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L'ALTRO CINEMA n.1



26 agosto 2005
il cinema commerciale postmoderno


The Island, e il cinema commerciale postmoderno
Torna dietro la macchina da presa Michael Bay. Il regista californiano è uno dei principali esponenti del cinema hollywoodiano commerciale e fracassone. In questo genere di pellicole di solito quello che conta di più è il budget faraonico che le major riescono a mettere a disposizione del regista (un altro esempio recente di questa tendenza è I Fantastici 4). Tutti i film di Bay superano di gran lunga i 100 milioni di dollari di produzione, e anche la sua ultima fatica non fa eccezione con ben 122 milioni di budget. “The island” è un mix di fantascienza e azione che riprende il tema della lotta individuale contro una società alienante (L'uomo che fuggì dal futuro) e quello dei mondi virtuali (Matrix, The Truman show). Ma al di là della trama e dell’ambientazione quello che colpisce in questo film è la tendenza a privilegiare su tutto l’impatto spettacolare della messa in scena. Le pellicole di Bay sono un esempio tipico di cinema hollywoodiano postmoderno, e di un’estetica fondata sulla messa in scena e sul predominio della dimensione spaziale sullo sviluppo narrativo del racconto. È sufficiente paragonare “The island” a un film come L’uomo che fuggì dal futuro per capire quanto è cambiato a Hollywood negli ultimi trent’anni. Il film d’esordio di George Lucas mette in scena la stessa storia della pellicola di Bay con almeno due differenze fondamentali: la povertà dei mezzi riscattata da un’eccezionale ricchezza di invenzioni visive, e l’attenzione per la storia e i personaggi sostenuta da una scrittura non banale. Due elementi che in “The island” come nel cinema commerciale postmoderno sembrano non trovare più spazio.

In questo cinema conta molto di più la confezione delle singole inquadrature, la capacità di conferire una patina glamour alle immagini attraverso una cura maniacale per la fotografia, la costruzione di un ritmo serrato e coinvolgente sulla breve distanza piuttosto che l’economia complessiva della narrazione. La tendenza a privilegiare la dimensione spaziale del racconto su quella narrativa è una conseguenza dell’enorme sviluppo che le tecnologie visuali hanno conosciuto negli ultimi vent’anni. Con l’avvento del digitale alla fine degli anni’80 sono stati superati i tradizionali confini dello spazio scenografico. Le immagini hanno acquistato uno spessore grafico inedito, e l’impatto della computer grafica ha sostituito il vecchio realismo scenografico nel cuore del pubblico di massa.

La nascita di un’estetica postmoderna fondata sullo sviluppo degli aspetti grafici delle immagini ha radici che risalgono fino agli anni’70, alle trilogie di Lucas e Spielberg e all’importanza che questi autori hanno conferito agli effetti speciali (non a caso proprio dalle loro esperienze si sono sviluppate due tra le industrie di tecnologia digitale più importanti al mondo: L’Industrial Light And Magic di Lucas e la Dreamworks di Spielberg). Gli anni’90 hanno visto la definitiva affermazione del cinema commerciale hollywoodiano postmoderno. Grazie all’opera di registi come James Cameron (The Abyss, Terminator 2, Titanic), Ron Howard (Fuoco assassino, Apollo 13, Il Grinch), Michael Bay (Bad boys, Armagheddon, Pearl Harbor), M. N. Shyamalan (Unbreakable, Signs), Tony Scott (Nemico pubblico, Spy game), Ted Demme (Blow), Dominic Sena (Codice: swordfish) si è imposta una nuova tendenza espressiva: la preferenza per la composizione dello spazio scenico in funzione del ritmo della scansione temporale, ma a discapito della complessità della scrittura. Il caso Peter Jackson merita invece un discorso a parte, troppo complesso per essere affrontato in questa riflessione.

Quest’ultimo aspetto è emerso in modo particolare negli anni successivi per mano dei numerosi epigoni di questa corrente, ed è stato esportato nel resto delle cinematografie occidentali. In Inghilterra persegue questa idea sia il prodotto seriale per eccellenza del cinema inglese: la saga di James Bond (007 – il mondo non basta, 007 – la morte può attendere); sia gli autori in cerca della conferma internazionale come Danny Boyle (The beach, Milions). La cinematografia francese è probabilmente quella che si è inserita con più decisione in questa corrente: l’esempio e il successo internazionale dell’opera di Luc Besson (Il quinto elemento, Giovanna d’Arco) hanno aperto la strada ad un tipo di cinema commerciale ad alto impatto spettacolare che ormai non presenta più alcuna differenza rispetto al prodotto hollywoodiano (Asterix e Obelix, Vidocq, Il patto dei lupi). Anche l’Italia non è stata da meno ospitando una sclerotizzazione del fenomeno per mano degli autori in grado di incidere maggiormente sul mercato nazionale, come Gabriele Salvatores (Nirvana, Amnesia) e Roberto Benigni (Pinocchio).

Negli ultimi anni anche il cinema orientale sembra subire il contraccolpo di questo fracasso audio-visuale. Molti registi di Hong Kong in trasferta a Hollywood hanno piegato il loro stile ai canoni della spettacolarizzazione commerciale, tra gli altri anche i due maggiori autori di action hongkonghese: John Woo (Mission impossible 2, Windtalkers) e Tsui Hark (Double team). Lo stesso può dirsi del regista taiwanese Ang Lee (Hulk) e degli autori del new horror giapponese chiamati a girare i remake americani dei loro successi (The grudge, The ring 2).

È facile individuare le caratteristiche principali di questo tipo di cinema, chiunque potrebbe vedere sotto la perfezione delle immagini (la confezione) una povertà di idee e di scrittura desolante (il contenuto). Ciò che non è sempre evidente è la distonia tra la freddezza della messa in scena e i messaggi comunicati. “The island” è esemplare in questo senso: predica la lotta dell’individuo per l’affermazione della propria unicità contro l’omologazione culturale e biologica derivante dalla tecnologia della clonazione, ma sostiene il discorso con una forma di cinema spettacolare e ad alto tasso tecnologico, che viene riproposta in continuazione, con variazioni minime, da tutte le superproduzioni. Il grande escluso rimane l’umanità del processo creativo. Mi spiego meglio: in tutto questo gigantismo produttivo e tecnologico viene a mancare il sentimento dell’autore, la sua impronta, non si vede la sua mano dietro il prodotto finito. Questo genere di pellicole esprime una perfezione quasi meccanica dietro il processo creativo e l’orchestrazione della sua messa in scena. Sono prodotti lontani anni luce dai piccoli film girati con due lire dagli autori che fanno tutto: regia, recitazione, effetti speciali, colonna musicale. Se questo è il futuro del cinema, mi auguro che l’isola incontaminata della serie B, artigianale fin che si vuole ma proprio per questo a misura d’uomo, non diventi in breve solo una pallida illusione.

MT



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