del coltivato non è più
quello di prima, da silvestre è divenuto fruttifero, da
sterile ferace. Questi miglioramenti prendono talmente corpo in quel
terreno che la maggior parte di essi ne sono inseparabili. Ora, che
giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato
subentrasse a goderne i frutti? Come l'effetto appartiene alla sua
causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi
lavora. A ragione pertanto il genere umano, senza affatto curarsi dei
pochi contraddittori e con l'occhio fisso alla legge di natura, trova
in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni; e
riconoscendo che la proprietà privata è sommamente
consona alla natura dell'uomo e alla pacifica convivenza sociale,
l'ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli. E le
leggi civili che, quando sono giuste, derivano la propria autorità
ed efficacia dalla stessa legge naturale(1), confermano tale diritto
e lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il suggello
della legge divina, la quale vieta strettissimamente perfino il
desiderio della roba altrui: Non desiderare la moglie del prossimo
tuo: non la casa, non il podere, non la serva, non il bue, non
l'asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui appartengono(2).
La libertà dell'uomo
9. Questo
diritto individuale cresce di valore se lo consideriamo nei riguardi
del consorzio domestico. Libera all'uomo è l'elezione del
proprio stato: Egli può a suo piacere seguire il consiglio
evangelico della verginità o legarsi in matrimonio. Naturale e
primitivo è il diritto al coniugio e nessuna legge umana può
abolirlo, né può limitarne, comunque sia, lo scopo a
cui Iddio l'ha ordinato quando disse: Crescete e moltiplicatevi (3).
Ecco pertanto la famiglia, ossia la società domestica, società
piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società; perciò
con diritti e obbligazioni indipendenti dallo Stato. Ora, quello che
dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente
all'individuo va applicato all'uomo come capo di famiglia: anzi tale
diritto in lui è tanto più forte quanto più
estesa e completa è nel consorzio domestico la sua
personalità.
Famiglia e Stato
10.
Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento
della prole: e per impulso della natura medesima, che gli fa scorgere
nei figli una immagine di sé e quasi una espansione e
continuazione della sua persona, egli è spinto a provvederli
in modo che nel difficile corso della vita possano onestamente far
fronte ai propri bisogni: cosa impossibile a ottenersi se non
mediante l'acquisto dei beni fruttiferi, ch'egli poi trasmette loro
in eredità. Come la convivenza civile così la famiglia,
secondo quello che abbiamo detto, è una società retta
da potere proprio, che è quello paterno. Entro i limiti
determinati dal fine suo, la famiglia ha dunque, per la scelta e
l'uso dei mezzi necessari alla sua conservazione e alla sua legittima
indipendenza, diritti almeno eguali a quelli della società
civile. Diciamo almeno eguali, perché essendo il consorzio
domestico logicamente e storicamente anteriore al civile, anteriori
altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i
doveri. Che se l'uomo, se la famiglia, entrando a far parte della
società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma offesa,
non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civile convivenza
sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare.
Lo
Stato e il suo intervento nella famiglia
11. È
dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato possa
intervenire a suo talento nel santuario della famiglia. Certo, se
qualche famiglia si trova per avventura in si gravi strettezze che da
sé stessa non le è affatto possibile uscirne, è
giusto in tali frangenti l'intervento dei pubblici poteri, giacché
ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. Similmente in
caso di gravi discordie nelle relazioni scambievoli tra i membri di
una famiglia intervenga lo Stato e renda a ciascuno il suo, poiché
questo non è usurpare i diritti dei cittadini, ma assicurarli
e tutelarli secondo la retta giustizia. Qui però deve
arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare oltre. La
patria potestà non può lo Stato né annientarla
né assorbirla, poiché nasce dalla sorgente stessa della
vita umana. I figli sono qualche cosa del padre, una espansione, per
così dire, della sua personalità e, a parlare
propriamente, essi entrano a far parte del civile consorzio non da sé
medesimi, bensì mediante la famiglia in cui sono nati. È
appunto per questa ragione che, essendo i figli naturalmente qualcosa
del padre... prima dell'uso della ragione stanno sotto la cura dei
genitori. (4) Ora, i socialisti, sostituendo alla provvidenza dei
genitori quella dello Stato, vanno contro la giustizia naturale e
disciolgono la compagine delle famiglie.
La soluzione
socialista è nociva alla stessa società
12.
Ed oltre l'ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e
scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza, e
quale dura e odiosa schiavitù nei cittadini. Si aprirebbe la
via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse
della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all'ingegno e
all'industria individuale: e la sognata uguaglianza non sarebbe di
fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria. Tutte
queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni
proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a
quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti
naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e turba la pace
comune. Resti fermo adunque, che nell'opera di migliorare le sorti
delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il
diritto di proprietà privata. Presupposto ciò,
esporremo donde si abbia a trarre il rimedio.
PARTE
SECONDA
IL VERO RIMEDIO: L'UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI
A)
L'opera della Chiesa
13. Entriamo fiduciosi in questo
argomento, e di nostro pieno diritto; giacché si tratta di
questione di cui non è possibile trovare una risoluzione che
valga senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. E poiché
la cura della religione e la dispensazione dei mezzi che sono in
potere della Chiesa è affidata principalmente a noi, ci
parrebbe di mancare al nostro ufficio, tacendo. Certamente la
soluzione di si arduo problema richiede il concorso e l'efficace
cooperazione anche degli altri: vogliamo dire dei governanti, dei
padroni e dei ricchi, come pure degli stessi proletari che vi sono
direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna affermiamo che,
se si prescinde dall'azione della Chiesa, tutti gli sforzi
riusciranno vani. Difatti la Chiesa è quella che trae dal
Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a rendere assai meno
aspro il conflitto: essa procura con gli insegnamenti suoi, non solo
d'illuminare la mente, ma d'informare la vita e i costumi di ognuno:
con un gran numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni
medesime del proletario; vuole e brama che i consigli e le forze di
tutte le classi sociali si colleghino e vengano convogliate insieme
al fine di provvedere meglio che sia possibile agli interessi degli
operai; e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a
questo scopo le stesse leggi e l'autorità dello Stato.
1
Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso
14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo
principio, che si deve sopportare la condizione propria dell'umanità:
togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa
impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni
tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché
la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini:
non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la
sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili
differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni
sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del
civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di
attitudini varie e di uffici diversi, e l'impulso principale, che
muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità
dello stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato medesimo
d'innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che
allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione
dell'animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza
fatica e molestia, la necessità, secondo quell'oracolo divino:
Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica
tutti i giorni della tua vita (5). Similmente il dolore non mancherà
mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi
sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no,
accompagnano l'uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è
dunque il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti,
non v'è forza né arte che possa togliere del tutto le
sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono
alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e
diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a
dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è
guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare
altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.
2
Necessità della concordia
15. Nella presente
questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe
sociale nemica naturalmente dell'altra; quasi che la natura abbia
fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello
implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità.
In vece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra
si accordano insieme e formano quell'armonico temperamento che si
chiama simmetria, così la natura volle che nel civile
consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse
l'equilibrio. L'una ha bisogno assoluto dell'altra: né il
capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza
il capitale. La concordia fa la bellezza e l'ordine delle cose,
mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e
barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse
radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.
3
Relazioni tra le classi sociali
a) giustizia
16.
Innanzi tutto, l'insegnamento cristiano, di cui è interprete e
custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in
accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli
altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia.
Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all'operaio, sono
questi: prestare interamente e fedelmente l'opera che liberamente e
secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né
offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri
diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in
ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di
cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di
perdite rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei
padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità
della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi
della ragione e della fede il lavoro non degrada l'uomo, ma anzi lo
nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con l'opera
propria. Quello che veramente è indegno dell'uomo è di
abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più
di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente
comandato che nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai
beni dell'anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare
all'operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri
religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di
scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall'amore del
risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal
confacenti con l'età e con il sesso.
17.
Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la
giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte
considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni
che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i
bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo.
Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme
che grida vendetta al cospetto di Dio. Ecco, la mercede degli
operai... che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito
le orecchie del Signore degli eserciti (6). Da ultimo è dovere
dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi dell'operaio né
con violenza né con frodi né con usure manifeste o
nascoste; questo dovere è tanto più rigoroso, quanto
più debole e mal difeso è l'operaio e più
sacrosanta la sua piccola sostanza. L'osservanza di questi precetti
non basterà essa sola a mitigare l'asprezza e a far cessare le
cagioni del dissidio ?
b) carità
18.
Ma la Chiesa, guidata dagli insegnamenti e dall'esempio di Cristo,
mira più in alto, cioè a riavvicinare il più
possibile le due classi, e a renderle amiche. Le cose del tempo non è
possibile intenderle e valutarle a dovere, se l'animo non si eleva ad
un'altra vita, ossia a quella eterna, senza la quale la vera nozione
del bene morale necessariamente si dilegua, anzi l'intera creazione
diventa un mistero inspiegabile. Quello pertanto che la natura stessa
ci detta, nel cristianesimo è un dogma su cui come principale
fondamento poggia tutto l'edificio della religione: cioè che
la vera vita dell'uomo è quella del mondo avvenire. Poiché
Iddio non ci ha creati per questi beni fragili e caduchi, ma per
quelli celesti ed eterni; e la terra ci fu data da Lui come luogo di
esilio, non come patria. Che tu abbia in abbondanza ricchezze ed
altri beni terreni o che ne sia privo, ciò all'eterna felicità
non importa nulla; ma il buono o cattivo uso di quei beni, questo è
ciò che sommamente importa. Le varie tribolazioni di cui è
intessuta la vita di quaggiù, Gesù Cristo, che pur ci
ha redenti con redenzione copiosa, non le ha tolte; le ha convertite
in stimolo di virtù e in maniera di merito, tanto che nessun
figlio di Adamo può giungere al cielo se non segue le orme
sanguinose di Lui. Se persevereremo, regneremo insieme (7).
Accettando volontariamente sopra di sé travagli e dolori, egli
ne ha mitigato l'acerbità in modo meraviglioso, e non solo con
l'esempio ma con la sua grazia e con la speranza del premio proposto,
ci ha reso più facile il patire. Poiché quella che
attualmente è una momentanea e leggera tribolazione nostra,
opera in noi un eterno e sopra ogni misura smisurato peso di gloria
(8). I fortunati del secolo sono dunque avvertiti che le ricchezze
non li liberano dal dolore e che esse per la felicità
avvenire, non che giovare, nuocciono (9); che i ricchi debbono
tremare, pensando alle minacce straordinariamente severe di Gesù
Cristo (10); che dell'uso dei loro beni avranno un giorno da rendere
rigorosissimo conto al Dio giudice.
c) la vera utilità
delle ricchezze
19. In ordine all'uso delle ricchezze,
eccellente e importantissima è la dottrina che, se pure fu
intravveduta dalla filosofia, venne però insegnata a
perfezione dalla Chiesa; la quale inoltre procura che non rimanga
pura speculazione, ma discenda nella pratica e informi la vita. Il
fondamento di tale dottrina sta in ciò: che nella ricchezza si
suole distinguere il possesso legittimo dal legittimo uso. Naturale
diritto dell'uomo è, come vedemmo, la privata proprietà
dei beni e l'esercitare questo diritto é, specialmente nella
vita socievole, non pur lecito, ma assolutamente necessario. E'
lecito, dice san Tommaso, anzi necessario all'umana vita che l'uomo
abbia la proprietà dei beni (11). Ma se inoltre si domandi
quale debba essere l'uso di tali beni, la Chiesa per bocca del santo
Dottore non esita a rispondere che, per questo rispetto, l'uomo non
deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni,
in modo che facilmente li comunichi all'altrui necessità. Onde
l'Apostolo dice: Comanda ai ricchi di questo secolo di dare e
comunicare facilmente il proprio (12). Nessuno, Certo, é
tenuto a soccorrere gli altri con le cose necessarie a sé e ai
suoi, anzi neppure con ciò che è necessario alla
convivenza e al decoro del proprio stato, perché nessuno deve
vivere in modo non conveniente (13). Ma soddisfatte le necessità
e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i
bisognosi. Quello che sopravanza date in elemosina (14). Eccetto il
caso di estrema necessità, questi, è vero, non sono
obblighi di giustizia, ma di carità cristiana il cui
adempimento non si può certamente esigere per via giuridica,
ma sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio
di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del dono
generoso e insegna: E' più bello dare che ricevere (15), e
terrà per fatta o negata a sé la carità fatta o
negata ai bisognosi: Quanto faceste ad uno dei minimi di questi miei
fratelli, a me lo faceste (16). In conclusione, chiunque ha ricevuto
dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia esteriori e
corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di servirsene
al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come ministro della
divina provvidenza a vantaggio altrui: Chi ha dunque ingegno, badi di
non tacere; chi ha abbondanza di roba, si guardi dall'essere troppo
duro di mano nell'esercizio della misericordia; chi ha un'arte per
vivere, ne partecipi al prossimo l'uso e l'utilità (17).
d)
vantaggi della povertà
20. Ai poveri poi, la
Chiesa insegna che innanzi a Dio non è cosa che rechi vergogna
né la povertà né il dover vivere di lavoro. Gesù
Cristo confermò questa verità con 1'esempio suo mentre,
a salute degli uomini, essendo ricco, si fece povero (18) ed essendo
Figlio di Dio, e Dio egli stesso, volle comparire ed essere creduto
figlio di un falegname, anzi non ricusò di passare lavorando
la maggior parte della sua vita: Non è costui il fabbro, il
figlio di Maria? (19) Mirando la divinità di questo esempio,
si comprende più facilmente che la vera dignità e
grandezza dell'uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù;
che la virtù è patrimonio comune, conseguibile
ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari; che
solo alle opere virtuose, in chiunque si trovino, è serbato il
premio dell'eterna beatitudine. Diciamo di più per gli
infelici pare che Iddio abbia una particolare predilezione poiché
Gesù Cristo chiama beati i poveri (20); in. vita amorosamente
a venire da lui per conforto, quanti sono stretti dal peso degli
affanni (21); i deboli e i perseguitati abbraccia con atto di carità
specialissima. Queste verità sono molto efficaci ad abbassar
l'orgoglio dei fortunati e togliere all'avvilimento i miseri, ad
ispirare indulgenza negli uni e modestia negli altri. Così le
distanze, tanto care all'orgoglio, si accorciano; né riesce
difficile ottenere che le due classi, stringendosi la mano, scendano
ad amichevole accordo.
e) fraternità cristiana
21. Ma esse, obbedendo alla legge evangelica, non saranno
paghe di una semplice amicizia, ma vorranno darsi l'amplesso
dell'amore fraterno. Poiché conosceranno e sentiranno che
tutti gli uomini hanno origine da Dio, Padre comune; che tutti
tendono a Dio, fine supremo, che solo può rendere
perfettamente felici gli uomini e gli angeli; che tutti sono stati
ugualmente redenti da Gesù Cristo e chiamati alla dignità
della figliolanza divina, in modo che non solo tra loro, ma con
Cristo Signore, primogenito fra molti fratelli, sono congiunti col
vincolo di una santa fraternità. Conosceranno e sentiranno che
i beni di natura e di grazia sono patrimonio comune del genere umano
e che nessuno, senza proprio merito, verrà diseredato dal
retaggio dei beni celesti: perché se tutti figli, dunque tutti
eredi; eredi di Dio, e coeredi di Gesù Cristo (22). Ecco
1'ideale dei diritti e dei doveri contenuto nel Vangelo. Se esso
prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e non
tornerebbe forse la pace?
4 Mezzi positivi
a) la diffusione della dottrina cristiana
22.
Se non che la Chiesa, non contenta di additare il rimedio, l'applica
ella stessa con la materna sua mano. Poiché ella é
tutta intenta a educare e formare gli uomini a queste massime,
procurando che le acque salutari della sua dottrina scorrano
largamente e vadano per mezzo dei Vescovi e del Clero ad irrigare
tutta quanta la terra. Nel tempo stesso si studia di penetrare negli
animi e di piegare le volontà, perché si lascino
governare dai divini precetti. E in quest'arte, che é di
capitale importanza, poiché ne dipende ogni vantaggio, la
Chiesa sola ha vera efficacia. Infatti, gli strumenti che adopera a
muovere gli animi le furono dati a questo fine da Gesù Cristo,
ed hanno in sé virtù divina; si che essi soli possono
penetrare nelle intime fibre dei cuori, e far si che gli uomini
obbediscano alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino
con supremo e singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano
coraggiosamente tutti gli ostacoli che attraversano il cammino della
virtù.
b) il rinnovamento della società
Basta su ciò accennar di passaggio agli esempi
antichi. Ricordiamo fatti e cose poste fuori di ogni dubbio: cioè
che per opera del cristianesimo fu trasformata da capo a fondo la
società; che questa trasformazione fu un vero progresso del
genere umano, anzi una risurrezione dalla morte alla vita morale, e
un perfezionamento non mai visto per l'innanzi né sperabile
maggiore per l'avvenire; e finalmente che Gesù Cristo è
il principio e il termine di questi benefizi, i quali, scaturiti da
lui, a lui vanno riferiti. Avendo il mondo mediante la luce
evangelica appreso il gran mistero dell'incarnazione del Verbo e
dell'umana redenzione, la vita di Gesù Cristo Dio e uomo si
trasfuse nella civile società che ne fu permeata con la fede,
i precetti, le leggi di lui. Perciò, se ai mali del mondo v'è
un rimedio, questi non può essere altro che il ritorno alla
vita e ai costumi cristiani. È un solenne principio questo,
che per riformare una società in decadenza, è
necessario riportarla ai principi che le hanno dato l'essere, la
perfezione di ogni società è riposta nello sforzo di
arrivare al suo scopo: in modo che il principio generatore dei moti e
delle azioni sociali sia il medesimo che ha generato l'associazione.
Quindi deviare dallo scopo primitivo è corruzione; tornare ad
esso è salvezza. E questo è vero, come di tutto il
consorzio civile, così della classe lavoratrice, che ne è
la parte più numerosa.
c) la beneficenza della
Chiesa
23. Né si creda che le premure della
Chiesa siano così interamente e unicamente rivolte alla
salvezza delle anime, da trascurare ciò che appartiene alla
vita morale e terrena. Ella vuole e procura che soprattutto i
proletari emergano dal loro infelice stato, e migliorino la
condizione di vita. E questo essa fa innanzi tutto indirettamente,
chiamando e insegnando a tutti gli uomini la virtù. I costumi
cristiani, quando siano tali davvero, contribuiscono anch'essi di per
sé alla prosperità terrena, perché attirano le
benedizioni di Dio, principio e fonte di ogni bene; infrenano la
cupidigia della roba e la sete dei piaceri (23), veri flagelli che
rendono misero l'uomo nella abbondanza stessa di ogni cosa; contenti
di una vita frugale, suppliscono alla scarsezza del censo col
risparmio, lontani dai vizi, che non solo consumano le piccole, ma
anche le grandi sostanze, e mandano in rovina i più lauti
patrimoni.
24. Ma vi è di più: la Chiesa
concorre direttamente al bene dei proletari col creare e promuovere
quanto può conferire al loro sollievo, e in questo tanto si è
segnalata, da riscuoter l'ammirazione e gli encomi degli stessi
nemici. Nel cuore dei primi cristiani la carità fraterna era
così potente che i più facoltosi si privavano
spessissimo del proprio per soccorrere gli altri; tanto che non vi
era tra loro nessun bisognoso (24). Ai diaconi, ordine istituito
appositamente per questo, era affidato dagli apostoli l'ufficio di
esercitare la quotidiana beneficenza e l'apostolo Paolo, benché
gravato dalla cura di tutte le Chiese, non dubitava di intraprendere
faticosi viaggi, per recare di sua mano ai cristiani poveri le
elemosine da lui raccolte. Tertulliano chiama depositi della pietà
le offerte che si facevano spontaneamente dai fedeli di ciascuna
adunanza, perché destinate a soccorrere e dar sepoltura agli
indigenti, sovvenire i poveri orfani d'ambo i sessi, i vecchi e i
naufraghi (25). Da lì poco a poco si formò il
patrimonio, che la Chiesa guardò sempre con religiosa cura
come patrimonio della povera gente. La quale anzi, con nuovi e
determinati soccorsi, venne perfino liberata dalla vergogna di
chiedere. Giacché, madre comune dei poveri e dei ricchi,
ispirando e suscitando dappertutto l'eroismo della carità, la
Chiesa creò sodalizi religiosi ed altri benefici istituti, che
non lasciarono quasi alcuna specie di miseria senza aiuto e conforto.
Molti oggi, come già fecero i gentili, biasimano la Chiesa
perfino di questa carità squisita, e si è creduto bene
di sostituire a questa la beneficenza legale. Ma non è umana
industria che possa supplire la carità cristiana, tutta
consacrata al bene altrui. Ed essa non può essere se non virtù
della Chiesa, perché è virtù che sgorga
solamente dal cuore santissimo di Gesù Cristo: e si allontana
da Gesù Cristo chi si allontana dalla Chiesa.
B)
L'opera dello Stato
25. A risolvere peraltro la
questione operaia, non vi è dubbio che si richiedano altresì
i mezzi umani. Tutti quelli che vi sono interessati debbono
concorrervi ciascuno per la sua parte: e ciò ad esempio di
quell'ordine provvidenziale che governa il mondo; poiché
d'ordinario si vede che ogni buon effetto è prodotto
dall'armoniosa cooperazione di tutte le cause da cui esso dipende.
Vediamo dunque quale debba essere il concorso dello Stato. Noi
parliamo dello Stato non come è sostituito o come funziona in
questa o in quella nazione, ma dello Stato nel suo vero concetto,
quale si desume dai principi della retta ragione, in perfetta armonia
con le dottrine cattoliche, come noi medesimi esponemmo nella
enciclica sulla Costituzione cristiana degli Stati (enc. Immortale
Dei).
1 Il diritto d'intervento dello Stato
26. I governanti dunque debbono in primo luogo
concorrervi in maniera generale con tutto il complesso delle leggi e
delle istituzioni politiche, ordinando e amministrando lo Stato in
modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità.
Questo infatti è l'ufficio della civile prudenza e il dovere
dei reggitori dei popoli. Ora, la prosperità delle nazioni
deriva specialmente dai buoni costumi, dal buon assetto della
famiglia, dall'osservanza della religione e della giustizia,
dall'imposizione moderata e dall'equa distribuzione dei pubblici
oneri, dal progresso delle industrie e del commercio, dal fiorire
dell'agricoltura e da altre simili cose, le quali, quanto
maggiormente promosse, tanto più felici rendono i popoli.
Anche solo per questa via, può dunque lo Stato grandemente
concorrere, come al benessere delle altre classi, così a
quello dei proletari; e ciò di suo pieno diritto e senza dar
sospetto d'indebite ingerenze; giacché provvedere al bene
comune è ufficio e competenza dello Stato. E quanto maggiore
sarà la somma dei vantaggi procurati per questa generale
provvidenza, tanto minore bisogno vi sarà di tentare altre vie
a salvezza degli operai.
a) per il bene comune
27.
Ma bisogna inoltre considerare una cosa che tocca più da
vicino la questione: che cioè lo Stato è una armoniosa
unità che abbraccia del pari le infime e le alte classi. I
proletari né di più né di meno dei ricchi sono
cittadini per diritto naturale, membri veri e viventi onde si
compone, mediante le famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne
sono il maggior numero. Ora, essendo assurdo provvedere ad una parte
di cittadini e trascurare l'altra, è stretto dovere dello
Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai; non
facendolo, si offende la giustizia che vuole si renda a ciascuno il
suo, Onde saggiamente avverte san Tommaso: Siccome la parte e il
tutto fanno in certo modo una sola cosa, così ciò che è
del tutto è in qualche maniera della parte (26). Perciò
tra i molti e gravi doveri dei governanti solleciti del bene
pubblico, primeggia quello di provvedere ugualmente ad ogni ordine di
cittadini, osservando con inviolabile imparzialità la
giustizia cosiddetta distributiva.
b) per il bene
degli operai
Sebbene tutti i cittadini senza
eccezione alcuna, debbano cooperare al benessere comune che poi,
naturalmente, ridonda a beneficio dei singoli, tuttavia la
cooperazione non può essere in tutti né uguale né
la stessa. Per quanto si mutino e rimutino le forme di governo, vi
sarà sempre quella varietà e disparità di
condizione senza la quale non può darsi e neanche concepirsi
il consorzio umano. Vi saranno sempre pubblici ministri, legislatori,
giudici, insomma uomini tali che governano la nazione in pace, e la
difendono in guerra; ed è facile capire che, essendo costoro
la causa più prossima ed efficace del bene comune, formano la
parte principale della nazione. Non possono allo stesso modo e con
gli stessi uffici cooperare al bene comune gli artigiani; tuttavia vi
concorrono anch'essi potentemente con i loro servizi, benché
in modo indiretto. Certo, il bene sociale, dovendo essere nel suo
conseguimento un bene perfezionativo dei cittadini in quanto sono
uomini, va principalmente riposto nella virtù. Nondimeno, in
ogni società ben ordinata deve trovarsi una sufficiente
abbondanza dei beni corporali, l'uso dei quali è necessario
all'esercizio della virtù (27). Ora, a darci questi beni è
di necessità ed efficacia somma l'opera e l'arte dei
proletari, o si applichi all'agricoltura, o si eserciti nelle
officine. Somma, diciamo, poiché si può affermare con
verità che il lavoro degli operai è quello che forma la
ricchezza nazionale. È quindi giusto che il governo
s'interessi dell'operaio, facendo si che egli partecipi ín
qualche misura di quella ricchezza che esso medesimo produce,
cosicché abbia vitto, vestito e un genere di vita meno
disagiato. Si favorisca dunque al massimo ciò che può
in qualche modo migliorare la condizione di lui, sicuri che questa
provvidenza, anziché nuocere a qualcuno, gioverà a
tutti, essendo interesse universale che non rimangano nella miseria
coloro da cui provengono vantaggi di tanto rilievo.
2
Norme e limiti del diritto d'intervento
28. Non è
giusto, come abbiamo detto, che il cittadino e la famiglia siano
assorbiti dallo Stato: è giusto invece che si lasci all'uno e
all'altra tanta indipendenza di operare quanta se ne può,
salvo il bene comune e gli altrui diritti. Tuttavia, i governanti
debbono tutelare la società e le sue parti. La società,
perché la tutela di questa fu da natura commessa al sommo
potere, tanto che la salute pubblica non è solo legge suprema,
ma unica e totale ragione della pubblica autorità; le parti,
poi, perché filosofia e Vangelo si accordano a insegnare che
il governo è istituito da natura non a beneficio dei
governanti, bensì dei governati. E perché il potere
politico viene da Dio ed è una certa quale partecipazione
della divina sovranità, deve amministrarsi sull'esempio di
questa, che con paterna cura provvede non meno alle particolari
creature che a tutto l'universo. Se dunque alla società o a
qualche sua parte è stato recato o sovrasta un danno che non
si possa in altro modo riparare o impedire, si rende necessario
l'intervento dello Stato.
29. Ora, interessa il privato
come il pubblico bene che sia mantenuto l'ordine e la tranquillità
pubblica; che la famiglia sia ordinata conforme alla legge di Dio e
ai principi di natura; che sia rispettata e praticata la religione;
che fioriscano i costumi pubblici e privati; che sia inviolabilmente
osservata la giustizia; che una classe di cittadini non opprima
l'altra; che crescano sani e robusti i cittadini, atti a onorare e a
difendere, se occorre, la patria. Perciò, se a causa di
ammutinamenti o di scioperi si temono disordini pubblici; se tra i
proletari sono sostanzialmente turbate le naturali relazioni della
famiglia; se la religione non é rispettata nell'operaio,
negandogli agio e tempo sufficiente a compierne i doveri; se per la
promiscuità del sesso ed altri incentivi al male l'integrità
dei costumi corre pericolo nelle officine; se la classe lavoratrice
viene oppressa con ingiusti pesi dai padroni o avvilita da fatti
contrari alla personalità e dignità umana; se con il
lavoro eccessivi o non conveniente al sesso e all'età, si reca
danno alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve
adoperare, entro i debiti confini, la forza e l'autorità delle
leggi. I quali fini sono determinati dalla causa medesima che esige
l'intervento dello Stato; e ciò significa che le leggi non
devono andare al di là di ciò che richiede il riparo
dei mali o la rimozione del pericolo. I diritti vanno debitamente
protetti in chiunque li possieda e il pubblico potere deve assicurare
a ciascuno il suo, con impedirne o punirne le violazioni. Se non che,
nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo
speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé
stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che
mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di
trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che
sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di
preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue.
3
Casi particolari d'intervento
a) difesa della
proprietà privata
30. Ma giova discendere
espressamente ad alcuni particolari di maggiore importanza.
Principalissimo è questo: i governi devono per mezzo di sagge
leggi assicurare la proprietà privata. Oggi specialmente, in
tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le popolazioni siano
tenute a freno; perché, se la giustizia consente a loro di
adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la giustizia né
il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba, e
sotto colore di non so quale eguaglianza si invada l'altrui. Certo,
la massima parte degli operai vorrebbe migliorare la propria
condizione onestamente, senza far torto ad alcuni; tuttavia non sono
pochi coloro i quali, imbevuti di massime false e smaniosi di novità,
cercano ad ogni costo di eccitare tumulti e sospingere gli altri alla
violenza. Intervenga dunque l'autorità dello Stato e, posto
freno ai sobillatori, preservi i buoni operai dal pericolo della
seduzione e i legittimi padroni da quello dello spogliamento.
b)
difesa del lavoro
1) contro lo sciopero
31. Il
troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono
non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave
e frequente occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi
non recano danno solamente ai padroni e agli operai medesimi, ma al
commercio e ai comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui
d'ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica
tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più
efficace e salutare, si é prevenire il male con l'autorità
delle leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui
si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni.
2)
condizioni di lavoro
32. Molte cose parimenti lo
Stato deve proteggere nell'operaio, e prima di tutto i beni
dell'anima. La vita di quaggiù, benché buona e
desiderabile, non è il fine per cui noi siamo stati creati, ma
via e mezzo a perfezionare la vita dello spirito con la cognizione
del vero e con la pratica del bene. Lo spirito è quello che
porta scolpita in sé l'immagine e la somiglianza divina, ed in
cui risiede quella superiorità in virtù della quale fu
imposto all'uomo di signoreggiare le creature inferiori, e di far
servire all'utilità sua le terre tutte ed i mari. Riempite la
terra e rendetela a voi soggetta: signoreggiate i pesci del mare e
gli uccelli dell'aria e tutti gli animali che si muovono sopra la
terra (28). In questo tutti gli uomini sono uguali, né
esistono differenze tra ricchi e poveri, padroni e servi, monarchi e
sudditi, perché lo stesso è il Signore di tutti (29). A
nessuno è lecito violare impunemente la dignità
dell'uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né
attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato
all'acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera
elezione potrebbe l'uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua
natura, ed accettare la schiavitù dello spirito, perché
non si tratta di diritti dei quali sia libero l'esercizio, bensì
di doveri verso Dio assolutamente inviolabili. Di qui segue la
necessità del riposo festivo. Sotto questo nome non s'intenda
uno stare in ozio più a lungo, e molto meno una totale
inazione quale si desidera da molti, fomite di vizi e occasione di
spreco, ma un riposo consacrato dalla religione. Unito alla
religione, il riposo toglie l'uomo ai lavori e alle faccende della
vita ordinaria per richiamarlo al pensiero dei beni celesti e al
culto dovuto alla Maestà divina. Questa è
principalmente la natura, questo il fine del riposo festivo, che
Iddio con legge speciale, prescrisse all'uomo nel Vecchio Testamento,
dicendogli: Ricordati di santificare il giorno di sabato (30) e che
egli stesso insegnò di fatto, quando nel settimo giorno,
creato l'uomo, si riposò dalle opere della creazione: Riposò
nel giorno settimo da tutte le opere che aveva fatte (31).
33.
Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è
dovere sottrarre il povero operaio all'inumanità di avidi
speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle
persone come fossero cose. Non è giusto né umano
esigere dall'uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa
fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così
l'attività dell'uomo è limitata e circoscritta entro
confini ben stabiliti, oltre i quali non può andare.
L'esercizio e l'uso l'affina, a condizione però che di quando
in quando venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il
lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze. Il
determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità
del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa
complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei
minatori che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e altre
materie nascoste nel sottosuolo, essendo più grave e nocivo
alla salute, va compensato con una durata più breve. Si deve
avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un
lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un'altra
o del tutto insopportabile o tale che sí sopporta con
difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all'uomo alto e
robusto, non é ragionevole che s'imponga a una donna o a un
fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle
officine prima che l'età ne abbia sufficientemente sviluppate
le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella
puerizia sbocciano simili all'erba in fiore, un movimento precoce le
sciupa, e allora si rende impossibile la stessa educazione dei
fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono alle
donne, fatte da natura per í lavori domestici, í quali
grandemente proteggono l'onestà del sesso debole, e hanno
naturale corrispondenza con l'educazione dei figli e il benessere
della casa. In generale si tenga questa regola, che la quantità
del riposo necessario all'operaio deve essere proporzionata alla
quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le
forze consumate con l'uso debbono venire riparate col riposo. In ogni
convenzione stipulata tra padroni e operai vi è sempre la
condizione o espressa o sottintesa dell'uno e dell'altro riposo; un
patto contrario sarebbe immorale, non essendo lecito a nessuno
chiedere o permettere la violazione dei doveri che lo stringono a Dio
e a sé stesso.
3) la questione del salario
34. Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e
che va inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La
quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso
delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la
sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette
ingiustizia solo quando o il padrone non paga l'intera mercede o
l'operaio non presta tutta l'opera pattuita; e solo a tutela di
questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l'intervento
dello Stato. A questo ragionamento, un giusto estimatore delle cose
non può consentire né facilmente né in tutto;
perché esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto; vi mancano
alcune considerazioni di grande importanza. Il lavoro è
l'attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita,
e specialmente alla conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della
tua fronte (32). Ha dunque il lavoro dell'uomo come due caratteri
impressigli da natura, cioè di essere personale, perché
la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio
di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere
necessario, perché il frutto del lavoro è necessario
all'uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un
dovere imprescindibile imposto dalla natura. Ora, se si guarda solo
l'aspetto della personalità, non v'è dubbio che può
l'operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché
siccome egli offre volontariamente l'opera, così può,
volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben
diversa è la cosa se con la personalità si considera la
necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente
inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui
nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria
conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che
nella povera gente sí riducono al salario del proprio lavoro.
L'operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il
patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però
sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla
libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo
della mercede non deve essere inferiore al sostentamento
dell'operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui,
costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta
patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario
o dall'imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è
chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia
protesta. Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono
l'orario di lavoro, le cautele da prendere, per garantire nelle
officine la vita dell'operaio, affinché l'autorità non
s'ingerisca indebitamente, specie in tanta varietà di cose, di
tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare la
decisione ai collegi di cui parleremo più avanti, o usare
altri mezzi che salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai,
limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede,
tutela ed appoggio.
c) educazione al risparmio
35.
Quando l'operaio riceve un salario sufficiente a mantenere sé
stesso e la sua famiglia in una certa quale agiatezza, se egli è
saggio, penserà naturalmente a risparmiare e, assecondando
l'impulso della stessa natura, farà in modo che sopravanzi
alle spese una parte da impiegare nell'acquisto di qualche piccola
proprietà. Poiché abbiamo dimostrato che
l'inviolabilità del diritto di proprietà è
indispensabile per la soluzione pratica ed efficace della questione
operaia. Pertanto le leggi devono favorire questo diritto, e fare in
modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari. Da
qui risulterebbero grandi vantaggi, e in primo luogo una più
equa ripartizione della ricchezza nazionale. La rivoluzione ha
prodotto la divisione della società come in due caste, tra le
quali ha scavato un abisso. Da una parte una fazione strapotente
perché straricca, la quale, avendo in mano ogni sorta di
produzione e commercio, sfrutta per sé tutte le sorgenti della
ricchezza, ed esercita pure nell'andamento dello Stato una grande
influenza. Dall'altra una moltitudine misera e debole, dall'animo
esacerbato e pronto sempre a tumulti. Ora, se in questa moltitudine
s'incoraggia l'industria con la speranza di poter acquistare stabili
proprietà, una classe verrà avvicinandosi poco a poco
all'altra, togliendo l'immensa distanza tra la somma povertà e
la somma ricchezza. Oltre a ciò, dalla terra si ricaverà
abbondanza di prodotti molto maggiore. Quando gli uomini sanno di
lavorare in proprio, faticano con più alacrità e
ardore, anzi si affezionano al campo coltivato di propria mano, da
cui attendono, per sé e per la famiglia, non solo gli alimenti
ma una certa agiatezza. Ed è facile capire come questa
alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del
suolo e la ricchezza della nazione. Ne seguirà un terzo
vantaggio, cioè l'attaccamento al luogo natio; infatti non si
cambierebbe la patria con un paese straniero, se quella desse di che
vivere agiatamente ai suoi figli. Si avverta peraltro che tali
vantaggi dipendono da questa condizione, che la privata proprietà
non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della
proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella
naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente
temperarne l'uso e armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia
ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto
pretesto di imposte.
C) L'opera delle associazioni
1 Necessità della collaborazione di
tutti
36. Finalmente, a dirimere la questione operaia
possono contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con
istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad
avvicinare e udire le due classi tra loro. Tali sono le società
di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private destinate a
prendersi cura dell'operaio, della vedova, dei figli orfani, nei casi
d'improvvisi infortuni, d'infermità, o di altro umano
accidente; i patronati per i fanciulli d'ambo i sessi, per la
gioventù e per gli adulti. Tengono però il primo posto
le corporazioni di arti e mestieri che nel loro complesso contengono
quasi tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono presso i
nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni, e non solo a pro
degli artieri, ma come attestano documenti in gran numero, ad onore e
perfezionamento delle arti medesime. I progressi della cultura, le
nuove abitudini e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste
corporazioni si adattino alle condizioni attuali. Vediamo con piacere
formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia di soli operai
sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano
di numero e di operosità. Sebbene ne abbiamo parlato più
volte, ci piace ritornarvi sopra per mostrarne l'opportunità,
la legittimità, la forma del loro ordinamento e la loro
azione.
2 Il diritto all'associazione è
naturale
37. Il sentimento della propria debolezza
spinge l'uomo a voler unire la sua opera all'altrui. La Scrittura
dice: E' meglio essere in due che uno solo; perché due hanno
maggior vantaggio nel loro lavoro. Se uno cade, è sostenuto
dall'altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo
sollevi (33). E altrove: il fratello aiutato dal fratello è
simile a una città fortificata (34). L'istinto di questa
naturale inclinazione lo muove, come alla società civile, così
ad altre particolari società, piccole certamente e non
perfette, ma pur società vere. Fra queste e quella corre
grandissima differenza per la diversità dei loro fini
prossimi. Il fine della società civile è universale,
perché è quello che riguarda il bene comune, a cui
tutti e singoli i cittadini hanno diritto nella debita proporzione.
Perciò è chiamata pubblica; per essa gli uomini si
mettono in mutua comunicazione al fine di formare uno Stato (35). Al
contrario le altre società che sorgono in seno a quella si
dicono e sono private, perché hanno per scopo l'utile privato
dei loro soci. Società privata è quella che si forma
per concludere affari privati, come quando due o tre si uniscono a
scopo di commercio (36).
38. Ora, sebbene queste private
associazioni esistano dentro la Stato e ne siano come tante parti,
tuttavia in generale, e assolutamente parlando, non può lo
Stato proibirne la formazione. Poiché il diritto di unirsi in
società l'uomo l'ha da natura, e i diritti naturali lo Stato
deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, egli
contraddirebbe sé stesso, perché l'origine del
consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella
naturale socialità dell'uomo. Si danno però casi che
rendono legittimo e doveroso il divieto. Quando società
particolari si prefiggono un fine apertamente contrario all'onestà,
alla giustizia, alla sicurezza del consorzio civile, legittimamente
vi si oppone lo Stato, o vietando che si formino o sciogliendole se
sono formate; è necessario però procedere in ciò
con somma cautela per non invadere i diritti dei cittadini, e non
fare il male sotto pretesto del pubblico bene. Poiché le leggi
non obbligano se non in quanto sono conformi alla retta ragione, e
perciò stesso alla legge eterna di Dio (37).
39. E
qui il nostro pensiero va ai sodalizi, collegi e ordini religiosi di
tante specie a cui dà vita l'autorità della Chiesa e la
pietà dei fedeli; e con quanto vantaggio del genere umano, lo
attesta la storia anche ai nostri giorni. Tali società,
considerate al solo lume della ragione, avendo un fine onesto, sono
per diritto di natura evidentemente legittime. In quanto poi
riguardano la religione, non sottostanno che all'autorità
della Chiesa. Non può dunque lo Stato arrogarsi più
quelle competenza alcuna, né rivendicarne a sé
l'amministrazione; ha però il dovere di rispettarle,
conservarle e, se occorre, difenderle. Ma quanto diversamente si
agisce, soprattutto ai nostri tempi! In molti luoghi e in molti modi
lo Stato ha leso i diritti di tali comunità, avendole
sottoposte alle leggi civili a private di giuridica personalità,
o spogliate dei loro beni. Nei quali beni la Chiesa aveva il diritto
suo, come ognuno dei soci, e similmente quelli che li avevano
destinati per un dato fine, e quelli al cui vantaggio e sollievo
erano destinati. Non possiamo dunque astenerci dal deplorare
spogliazioni sì ingiuste e dannose, tanto più che
vediamo proibite società cattoliche, tranquille e utilissime,
nel tempo stesso che si proclama altamente il diritto di
associazione; mentre in realtà tale diritto vieni largamente
concesso a uomini apertamente congiurati ai danni della religione e
dello Stato.
40. Certe società diversissime,
costituite specialmente di operai, vanno oggi moltiplicandosi sempre
più. Di molte, tra queste, non è qui luogo di indagar
l'origine, lo scopo, i procedimenti. È opinione comune però,
confermata da molti indizi, che il più delle volte sono rette
da capi occulti, con organizzazione contraria allo spirito cristiano
e al bene pubblico; costoro con il monopolio delle industrie
costringono chi rifiuta di accomunarsi a loro, a pagar caro il
rifiuto. In tale stato di cose gli operai cristiani non hanno che due
vie: o iscriversi a società pericolose alla religione o
formarne di proprie e unire così le loro forze per sottrarsi
coraggiosamente a sì ingiusta e intollerabile oppressione.
Ora, potrà mai esitare sulla scelta di questo secondo partito,
chi non vuole mettere a repentaglio il massimo bene dell'uomo?
3
Favorire i congressi cattolici
41. Degnissimi
d'encomio sono molti tra i cattolici che, conosciute le esigenze dei
tempi, fanno ogni sforzo per migliorare onestamente le condizioni
degli operai. E presane in mano la causa, si studiano di accrescerne
il benessere individuale e domestico; di regolare, secondo equità,
le relazioni tra lavoratori e padroni; di tener viva e profondamente
radicata negli uni e negli altri il senso del dovere e l'osservanza
dei precetti evangelici; precetti che, allontanando l'animo da ogni
sorta di eccessi, lo inducono alla moderazione e, tra la più
grande diversità di persone e di cose, mantengono l'armonia
nella vita civile. A tal fine vediamo che spesso si radunano dei
congressi, ove uomini saggi si comunicano le idee, uniscono le forze,
si consultano intorno agli espedienti migliori, Altri s'ingegnano di
stringere opportunamente in società le varie classi operaie;
le aiutano col consiglio e i mezzi e procurano loro un lavoro onesto
e redditizio. Coraggio e protezione vi aggiungono i vescovi, e sotto
la loro dipendenza molti dell'uno e dell'altro clero attendono con
zelo al bene spirituale degli associati. Non mancano finalmente i
cattolici benestanti che, fatta causa comune coi lavoratori, non
risparmiano spese per fondare e largamente diffondere associazioni
che aiutino l'operaio non solo a provvedere col suo lavoro ai bisogni
presenti, ma ad assicurarsi ancora per l'avvenire un riposo onorato e
tranquillo. I vantaggi che tanti e sì volenterosi sforzi hanno
recato al pubblico bene, sono così noti che non occorre
parlarne. Di qui attingiamo motivi a bene sperare dell'avvenire,
purché tali società fioriscano sempre più, e
siano saggiamente ordinate. Lo Stato difenda queste associazioni
legittime dei cittadini; non si intrometta però nell'intimo
della loro organizzazione e disciplina, perché il movimento
vitale nasce da un principio intrinseco, e gli impulsi esterni
facilmente lo soffocano.
4 Autonomia e
disciplina delle associazioni
42. Questa sapiente
organizzazione e disciplina è assolutamente necessaria perché
vi sia unità di azione e d'indirizzo. Se hanno pertanto i
cittadini, come l'hanno di fatto, libero diritto di legarsi in
società, debbono avere altresì uguale diritto di
scegliere per i loro consorzi quell'ordinamento che giudicano più
confacente al loro fine. Quale esso debba essere nelle singole sue
parti, non crediamo si possa definire con regole certe e precise,
dovendosi determinare piuttosto dall'indole di ciascun popolo,
dall'esperienza e abitudine, dalla quantità e produttività
dei lavori, dallo sviluppo commerciale, nonché da altre
circostanze, delle quali la prudenza deve tener conto. In sostanza,
si può stabilire come regola generale e costante che le
associazioni degli operai si devono ordinare e governare in modo da
somministrare i mezzi più adatti ed efficaci al conseguimento
del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno degli associati
ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico,
economico, morale. È evidente poi, che conviene aver di mira,
come scopo speciale, il perfezionamento religioso e morale, e che a
questo perfezionamento si deve indirizzare tutta la disciplina
sociale. Altrimenti tali associazioni degenerano facilmente in altra
natura, né si mantengono superiori a quelle in cui della
religione non si tiene conto alcuno. Del resto, che gioverebbe
all'operaio l'aver trovato nella società di che vivere bene,
se l'anima sua, per mancanza di alimento adatto, corresse pericolo di
morire? Che giova all'uomo l'acquisto di tutto il mondo con
pregiudizio dell'anima sua? (38). Questo, secondo l'insegnamento di
Gesù Cristo, é il carattere che distingue il cristiano
dal pagano: I pagani cercano tutte queste cose... voi cercate prima
di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e gli altri beni vi
saranno dati per giunta (39). Prendendo adunque da Dio il principio,
si dia una larga parte all'istruzione religiosa, affinché
ciascuno conosca i propri doveri verso Dio; sappia bene ciò
che deve credere, sperare e fare per salvarsi; e sia ben premunito
contro gli errori correnti e le seduzioni corruttrici. L'operaio
venga animato al culto di Dio e all'amore della pietà, e
specialmente all'osservanza dei giorni festivi. Impari a venerare e
amare la Chiesa, madre comune di tutti, come pure a obbedire ai
precetti di lei, e a frequentare i sacramenti, mezzi divini di
giustificazione e di santità.
5 Diritti e
doveri degli associati
43. Posto il fondamento degli
statuti sociali nella religione, è aperta la strada a regolare
le mutue relazioni dei soci per la tranquillità della loro
convivenza e del loro benessere economico. Gli incarichi si
distribuiscano in modo conveniente agli interessi comuni, e con tale
armonia che la diversità non pregiudichi l'unità. E'
sommamente importante che codesti incarichi vengano distribuiti con
intelligenza e chiaramente determinati, perché nessuno dei
soci rimanga offeso. I beni comuni della società siano
amministrati con integrità, così che i soccorsi vengano
distribuiti a ciascuno secondo i bisogni; e i diritti e i doveri dei
padroni armonizzino con i diritti e i doveri degli operai. Quando poi
gli uni o gli altri si credono lesi, è desiderabile che
trovino nella stessa associazione uomini retti e competenti, al cui
giudizio, in forza degli statuti, si debbano sottomettere. Si dovrà
ancora provvedere che all'operaio non manchi mai il lavoro, e vi
siano fondi disponibili per venire in aiuto di ciascuno, non
solamente nelle improvvise e inattese crisi dell'industria, ma
altresì nei casi di infermità, di vecchiaia, di
infortunio. Quando tali statuti sono volontariamente abbracciati, si
é già sufficientemente provveduto al benessere
materiale e morale delle classi inferiori; e le società
cattoliche potranno esercitare non piccola influenza sulla prosperità
della stessa società civile. Dal passato possiamo
prudentemente prevedere l'avvenire. Le umane generazioni si
succedono, ma le pagine della loro storia si rassomigliano
grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella
Provvidenza suprema la quale volge e indirizza tutte le umane vicende
a quel fine che ella si prefisse nella creazione della umana
famiglia. Agli inizi della Chiesa i pagani stimavano disonore il
vivere di elemosine o di lavoro, come tacevano la maggior parte dei
cristiani. Se non che, poveri e deboli, riuscirono a conciliarsi le
simpatie dei ricchi e il patrocinio dei potenti. Era bello vederli
attivi, laboriosi, pacifici, giusti, portati come esempio, e
singolarmente pieni di carità. A tale spettacolo di vita e di
condotta si dileguò ogni pregiudizio, ammutolì la
maldicenza dei malevoli, e le menzogne di una inveterata
superstizione cedettero il posto alla verità cristiana.
6
Le questioni operaie risolte dalle loro associazioni
44.
Si agita ai nostri giorni la questione operaia, la cui buona o
cattiva soluzione interessa sommamente lo Stato. Gli operai cristiani
la sceglieranno bene, se uniti in associazione, e saggiamente
diretti, seguiranno quella medesima strada che con tanto vantaggio di
loro stessi e della società, tennero i loro antenati. Poiché,
sebbene così prepotente sia negli uomini la forza dei
pregiudizi e delle passioni, nondimeno, se la pravità del
volere non ha spento in essi il senso dell'onesto, non potranno non
provare un sentimento benevolo verso gli operai quando li scorgono
laboriosi, moderati, pronti a mettere l'onestà al di sopra del
lucro e la coscienza del dovere innanzi a ogni altra cosa. Ne seguirà
poi un altro vantaggio, quello cioè di infondere speranza e
facilità di ravvedimento a quegli operai ai quali manca o la
fede o la buona condotta secondo la fede. Il più delle volte
questi poveretti capiscono bene di essere stati ingannati da false
speranze e da vane illusioni. Sentono che da cupidi padroni vengono
trattati in modo molto inumano e quasi non sono valutati più
di quello che producono lavorando; nella società, in cui si
trovano irretiti, invece di carità e di affetto fraterno,
regnano le discordie intestine, compagne indivisibili della povertà
orgogliosa e incredula. Affranti nel corpo e nello spirito, molti di
loro vorrebbero scuotere il giogo di si abietta servitù; ma
non osano per rispetto umano o per timore della miseria. Ora a tutti
costoro potrebbero recare grande giovamento le associazioni
cattoliche, se agevolando ad essi il cammino, li inviteranno,
esitanti, al loro seno, e rinsaviti, porgeranno loro patrocinio e
soccorso.
CONCLUSIONE
La
carità, regina delle virtù sociali
45.
Ecco, venerabili fratelli, da chi e in che modo si debba concorrere
alla soluzione di sì arduo problema. Ciascuno faccia la parte
che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe
rendere più difficile la cura di un male già tanto
grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e saggi
provvedimenti; i capitalisti e padroni abbiano sempre presenti i loro
doveri; i proletari, che vi sono direttamente interessati, facciano,
nei limiti del giusto, quanto possono; e poiché, come abbiamo
detto da principio, il vero e radicale rimedio non può venire
che dalla religione, si persuadano tutti quanti della necessità
di tornare alla vita cristiana, senza la quale gli stessi argomenti
stimati più efficaci, si dimostreranno scarsi al bisogno.
Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun
modo l'opera sua, la quale tornerà tanto più efficace
quanto più sarà libera, e di questo devono persuadersi
specialmente coloro che hanno il dovere di provvedere al bene dei
popoli. Vi pongano tutta la forza dell'animo e la generosità
dello zelo i ministri del santuario; e guidati dall'autorità e
dall'esempio vostro, venerabili fratelli, non si stanchino di
inculcare a tutte le classi della società le massime del
Vangelo; impegnino le loro energie a salvezza dei popoli, e
soprattutto alimentino in sé e accendano negli altri, nei
grandi e nei piccoli, la carità, signora e regina di tutte le
virtù. La salvezza desiderata dev'essere principalmente frutto
di una effusione di carità; intendiamo dire quella carità
cristiana che compendia in sé tutto il Vangelo e che, pronta
sempre a sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro
antidoto contro l'orgoglio e l'egoismo del secolo. Già san
Paolo ne tratteggiò i lineamenti con quelle parole: La carità
è longanime, è benigna; non cerca il suo tornaconto:
tutto soffre, tutto sostiene (40). Auspice dei celesti favori e pegno
della nostra benevolenza, a ciascuno di voi, venerabili fratelli, al
vostro clero e al vostro popolo, con grande affetto nel Signore
impartiamo l'apostolica benedizione.
Dato a Roma presso
san Pietro, il giorno 15 maggio 1891, anno decimoquarto del nostro
pontificato.
LEONE PP. XIII
(1)
Cfr. S. Th. II, q. 95, a. 4.
(2) Deut 5,21.
(3)
Gen 1,28.
(4) S. Th. IIII, q. 10, a. 12.
(5)
Gen 3,17.
(6) Giac 5,4.
(7) 2 Tim 2,12.
(8)
2Cor 4,17.
(9) Cfr. Mat 19,2324.
(10) Cfr.
Luc 6,2425.
(11) S. Th. IIIII, q. 66, a. 2.
(12)
Ivi.
(13). S. Th. IIII, q. 32, a. 6.
(14) Luc
11,41.
(15) At 20,35.
(16) Mat 25,40.
(17)
S. Greg. M., In Evang. hom 9, n. 7
(18) 2Cor 8,9.
(19)
Mar 6,3.
(20) Cfr. Mat 5,3.
(21) Mat 11,28.
(22) Rom 8,17.
(23) Cfr. 1Tim 6,10.
(24)
At 4,34.
(25) Apolog, 2.39.
(26) S. Th. IIII,
q. 61, a. 1 ad 2.
(27) S. Th., De reg, princ. I,17.
(28)
Gen 1,28.
(29) Rom 10,12.
(30) Es 20,8.
(31) Gen 2,2.
(32) Gen 3,19.
(33)
Eccl 4,910.
(34) Prov 18,19.
(35) S, Th.,
Contra impugn. Dei cultum et religionem, c. II.
(36) Ivi.
(37) Cfr. S. Th. III, q. 13, a. 3.
(38) Mat
16,26.
(39) Mat 6,3233.
(40) 1 Cor 13,47