Elisa Coco

Raccontar(si) 2008

Etica, Politica e Poetica dell’incontro

 

 

Giunto quest’anno alla sua ottava edizione, il Laboratorio di genere e intercultura Raccontar(si),organizzato dalla Società italiana delle letterate e dal Giardino dei Ciliegi, si è svolto, con il titolo Incontrar/si, come sempre a Villa Fiorelli, in un’edizione primaverile di 4 giorni tra l’1 e il 4 maggio; il tema di quest’anno, “Etica politica e poetica dell’incontro”, prendeva spunto dai percorsi di ricerca di Sara Ahmed all’incrocio tra postcolonialismo, femminismo, studi queer e fenomenologia. Nel suo ultimo libro, Queer Phenomenology: Orientations, Objects, Others, Ahmed esplora, in una prospettiva fenomenologica, il concetto di orientamento come dimensione spaziale e temporale di direzionamento dei corpi, dal punto di vista sessuale (orientamento sessuale) e razziale (l’“oriente” dell’orientalismo): azioni ripetute nel tempo determinano gli orientamenti sociali (genere, classe) all’interno dei quali esiste la nostra esperienza del mondo, orientamenti che definiscono le relazioni di distanza e prossimità, che ci rendono disponibili certi oggetti piuttosto che altri, che danno direzione ai corpi e ai desideri. Ahmed si focalizza in particolare sull’orientamento sessuale, e, giocando sul doppio significato del termine straight, analizza il modo in cui avviene l’allineamento, il rapporto tra il seguire una linea e le condizioni per l’emergere della linea stessa: il fatto che le linee siano state tracciate agisce performativamente su di noi indirizzandoci a seguirle. Allinearsi significa quindi riprodurre la linea, come nel caso dell’eteronormatività che riproduce la linea della genealogia, dell’eredità, della riproduzione. Ahmed auspica quindi una fenomenologia queer come dispositivo di disorientamento, non per trovare una nuova linea, ma per permettere all’obliquità di aprire un’altra angolatura sul mondo, rendere possibili cambi di direzione e nuovi orientamenti, che nel loro ‘tendere verso’ aprano nuovi futuri. Il disorientamento potrebbe forse aiutarci ad interrogare le forme dell’incontro sociale.

Sull’incontro Sara Ahmed aveva già riflettuto in Strange Encounters. Embodied Others in Post-coloniality, saggio del 2000, in cui l’autrice scandaglia il concetto di estraneità in relazione alla costruzione di comunità. Il “feticismo dello straniero” è il dispositivo tramite cui le comunità si autodefiniscono attraverso la costruzione di ciò che sta loro oltre: lo straniero è reso una figura astratta e universalizzata, tagliata fuori dalle storie che lo determinano, non è quello che non riusciamo a riconoscere, ma quello che abbiamo già riconosciuto come straniero. Questo vale sia per i discorsi securitari sul “pericolo stranieri”, che mirano a espellerlo in quanto origine del pericolo, che per i discorsi di inclusione del multiculturalismo e di esaltazione della teoria postcoloniale, che in egual modo lo “ontologizzano”, lo fanno diventare qualcosa che semplicemente “è”. Lo straniero è quindi un effetto dei processi di inclusione ed esclusione, incorporazione o espulsione, che costituiscono i confini di corpi e comunità. Anche il femminismo occidentale cade nella trappola del feticismo dello straniero, ad esempio quando universalizza il velo come simbolo dell’oppressione femminile, arrogandosi la possibilità che si possa “entrare nella pelle dell’altra”.

Ahmed propone una nuova etica dell’estraneità che ristoricizzi il processo di produzione dello straniero concentrandosi sulla modalità dell’incontro piuttosto che sullo statuto ontologico dell’altro/a che si incontra. Come spunto per il femminismo l’immaginazione di una politica basata su incontri più ravvicinati tra “altri altri”, incontri in cui il noi ancora non c’è, qualcosa non è rivelato; l’immaginazione quindi di una diversa forma di comunità politica che muova oltre l’opposizione tra comune e non comune, tra il medesimo e il diverso. Una comunità ancora a venire.

Partendo da questa ricchezza di spunti e profondità di analisi, il laboratorio ha proposto un dialogo transdisciplinare che ha attraversato, articolato, connesso i concetti di identità, alterità e comunità, immaginario e immaginazione, etica e politica, teoria e pratica, memoria e futuro. Sempre all’incrocio tra genere e intercultura. Ricostruire la ricchezza, complessità e coralità del dibattito è ovviamente impossibile, spero di riuscire almeno a restituire alcuni degli spunti che sono circolati tra noi, e tra i nostri corpi in incontro durante quelle quattro intense giornate.

Il percorso è partito dall’ambito concettuale della rappresentazione, tema della prima giornata affrontato in modi diversi dagli interventi di Anna Passarini e Renato Busarello. La riflessione di Anna era incentrata sulla relazione tra rappresentazione e identità a partire da un prodotto mediatico di cultura popolare: la serie statunitense The L World, la prima fiction che, incentrandosi completamente su una immaginaria comunità lesbica di Los Angeles (che fa però riferimento esplicito a codici e modelli di comunità reali), rappresenta una ecologia lesbica, un mondo dietetico in cui quasi tutti i personaggi sono donne lesbiche. È una comunità molto caratterizzata in termini di classe sociale, in cui il lesbismo si incarna in storie positive, modelli vincenti e di successo. La serie, con un continuo dispositivo metanarrativo e autoriflessivo, esplora i significati e i posizionamenti del gender, della razza, della classe. Anna si interroga sulla valenza politica del fatto che la serie offra identificazioni possibili, anche se non realistiche ma del desiderio, in una situazione di vuoto rappresentativo e stereotipi, se questo possa generare un cambiamento nella costruzione di sé in relazione ai codici di appartenenza di una comunità. La valenza trasformativa di un prodotto culturale di per sé organico al mainstream della comunicazione è stato oggetto di accesa discussione nel workshop che ha preso spunto dal lavoro di Anna: la visibilità o il mettere in agenda tematiche come i matrimoni tra lesbiche, la genitorialità lesbica, il transessualismo possono essere strumento di cambiamento? O prevale il carattere strutturalmente conservativo del sistema televisivo, la sua vocazione alla riproduzione dell’esistente? È una positiva iniezione di immaginario lesbico nella società o una normalizzazione e assimilazione che “allinea” le lesbiche sfruttandone il potenziale economico come target di consumo?

Anche Renato Busarello affronta il concetto di identità, partendo però dai percorsi politici antagonisti incentrati su pratiche di smarcamento dal maschile dominante, legate al desiderio di ridefinirsi rispetto ai ruoli di genere. Quanto di questo smarcamento viene riconosciuto politicamente, ad esempio dalle più recenti esperienze femministe, come la mobilitazione contro la violenza maschile sulle donne del 24 novembre del 2007? Il movimento gay negli anni ’70 ha sperimentato strategie di femminilizzazione, come ad esempio l’uso politico del travestitismo, che, attraverso lo marcamento dal maschile, volevano accedere al punto di enunciazione delle pratiche femministe. Oggi, di fronte alla violenza maschile contro le donne, alla deriva securitaria, alla diffusione del bisogno di identificazioni forti e di comunità fobiche, quali strategie immaginare? Il laboratorio “Smaschieramenti” promosso da Antagonismo Gay è una proposta che scommette sul desiderio maschile, gay ma anche etero, di abitare nuove configurazioni della soggettività, di smarcarsi dalla soggettività maschile dominante. La proposta è quella di un incontro tra i movimenti femministi contro la violenza maschile e altre soggettività che si sentono interpellate rispetto alla costruzione di quel maschile basato sulla violenza sessista e omofoba: Renato si appella a genealogie comuni per creare comunità, non le comunità normalizzanti del potere ma comunità queer aperte a chi abita spazi obliqui e pratica, evocando Ahmed, disallineamento, sganciamento dalla retta via. Anche chi è etero, in realtà, può vivere una vita queer!

Nel workshop del pomeriggio molti degli spunti di Ahmed si sono intrecciati all’intervento di Renato, aprendo una discussione collettiva che ha interrogato i significati e le valenze politiche di identità e soggettività, embodiment, relazioni di prossimità, comunità, meccanismi di esclusione, pratiche queer.

A chiudere la giornata l’incontro serale con la scrittrice Kaha Mohamed Aden, che ci ha guidate in un viaggio fatto di racconto, immagini, canzoni e stoffe sulle strade di una Mogadiscio metaforica: un percorso che attraversa, tra memoria, mito, storia, il passato degli scambi commerciali e culturali, il colonialismo, il socialismo, l’emancipazione femminile, la commistione tra culture, la dittatura, la guerra.

 

In apertura della seconda giornata del laboratorio gli interventi di Ambra Pirri e Anna Maria Crispino sulle narrative dell’alterità. Pirri ha proposto alcune delle elaborazioni degli studi postcoloniali, attingendo in particolar modo al pensiero di Devi e Spivak. Il colonialismo occidentale ha esercitato ed esercita tuttora sui colonizzati una violenza epistemica imponendo un sistema rappresentativo, valoriale, linguistico che, attraverso un esercizio di potere,  costruisce i suoi altri, li nomina, li definisce, li trasforma in oggetto di conoscenza, li colloca all’interno di una scala di umanità dove la norma è il maschio bianco occidentale. Anche il femminismo occidentale ha costruito l’altra come sorella meno fortunata rappresentando specularmente le femministe occidentali come soggetto di conoscenza, di salvezza e di aiuto. Che tipo di incontro si può allora fare con l’altra al di fuori dello stereotipo con cui la interpretiamo? come disimparare il proprio privilegio? come preparare l’irrompere dell’etico e interrompere l’epistemologico, il pensare di poter conoscere l’altro? la letteratura ci viene in aiuto con l’immaginazione, che ci permette di slittare dal conoscere al reimmaginare l’altro, aprendo lo spazio all’incontro: solo l’immaginazione ci dà la possibilità di stare in un altro luogo che non sia il sé, di pensare una pluralità di epistemi al posto di una monolitica alterità, di coniugare la ‘singolarità etica’, che ci mette in relazione di responsabilità con l’altro (in Spivak accountability come ‘raccontarsi e dare conto di quel che si è fatto’ e responsibility come ‘promettersi vicendevolmente’) con l’etica planetaria: se impariamo ad abitare il pianeta, piuttosto che il globo, emblema della riduzione ad unicum della globalizzazione, scopriremo che il pianeta appartiene ad un’altra specie, e che, abitandolo in un soggiorno provvisorio, ognuno di noi è un altro, fa parte di un altro mondo, parla un’altra lingua.

Ma se nella letteratura l’incontro con l’altro/a si può realizzare, rimane il nodo spinoso della traduzione: la critica femminista postcoloniale ha svelato il legame intimo tra lingua e potere, che si traduce nell’invisibilità della traduzione che cancella la lingua e la cultura in traduzione, che addomestica l’altro/a. Per entrare in relazione con il testo dell’altra e lasciare lo spazio perché parli la sua lingua – suggerisce Spivak – è necessaria l’istanza etica singolare, che permette di arrendersi alla traduzione, alla sua insopportabile alterità, in un rapporto erotico in cui non siamo noi a inventare l’altra ma incontriamo la sua infinita differenza.

Molte delle parole chiave e dei relativi nodi concettuali dell’intervento di Ambra ritornano in modo diverso nelle parole di Anna Maria Crispino, che propone alcune delle riflessioni di Rosi Braidotti nell’ultimo libro Trasposizioni da lei curato. Anche per Anna Maria la traduzione è uno dei nodi politicamente rilevanti: come negoziare la relazione con il pensiero di altri situati altrove? Il posizionamento etico è un nodo centrale: la traduzione richiede gesti di reciprocità, come ad esempio la collocazione: da che luogo mi parla l’altra? Da che luogo io l’ascolto? Non si può tradurre letteralmente un testo, occorre renderlo evocativo, mettere il pensiero dell’altra in un contesto che possiamo condividere.

Lo scemare del desiderio di trasformazione nelle società postindustriali pone per Braidotti l’urgenza di lavorare sul piano dell’etica per contrastare l’idea che sia insensato e impraticabile ogni progetto di cambiamento. All’esaltazione del “nuovo” della scienza e della tecnica si accompagna infatti paradossalmente la tendenza alla conservazione dell’esistente, in cui la politica diventa gestione dell’insicurezza e il consumismo penetra così in profondità da essere elemento stesso della soggettività: “compro dunque sono”. Di fronte al furto del nostro presente perpetrato dal capitalismo avanzato, che costruisce un futuro come ripetizione ossessiva senza differenza, abbiamo la responsabilità di creare la possibilità di pensare un futuro sostenibile, un futuro che sia esercizio di prefigurazione del cambiamento, da realizzarsi all’interno di comunità d’affetto elettive. La teorica del soggetto nomade vuole trasporre la sua teoria filosofica sul piano etico e politico: assumere come propria pratica una filosofia del divenire, materialista e nomade, attuando una ‘trasposizione’, un passaggio che non è semplicemente uno spostamento ma un salto. Braidotti usa la metafora del passaggio da una scala musicale all’altra, che crea dissonanze ma mantiene l’armonia e la riconoscibilità del motivo, o della mutazione genetica con cui si produce un salto all’interno della struttura cellulare che, senza distruggere la materia di partenza, crea una variabile alternativa.

Fabrizia Di Stefano, nel suo intervento del pomeriggio, ha offerto una prospettiva ancora diversa da cui leggere l’incontro, il punto di vista del “molteplice della differenza sessuale alla prova delle relazioni”. Partendo dal significato di “aiuto-contro” della figura della sposa nella Genesi, Fabrizia ripercorre la lunga tradizione di pensiero misogino che va dall’ebraismo al tardo cristianesimo, da cui deriva la fondazione simbolica del rapporto tra uomini e donne, il posizionamento della subordinazione, la donna come creazione seconda. Il femminile è emblematicamente responsabile della caduta nella figura di Sophia, che paga la sua tentazione autogenerativa mettendo al mondo il demiurgo, il creatore del mondo fisico, della materia. Dalla caduta viene la redenzione, il principio di riscatto e liberazione. La concezione della donna come creazione seconda è però entrata in crisi nella percezione stessa dei soggetti, in primis delle donne. Se il pensiero simmetrico è un pensiero delle superfici, l’asimmetria introduce invece una topologia dei soggetti: le figure del soggetto si moltiplicano facendo venire meno il binarismo uomo-donna.

È quindi il genere a introdurre il tema del molteplice sessuale. La transessualità può esistere perché trascende il genere sotto molti punti di vista. Come entra una transessuale nell’incontro, cosa resta? Fabrizia propone la chiave del desiderio: l’incontro è dare un posto dentro si sé al soggetto a cui si sta contro e, al contempo, dislocarsi sempre al di fuori di se stessi/e. E se una comunità può nascere dall’incontro, per Fabrizia, che non crede al soggetto incarnato, non sarà fraternità/sorellanza dei corpi ma dei discorsi, poiché, prima ancora del corpo, è il verbo che si incarna.

La giornata di sabato 3 maggio si apre con Federica Frabetti “Spettri del queer: la queer theory tra performatività e disorientamento”. Partendo da “Spettri di Marx” di Jacques Derrida, Federica propone la chiave di lettura della spettralità: lo spazio vuoto del futuro a venire, incalcolabile, in cui poter sperare una improvvisa promessa di inaspettato, sperare una speranza vuota. Gli studi queer sono luoghi di speranza vuota? Per Federica in questo momento sono luoghi di disorientamento, si sente obliqua rispetto ai temi degli affetti, dello spazio, dell’incontro e vuole riorientarsi, ma si può riorientarsi senza mettersi in riga?

Muovendosi tra Touching Feeling di Eve K. Sedwick, Affect, Imagery, Consciousness di Silvan Tomkins, la teoria degli atti linguistici di Austin e i testi di Sara Ahmed, Federica offre suggestioni sulla decostruzione dei dualismi, il recupero delle differenze qualitative nello spazio tra due e infinito, la possibilità dell’accanto in cui, oltre la gerarchia dei due e l’esclusione del terzo, molti possono convivere; ma solleva al contempo interrogativi sulla teoria e la sua inevitabile violenza, sulla linearità e violenza del queer stesso, sul paradosso di essere sempre linearizzate e sempre in eccesso rispetto alla linea.

Pescando dall’“archivio sciocco” dei cartoni animati di Judith Halberstam Federica ci propone come punto di convergenza di tutte queste riflessioni il personaggio di Dori: la pescia del cartone animato Nemo è infatti proposta come figurazione della “dimenticanza queer” (queer forgetting) in una conferenza che la Halberstam ha tenuto a Londra nel 2007, dal titolo "Losing Hope, Finding Nemo and Searching for Alternatives". La pesciolina Dori è smemorata, non riesce a ricordare, per lei il tempo semplicemente non è una risorsa, non sceglie la strada più breve tra due punti, non linearizza, corre continuamente dei rischi incalcolabili; Dori apre lo spazio a un futuro ‘mostruoso’, alla spettralità di una speranza senza contenuto, e ci suggerisce che anche se non c’è accumulazione di memoria comune è possibile un percorso comune senza comunione. Che sia lo spettro di una possibile allenza queer?

        Nonostante l’impegno per far sì che questa strada resti aperta, ricordiamoci che la comunità può esistere solo in decostruzione, che siamo sempre in eccesso rispetto a essa e che occorre essere consapevoli delle dinamiche di potere e di esclusione che la attraversano. Nell’assenza di miti fondativi e senza memoria a breve termine, che ne è però della memoria a lungo termine, della possibilità di comporre degli archivi? Gli archivi sono un ricordare testardo e implicano la dimenticanza perché sono legati a qualcosa che va perso e che è ricostruito in forma di tracce. Cos’è che spinge Dori a muoversi, attraendola verso Nemo, qual è la perduranza che permette che ci sia agire politico? Il desiderio, l’affetto, la condivisione di un obiettivo, la ricerca della felicità?

Clotilde Barbarulli riparte dal feticismo dello straniero di Ahmed, che le evoca la figurazione dell’alga: Fatou Diome, che si proclama straniera contro ogni identificazione e confine, vuole essere un’alga per non avere radici che portano a logiche di dominio ed esclusione. Non si è africani perché si è neri ed europei perché si è bianchi, non si può incollare un popolo ad una terra: un bianco è africano se condivide il destino di quel continente (Beyala). Clotilde denuncia come il vocabolario della lotta sociale sia stato sostituito da discorsi compassionevoli: parlare di disgrazia non ha effetti, si annullano la collera e l’indignazione per passare a sentimenti come compassione e pietà che non sono politici, non portano in sé nessuna istanza di trasformazione; anche Braidotti parla dell’apatia morale che inculca quei sentimenti di inefficacia e impotenza che non fanno agire politicamente. Ahmed critica il relativismo culturale, ma − ricorda Clotilde − è l’universalismo di ogni cultura che crea lo straniero. Criticando lo scontro di civiltà, Toni Maraini sottolinea che sono le persone che si scontrano, non le culture: il suo sentirsi “ospite dell’universo” potrebbe forse essere ciò che abbiamo in comune? Fare comunità significa mettere in gesti politici ciò che teorizziamo, ma la comunità è necessariamente precaria: nell’obliquità di Ahmed, Clotilde intravede appunto le comunità precarie affettive e politiche − di tutti/e quelli/e che, al di là dell’orientamento sessuale, non sono straight.

             Liana Borghi, nella ricerca di un terreno, accidentato, da condividere, e delle condizioni di un agire comune, ci propone un percorso che combina testi, figurazioni e persone: il pensiero nomadico transdisciplinare di Braidotti, che sottolinea il carattere sempre embodied e embedded dei soggetti ed invoca l’immanenza radicale e l’etica della sostenibilità per disintossicarci dalle promesse di perfettibilità delle tecnologie neoliberiste; il progetto di Paul Gilroy di riposizionare le differenze sessuali e gli embodiments nella cultura contemporanea; la trasformazione delle passioni negative in passioni positive, che genera un cambiamento positivo della prospettiva, resistenza, empowerment, “affetto etico”; le figure di resistenza di Teresa De Lauretis. La micropolitica è un percorso irrinunciabile della nostra politicizzazione: quando Ahmed parla del feticismo dello straniero racconta anche una sua storia, un piccolo esempio di agire politico. Come sciogliere allora il pregiudizio del feticismo dello straniero, questa narrativa che colora in un certo modo l’etica e la politica dell’incontro? Liana propone, tra l’in e il contro, la figurazione della native informant, che sta nel mezzo dell’incontro, secondo Trinh, T. Minh-Ha, come persona che per esercitare traduzione e mediazione deve costantemente muoversi, essere dentro e fuori di sé. Possiamo allora immaginare un luogo in cui la disponibilità dell’altro e la mia si incontrano, dove ognuno è native informant rispetto alla diversità dell’altra? Ahmed offre al femminismo il suggerimento di riconoscere quali oggetti, di conoscenza e non solo, possano essere utili per il nostro orientamento politico, ci propone il disorientamento della fenomenologia queer come nuova prospettiva sul mondo, ci forza a pensare le nostre scelte in modo inequivocabile e al contempo perfettamente equivocabile, ci invita a veder sempre nella nostra vita i “segni di meraviglia del possibile”. La politica queer deve guardare indietro alle sue origini rifiutando l’eredità, tracciare linee per una diversa genealogia, per vivere in altro modo il mondo.

Il percorso del laboratorio si conclude con il contributo di Sara Ahmed, un’analisi della costruzione sociale della felicità attraverso una lettura fenomenologica del film Sognando Beckham, che ne decostruisce il discorso multiculturale: il conflitto generazionale tra una famiglia di indiani sikh emigrati a Londra e la figlia Jess, che desidera giocare a calcio come Beckam, viene rappresentato come un conflitto tra quello che richiedono le culture, connotate come spazi affettivi opposti rispetto alla promessa della felicità. La promessa della felicità allinea la felicità personale al bene sociale, dirige le nostre vite verso gli oggetti che, nella percezione comune, costituiscono il bene sociale. Jess identifica la felicità nel giocare il gioco nazionale, il calcio, emblema dell’inclusione nella nazione (non a caso spazio di prossimità al bianco); il multiculturalismo felice ci comunica il film − può realizzarsi estendendo la libertà ai migranti, a condizione però che essi abbraccino il suo gioco e si liberino dal dolore del razzismo.

 Impossibile linearizzare la lettura della mappa concettuale elaborata collettivamente alla fine di questo intenso percorso, dove l’incontro si situa all’incrocio tra una pluralità di parole chiave, discorsi, pratiche e prospettive: in stretto collegamento con il desiderio, il corpo e lo sguardo, l’affettività, in equilibrio tra i due poli concettuali, e relativi grumi di connessioni semantiche, della soggettività e della comunità, l’incontro, nel suo porsi anche come conflitto e nel suo essere in relazione problematica con l’addomesticamento, il paradigma securitario, la violenza e la normatività straight, è costitutivamente politica (queer?). Nei panni di una pescia di nome Dori.

Elisa Coco


 

Francesca Manieri

L’intimo rapporto tra essere e agire

 

Esistono parole che nella loro stessa ossatura contengono qualcosa di inquietante, di perturbante. Incontro è una di queste. “In-contro” una parola che, se scomposta nelle sue parti originarie risulta intimamente ossimorica, una parola che testimonia della fatica, come ricorda Fabrizia Di Stefano, di dare spazio, dentro al soggetto, o dentro ciò che di esso residua, al “contro”.

Il laboratorio svoltosi a Prato presso Villa Fiorelli aveva per titolo Incontrarsi: etica, politica e poetica dell’incontro.  Soggettività, discipline e saperi diversi si sono ritrovati “faccia a faccia”, per così dire, in un reciproco confronto che, lungi dall’eludere eventuali punti di conflitto, ha reso possibile l’intrecciarsi di percorsi differenti, in un cortocircuito ricco di contaminazioni. Si potrebbe pertanto dire che la pratica attuatasi ha coinciso perfettamente con il tema che essa aveva il fine di indagare. Proprio questa non casuale coincidenza tra ciò che si pratica e ciò su cui si discute, costituisce il frutto più prezioso del percorso di Villa Fiorelli. Del resto si dà come concettualmente impossibile una discussione sull’incontro che non preveda preliminarmente, come sua condizione di possibilità, l’accadere, o meglio il prodursi di quell’incontro stesso.

Complesso è risultato, e risulta adesso, discutere dell’incontro alla luce di una contingenza storica e politica  in cui con tutta e sempre crescente evidenza, l’incontro viene negato, bandito, precluso sia come pratica, sia come orizzonte di ogni agire politico. Forse proprio in ragione di questa progressiva delegittimazione di ogni pratica dell’incontro, il tentativo di riflessione condotto all’interno del laboratorio assume oggi un valore ancora maggiore. Come il nuovo testo di Rosi Braidotti Trasposizioni sottolinea, viviamo in un periodo in cui il desiderio di giustizia sociale e di cambiamento stanno scemando, in cui dietro il proclama della morte dell’ideologia si nasconde in realtà la presa di potere delle forze conservatrici che postulano come impossibile ogni forma di cambiamento, in cui la vocazione tecnologica per il nuovo si coniuga alle più barbare forme di reazione, in cui tornano con forza a materializzarsi inquietanti fantasmi del passato. Proprio in questo momento risulta indispensabile la possibilità di pensare un futuro, un futuro che sia sostenibile sia su piano individuale che su piano collettivo.

Incontrarsi è stata una grande pratica di immaginazione, un tentativo di visualizzare e costruire sentieri possibili e non predefiniti di un divenire incarnato e sostenibile, anche accettando con coraggio di ripartire da un futuro che, per dirlacon Derrida, come Federica Frabetti ci ha invitato a fare, o è mostruoso, o non è niente. Un futuro che si delinei come lo spazio di una speranza vuota, al cui interno sia però possibile tracciare sentieri nuovi, che ci consentano di accogliere l’altra/o nelle nostre vite come un ospite inatteso che ci sorprende e dal cui contatto siamo sempre e continuamente formate/i e riformate/i nella certezza che, come ha sottolineato  Sarah Ahmed “questi altri non possono essere semplicemente relegati al di fuori: dato che il soggetto viene ad esistere come entità soltanto attraverso incontri con altri, l’esistenza del soggetto non può essere separata da quella degli altri che incontra.”

Così configurato, l’incontro è stato indagato e praticato non come atto in sé ma come effetto sfuggente di ciò che lì, in quell’atto, in quel momento, si produce, poiché, per dirla ancora con Ahmed, “l’identità stessa è costituita nel “più di uno” dell’incontro: designare un “io” o un “noi” richiede un  incontro con gli altri”. A tema è stata dunque tanto la possibilità, quanto la modalità dell’incontro come processo sempre aperto e imprevedibile che necessita per il suo attuarsi di un’opzione ineluttabilmente etica, che smascheri il feticcio drammatico dello straniero, dell’altro, per giungere a un incontro ravvicinato che ci consenta di arrivare a quelli che sono “altri” dall’altro, dallo “straniero” che siamo noi svestiti. Questa azione, o meglio questo attivismo come ricordano sia Ahmed, sia Gayatri Spivak, consente e obbliga ad uscire dal dualismo binario della scissione tra teoria e pratica, si impone come strada che forza le violenze insite in un approccio centrato ed epistemico alla realtà, “questo tipo di attivismo implica un rapporto intimo tra agire e scrivere (per esempio, nella costituzione di ‘piattaforme di azione’) e ipotizza un rapporto intimo fra ontologia e politica, tra essere e agire”(Ahmed). Questo renderebbe possibile il prorompere dell’etico: il rendersi disponibili all’ascolto, al contatto scardinando ogni logica oppositiva che contrappone amici ed estranei, identici e diversi, sulla quale è con forza e violenza plasmato il senso comune. Regno dell’etica che si palesa come rete delle responsabilità, responsabilità sia come promessa vicendevole dell’ascolto che sostiene ogni possibilità reale di un dialogo, sia come rendicontazione di sé, delle proprie azioni che ci consente lo smarcamento dal privilegio che abitiamo, la possibilità di disimpararlo (Spivak), riconoscendo che il privilegio in realtà altro non nasconde al suo centro che un ennesimo vuoto, il vuoto prodotto dalla perdita dell’altro/a.

Incontrar/si è stato il tentativo di tracciare un sentiero tra percorsi, soggettività, pratiche politiche diverse, un sentiero “non allineato, obliquo”,  non battuto, un sentiero che non inizia e finisce nell’incontro di quei giorni, ma che decostruisce un interno orizzonte di preteso senso per produrne faticosamente un altro, mobile, non fondato su criteri e norme di inclusione ed esclusione, ma sulla fatica dell’ascolto, dell’incontro, sull’interrogazione della materialità fragile propria ed altrui. Un sentiero che oggi come non mai chiama noi tutte e tutti a una responsabilità incarnata che non dia tregua al flagello della violenza e a ogni indifferenza che nel sottenderla la rende possibile.

 

 

pubblicato su Leggendaria, 70 (settembre 2008)