Incontrar/si:

etica, politica  e poetica dell’incontro

Laboratorio di  genere e intercultura

Villa Fiorelli, Prato – Parco di Galceti 1-4 maggio 2008

Alcune notizie

 Sara Ahmed insegna studi culturali e sulla razza al Goldsmiths College (U. London), all’intersezione fra teoria femminista, teoria postcoloniali e studi queer: “Mi interessa il modo in cui la differenza, l’alterità e l’estraniamento diventano “proprietà” dei corpi attraverso azioni, parole, percezioni, sentimenti, giudizi.  Il mio primo libro, Differences that Matter  [Differenze che contano] (1998) suggerisce che le differenze contano in quanto effetti delle relazioni di potere ed esplora l’intersezione tra differenze nella costruzione delle identità. In Strange Encounters [Strani incontri] (2000), esamino come gli altri vengano razzializzati nel momento che vengono riconosciuti come stranieri, come “corpi fuori luogo”, nei vicinati, nelle comunità e nazioni. Più specificamente, il libro esplora quello che chiamo “il feticismo delle figure”, investigando come la figura dello “straniero” acquisisca vita propria. The Cultural Politics of Emotion [Politica culturale delle emozioni] (2004) considera come le emozioni implichino orientamenti differenti verso oggetti e altri, formando la superficie di corpi individuali e collettivi. Nel mio libro più recente, Queer Phenomenology [Fenomenologia queer] (2006), indago su come  gli orientamenti influiscano sul modo in cui i corpi abitano tempo e spazio. Ri-pensando all’”orientamento” nell’”orientamento sessuale” e all’”oriente” dell’orientalismo, offro una esplorazione filosofica e personale di come i corpi vengano diretti da “cosa” vengono in contatto.”

Libri:  (in stampa) The Promise of Happiness. Duke University Press; (2006) Queer Phenomenology: Orientations, Objects, Others Duke Univ. Press; (2004) The Cultural Politics of Emotion Edinburgh Univ. Press Routledge; (2003) Uprootings/Regroundings: Questions of Home and Migration (co-edited with Claudia Castaneda, Anne-Marie Fortier and Mimi Sheller). Oxford: Berg; (2001) Thinking Through the Skin (co-edited with Jackie Stacey). London: Routledge; (2000) Strange Encounters: Embodied Others in Post-ColonialityLondon: Routledge; (2000) Transformations: Thinking Through Feminism (co-edited with Jane Kilby, Celia Lury, Maureen McNeil and Beverley Skeggs) London: Routledge; (1998) Differences that Matter: Feminist Theory and Postmodernism Cambridge Univ. Press. Vedi inoltre <www.goldsmiths.ac.uk/media-communications/staff/ahmed.php>

 

Clotilde Barbarulli (Consiglio Nazionale delle Ricerche - Opera del Vocabolario italiano di Firenze), è impegnata nelle associazioni femminili (Il Giardino dei Ciliegi; Associazione Rosa Luxemburg) e nel gruppo misto Libera Università “Ipazia”. Collabora con recensioni ed articoli a LeggereDonna. Presso Luciana Tufani ha pubblicato i seguenti libri con L Brandi: I colori del silenzio. Strategie narrative e linguistiche in Maria Messina (1996, 2a ed. 2001); L'arma di cristallo. Sui 'discorsi trionfanti', l'ironia della Marchesa Colombi (1998). Con Brandi e U. Ceccoli, "Un volto, tra le note per oboe" (Saggio su "Lavinia fuggita" di Anna Banti), nei Quaderni del Dpt. di Linguistica dell'Università di Firenze, 1998. Con il gruppo "Parola di donna" del Giardino dei Ciliegi La finestra, l'attesa, la scrittura: ragnatele del sé in epistolari femminili dell'800, Tufani 1997.

Fra le altre pubblicazioni: “Si prega di non discutere di Casa di Bambola” in: Farnetti Monica (a cura di ), Canonizzazioni, Adriatica 2002;  “La parola senza genere per domestici conforti” in: Botta Anna, Farnetti Monica e Rimondi Giorgio ( a cura di), Le eccentriche. Scrittrici del Novecento, Tre Lune 2003; “Rosa Luxemburg e Luise Kautsky” in: C. Barbarulli e M. Farnetti (a cura di), Tra amiche: Epistolari femminili fra Otto e novecento, Nuova Prosa 2005;  “La porta, invito di Alice…” in: L. Borghi e U. Treder (a cura di) Il globale e l’intimo, Morlacchi 2007.  Dal 2001 organizza insieme a Liana Borghi il Laboratorio interculturale “Raccontar(si)” (Villa Fiorelli, Prato) ed ha pubblicato: “L’immaginario nell’erranza delle parole: scritture migranti in lingua italiana”, in C. Barbarulli e L. Borghi ( a cura di), Visioni in/sostenibili, Cuec 2003; insieme a L. Brandi, “Raccontar(si) tra lingue e culture: l’identità, il caos, una stella…” in: L. Borghi e C: Barbarulli (a cura di), Figure della complessità. Genere e intercultura, Cuec 2004;  “Farfalle morenti, respiro dell’utopia: le parole dell’alterità” in: C. Barbarulli e L. Borghi (a cura di), Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura, Cuec 2006.

 

Liana Borghi è docente presso l’Università di Firenze. Per dieci anni socia impegnata nella Libreria delle Donne di Firenze, dal 1985 una delle due responsabili della casa editrice Estro, dal 1994 è co-responsabile della divisione lesbica di W.I.S.E. (Women’s International Studies Europe), e dal 1996 socia fondatrice della  Società Italiana delle Letterate, e referente per l’Università di Firenze di ATHENA, la rete tematica europea Socrates di women’s studies. 

Ha lavorato e pubblicato su Mary Wollstonecraft e Jane Austen, l’etica sociale dell’Ottocento, donne viaggiatrici, e la scrittura femminile.  Il suo interesse per la cultura contemporanea si estende dalla poesia di Adrienne Rich, di cui ha tradotto due volumi, alla narrativa lesbica contemporanea, e alle scrittrici ebree americane.  Dopo aver tradotto per Feltrinelli Il manifesto cyborg di Donna Haraway, ha rivisto e curato per questo editore anche il volume Modest_Witness@Second_Millennium.  Ha curato con Rita Svandrlik S/Oggetti Immaginari: Letterature comparate al femminile (Urbino: QuattroVenti 1996), un volume di  22 saggi sulla letteratura comparata al femminile, e purtroppo senza di lei un secondo volume, Passaggi: Letterature comparate al femminile (Urbino: QuattroVenti, 2002). Ha curato e introdotto Difetto d’amore,  traduzione di At Fault, di Kate Chopin (Ferrara: Luciana Tufani Editrice, 1998). Negli ultimi sette anni ha dedicato gran parte delle sue energie  all’organizzazione di Raccontar(si), un  Laboratorio estivo sui temi dell’intercultura. Tre raccolte degli interventi presentati al Laboratorio sono  uscite a cura sua e di Clotilde Barbarulli:  Visioni in/sostenibili.  Genere e intercultura (Cagliari: CUEC, 2003). Forme della complessità. Genere, precarietà e intercultura. (Cagliari: CUEC, 2004) Forme della diversità. Genere e intercultura (Cagliari: CUEC, 2006). È appena uscito, a cura sua e di Uta Treder, Il Globale e l’intimo. Luoghi del non ritorno. (Perugia: Morlacchi, 2007).

 

Renato Busarello, attivista gay/queer/autonomo. Nato a Trento nel 1972, emigrato a Bologna dal 1991. Laureato in Scienze politiche. Prima attivista di movimento, dal 1999 ho partecipato alla costituzione del collettivo antagonismogay, che riprende il percorso autonomo del movimento gay-lesbico-trans-queer .

Mi sono occupato della costruzione di reti sociali, della produzione e messa in comune di saperi e pratiche di trasformazione sociale a partire dal quotidiano e dalla decostruzione del dispositivo di sessualità vigente. 

Tra queste la rete GLBTQ, il progetto Queerforpeace, rete di sostegno alle soggettività glbtq in Palestina, il coordinamento

Facciamo Breccia su laicità e autodeterminazione.

Sono intervenuto sulle questioni relative alle nuove politiche di genere, alle forme di vita, relazione affetto nelle società postfordiste, 
alle biotecnologie e all’omofobia/xenofobia su Towanda!, Carta, Queer-Liberazione e a vari convegni tra cui: “Gay, lesbiche, trans e neoliberismo” 
al Social Forum Europeo di Firenze nel 2002 (atti del workshop, Finisterrae, Verona, 2004); “Diversità geniale” al polispazio queer di Firenze nel 2004, 
“Outlook. Tendenze lesbiche 2005” a Prato, “Neoliberismo e ordine morale” al Social Forum Europeo di Parigi, tema ripreso al convegno 
“Ogni cittadinanza è possibile” a Verona nel 2006. A Firenze ho partecipato sul tema “Il genere e i suoi altri” ai “Dialoghi sulla diversità”, 
corso di formazione per operatori interculturali coordinato da Liana Borghi. Attualmente lavoro con il collettivo antagonismogay al laboratorio 
Smaschieramenti, di cui parlo in questo seminario, discutendo del desiderio (del) maschile: dal soggetto del dominio ai molteplici divenire-altro 
che attraversano il genere maschile.

 

 Anna Maria  Crispino, socia fondatrice della Società Italiana delle Letterate, redattrice della rivista Leggendaria, scrittrice e traduttrice, dirige una collana per l’editore Iacobelli.  Ha tradotto varie opere della filosofa Rosi Braidotti e ultimamente ha curato  il suo volume Trasposizioni (Sossella 2008).

 Fabrizia Di Stefano, saggista, si occupa di teorie del soggetto all'incrocio fra filosofia e psicanalisi. Ha in preparazione uno studio sulla teoria queer.  

Federica Frabetti studia e insegna al Goldsmiths College di Londra, dove si occupa di Media e di Cultural Studies con particolare riferimento allo studio delle tecnologie digitali. E’ interessata anche al pensiero sul postumano, a queer and gender studies e alla teoria culturale. Collabora a Culture Machine, rivista on-line di cultural theory:
http://culturemachine.tees.ac.uk/  
Tra le sue pubblicazioni,  (2004) Voce  ‘Postumano’  in M. Cometa, Dizionario di Studi Culturali (A Dictionary of Cultural Studies), a cura di R. Coglitore e F. Mazzara, Milano: Meltemi; (2004) ‘Bots, Norns, Sims e altre specie. Storie di vita artificiale’ (‘Bots, Norns, Sims and Other Species. Artificial Life Stories’; in Italian) in Liana Borghi, Clotilde Barbarulli (a cura di) Figure della complessità. Genere e intercultura (Figurations of Complexity. Gender and Interculture), Cagliari: CUEC. 
Paper e seminari  recenti: ‘Is Technology Legible? For a Deconstructive Reading of Software’, presentato alla U. of East London, ‘Contexts, Fields, Positions: Situating Cultural Research’ Conference, 26.05.2006; ‘Writing the Printed Circuit: Language and Materiality in Information Technology’, seminario all’interno della serie ‘convergence emergence divergence’ alla U. of East London, 10.05.2004; ‘Manifesto for the Future of Feminist Technoscience’, presentato alla U. of Surrey, ‘Future of Feminist Technoscience’ Seminar Series, 06.02.2004;  ‘Material Metaphors and Performativity in Software Design’, presentato alla Masterclass ‘Computing the Human’ con la Prof. N. Katherine Hayles (UCLA), a The Netherlands Research School of Women’s Studies (NOV), Utrecht (The Netherlands), 11-12.11.2003; "Technology Made Legible: A Cultural Study of Software as Writing in the Theories and Practices of Software Engineering", presentato a Re-Mediating Literature,Utrecht U., 4-6 luglio 2007, in corso di stampa nel volume Writing Across Media, Minnesota U.P.

Anna Passarini ha trascorso gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza negli Stati Uniti, per poi tornare in Italia a laurearsi alla Sapienza in Scienze della Comunicazione. Attualmente lavora alla American University of Rome, collabora con la casa di produzione Mutiverse LLC come autore e producer, con la cattedra di Analisi della Fiction alla Sapienza di Roma e con le riviste Fitnews e NERO. Recentemente ha scritto e realizzato L Word Confidential, uno speciale in due puntate sulla serie televisiva The L Word, andato in onda su Jimmy.

 Vincenza Perilli, ha scritto per il fascicolo di Zapruder, dedicato a “Storie in movimento” (maggio-agosto 2007) il saggio ”L’analogia imperfetta. Sessismo, razzismo e femminismi tra Italia, Francia e Stati Uniti”, in cui spiega come la sua ricerca sulla problematica articolazione delle categorie di ‘sesso’ e di ‘razza’ sia l’esito di un percorso non solo di studio/ricerca, ma anche politico e personale. Dopo una tesi in filmologia sull’Orlando di Sally Potter, tratto dall’omonimo romanzo di Virginia Woolf, ha girato un documentario a New York sulla comunità italoamericana con il Videogiornale, gruppo nato dalla Pantera.  Ha poi collaborato alla rivista “Altreragioni”, e discussa la tesi nel 2001 a Paris VII su “Le couple égalité/différence dans le féminism italien”. Fra i suoi saggi: “L’innocenza di Eva” Altreragioni n. 8, 1999;  con M. Leonelli “Nuovo? No, lavato con Perlana. Delle procedure di riciclaggio nel paese del trasversalismo reale”, Invarianti n. 35, 2001;  “La difference sexuelle et le autres”, l’Homme et la Société, n. 158, 2005, “sexe et race dans les féminisnes italiennes. Jalons d’une génealogie, in J. Falquet, E. Lada e A. Rabaud (a cura di), (Ré)-articulation des rapports sociaux de sexe, classe et race: repères historiques et contemporains, Collection du Cedref, 2006.

 Ambra Pirri, laureata in sociologia, Master in Women’s Studies, giornalista, ha lavorato a Paese Sera e al Giornale di Sicilia  e ha collaborato con numerose riviste e giornali  (Quaderni Siciliani, Rinascita, L’indice del libro, Il quotidiano donna, Lotta continua, Il Manifesto, DWF, Leggere donna). Ha studiato alla San Francisco State University con Inderpal Grewal e all'Università della California, a Santa Cruz, con Teresa De Lauretis. Si occupa di ricerche sul gender, sul femminismo e sulla teoria post-coloniale. Per la casa editrice Filema curala collana di femminismo post-coloniale “Altrimondi” il cui obiettivo è di pubblicare storia, storie e studi femministi post-coloniali attraversando i confini disciplinari e mettendo in relazione generi diversi come letteratura e critica letteraria.

I suoi consigli di lettura per il workshop:

Mahasweta Devi, Gayatri C. Spivak, La trilogia del seno, trad. e cura di Ambra Pirri, Filema, Napoli 2005;  Invisibili, trad. e cura di Ambra Pirri, Filema, Napoli 2007.

Mahasweta Devi, La cattura, trad. e cura di Federica Oddera, Theoria, Roma-Napoli 1996;  La preda, trad. di Babli Moitra Saraf e Federica Oddera, Einaudi, Torino 2004.

Gayatri C. Spivak, In Other Worlds, Routledge, Londra 1988;  Morte di una disciplina, trad. di Lucia Gunella, Meltemi, Roma 2003; Tre esercizi per immaginare l’altro, in “aut-aut”,  329,  gennaio-marzo 2006, trad. e cura di Davide Zoletto.

Goffredo Polizzi studia linguistica italiana e civilita' letteraria contemporanea  all'Universita' di Bologna. Ha ricevuto nel 2006 una borsa di studio per la frequenza di corsi presso l'Universita' della California, Santa Cruz, dove ha partecipato ai seminari di Teresa De Lauretis, Wlad Godzich e Nathaniel Mackey. Ha analizzato, per il lavoro di tesi triennale, alcuni episodi di censura letteraria nel novecento italiano, come il processo a Pier Paolo Pasolini per "Ragazzi di vita" e quello a Pier Vittorio Tondelli per "Altri Libertini". Fra i suoi progetti, uno studio dedicato alla 'riscrittura per eccesso' del corpo nell'opera narrativa di Pasolini. Lavora "precariamente" come traduttore e insegnante d'inglese e italiano. Dal 2007 fa parte del collettivo antagonismogay.

 

 

[continua …]


 

 

Abbiamo invitato Sara Ahmed perché ci sembra necessaria la sua presenza anche per il nostro discorso femminista e queer.  Riportiamo qui una introduzione al suo discorso dell’incontro: la troverete  familiare  ma non del tutto.  Abbiamo tradotto anche  un testo più lungo, “Verso una fenomenologia queer”, tratto dal suo recente volume sull’argomento. Lo troverete sul nostro sito appena pronto. Anche l’intervento che Ahmed leggerà sabato 3 maggio, in anticipo sul suo prossimo libro, è in fase di traduzione e verrà distribuito durante il laboratorio.

Strange Encounters.  Embodied Others in Post-Coloniality [Strani incontri.  Altri e corpi nella post-colonialità] (Routledge, London, 2000); recensione originale di Paul Cooke reperibile in internet

La traduzione e  le ampie aggiunte scelte dal testo di Ahmed sono di liana borghi la quale vi prega di notare che nell’inglese stranger,  “straniero” ed “estraneo” spesso si sovrappongono; qui, per chiarezza, li troverete talvolta entrambi, uniti da una barra.

 

La collana “Trasformazioni” di Routledge ha pubblicato di recente vari saggi interessanti sulla teoria postcoloniale. Strange Encounters di Sara Ahmed è un nuovo contributo ricco di stimoli. Mentre tradizionalmente il postcoloniale si è occupato del concetto dell’ ‘Altro’ in rapporto allo statuto ontologico del soggetto, Ahmed mette invece a fuoco il concetto sostanzialmente più fluido dello “straniero”.  Attraverso il prisma dei discorsi femministi e postcoloniali, esplora le tensioni e contraddizioni implicite nella strumentalizzazione della “estraneità” nella produzione di embodiment (incarnazione, incorpamento) e nella comunità.

In apertura, il libro esamina il fenomeno che Ahmed definisce “feticismo dello straniero”.  Partendo dalla metafora dell’alieno in incontri ravvicinati,… mostra come le comunità costruiscano ciò che sta loro “oltre”, una mossa utile per autodefinirsi. Ahmed sostiene che l’alieno “non è semplicemente quello che non siamo riusciti ad identificare (l’UFO), ma quello che già abbiamo identificato come alieno: l’alieno recupera tutto ciò che sta oltre l’umano nella singolarità di una data forma (p. 2).

Il saggio continua analizzando il concetto di “feticismo dello straniero” per  evidenziare quanti aspetti sociali dipendono da un processo che rende lo straniero una figura astratta e universalizzata: “Il feticismo dello straniero è un feticismo di figure: investe di vita propria la figura di uno straniero in quanto taglia fuori ‘lo straniero’ dalle storie che lo determinano.” (p. 5, corsivo  di Ahmed).

Non sono interessata ai libri sugli alieni… ma quando ritorno al mio titolo mi vengono pensieri alieni.  Mi interrogo sulle condizioni in cui è possibile scrivere di questi altri “strani incontri” come di incontri con chi si trova oltre la categoria dell’”umano”. Mi sembra sintomatico che uno strano incontro venga descritto come l’incontro con qualcuno che è, letteralmente, non di questo pianeta.

L’alieno, d’altronde, è tanto sovra-rappresentato nella cultura popolare da diventare perfettamente riconoscibile... D’altra parte, l’assenza o la presenza dell’alieno ci spinge a riconoscere che i limiti della rappresentazione eccedono la “nostra” conoscenza. … Scoprire forme aliene diventa un dispositivo per affermare l’umanità del “noi”: dobbiamo essere capaci di dire (vedere, odorare, toccare) la differenza…. Come possiamo dire la differenza tra un alieno e uno che passa per alieno? Come possiamo impedirci di diventare alieni? Possiamo diventare alieni per conoscere meglio gli alieni?... Gli incontri con gli alieni sono incontri corporei, incontri in cui il muco scivola sulla  pelle… Il nostro disgusto per l’abiezione delle forme aliene ci permette di contenere noi stessi.  Con un brivido e un tremito sottraiamo le mani: è un incontro ravvicinato…. Ma d’altra parte l’alieno è fonte di fascino e desiderio… Quello che si gioca nell’ambivalenza dei rapporti tra umano e alieno non è rappresentare  gli alieni come buoni o cattivi, oppure “oltre” o “dentro” l’umano, ma farli funzionare in modo da stabilire e definire i confini di chi siamo “noi” nella loro prossimità, nell’intimità del rapporto tra muco (alieno) e pelle (umana)….

L’alieno è dunque solo una categoria dentro una comunità di cittadini o soggetti: al suo interno acquista una funzione spaziale in quanto estraneo, stabilendo relazioni di prossimità o distanza dentro casa o patria. Gli alieni ci portano a demarcare spazi di appartenenza: quando si avvicinano troppo a casa alimentano la necessità di pattugliare i confini dei territori che conosciamo e abitiamo…. La figura dello “straniero” viene prodotta attraverso strani incontri, e diventa non quello che non riusciamo a riconoscere, ma quello che abbiamo già riconosciuto come “straniero”.  Riconoscendo quello che non conosciamo, che è diverso da “noi”, diamo carne a chi sta oltre, gli diamo volto e forma. …  Lo straniero alieno non è dunque qualcosa  oltre l’umano, ma è un dispositivo per consentirci di affrontare quello che abbiamo già designato come qualcosa che sta oltre.  Così, immaginare qui ed ora che abbiamo di fronte un alieno straniero, ci permette di condividere la fantasia che, nella presenza congiunta di alieni e stranieri, saremo noi a prevalere. …

 

[Sul feticismo dello straniero]

Ma questo non è un libro sugli stranieri (alieni). E’ un libro che cerca di mettere in questione l’assunto che esista un’ontologia degli stranieri, che sia possibile essere semplicemente uno straniero, o imbattersi in uno straniero per strada. Per evitare questa ontologia, dobbiamo non dare per scontato che uno straniero possa avere lo statuto di figura.  Lo straniero è chiaramente configurato in una varietà di discorsi, incluse la prevenzione del crimine e la sicurezza personale dovute al “pericolo stranieri”.  In questo discorso, che  delinea chiaramente sicurezza e pericolo, lo straniero è sempre una figura che perlustra le strade: certi corpi sono semplicemente stranieri e la loro co-presenza in una data strada rappresenta un pericolo.  Saper dire la differenza tra stranieri e vicini di casa è l’assunto di base per  i programmi di sorveglianza dei quartieri, e serve a nascondere forme di differenza sociale… Ma questa differenza non si risolve solo accogliendo “lo straniero”, dando per scontato che lo straniero sia una figura con una integrità linguistica e corporea….[feticismo dello straniero] Il multiculturalismo può funzionare se “lo straniero” viene assimilato come figura dell’inassimilabile, e mentre il “pericolo dello straniero” funziona per espellere lo straniero in quanto origine del pericolo, il discorso multiculturale potrebbe invece operare accogliendo lo straniero come origine della differenza.

[….]  In questo libro considero anche l’assunzione dello straniero da parte di certa recente teoria postmoderna. La  figura dello straniero è stata presa per rappresentare tutto quello che la modernità aveva  escluso o delegittimato, con la sua fiducia nell’ordine, nel medesimo, nella totalità (Bauman 1993, 1975). La figura dello straniero è diventata cruciale: non più considerato  una minaccia per la comunità, è diventato un monito per le differenze che dovremmo celebrare. Zygmunt Bauman per esempio raccomanda che l’estraneità postmoderna “venga protetta e amorevolmente preservata” (1977: 54). Tuttavia Strange Encounters contesta l’idea che amare lo straniero stia alla base di un’etica dell’alterità, oppure di una  forma non-universalistica di attivismo politico. Queste mosse teoriche che  rifiutano di considerare pericoloso lo straniero possono contrastare il discorso del “pericolo straniero”, ma allo stesso tempo danno per scontato che lo straniero sia una figura che contiene o possiede un significato. Questa attribuzione di figurabilità nasconde la determinazione storica già cancellata dai discorsi sul pericolo straniero…. Il feticismo dello straniero è un feticismo di figure: investe di vita propria  la figura dello straniero proprio  separando “lo straniero” dalle storie della sua determinazione. Dobbiamo perciò tener conto delle relazioni sociali (fantastiche e materiali) occultate dal feticismo dello straniero.

La celebrazione dello straniero come figura paradigmatica  del postmodernismo investe nell’estraneità in quanto condizione ontologica, e nello straniero come avente una vita tutta sua. … quindi  assume che gli stranieri abbiano una natura. Sebbene quella natura non venga più rappresentata come pericolosa, questa argomentazione continua ad ontologizzare lo straniero, lo fa diventare qualcosa che semplicemente è. (p. 5) [….]  [Lo straniero non causa soltanto effetti ma è esso stesso un effetto]… Dobbiamo capire come l’identità venga stabilita attraverso incontri tra estranei senza produrre un universo di stranieri… (p. 6)

 

[Incontri]

Suggerisco che possiamo evitare di rendere lo straniero un feticcio  -- cioè evitare di accogliere o espellere lo straniero in quanto figura che ha una sua identità linguistica e corporea – esaminando i rapporti sociali impliciti in questo stesso feticismo. Dobbiamo cioè considerare come lo straniero sia un effetto dei processi di inclusione ed esclusione, incorporazione o espulsione, che costituiscono i confini di corpi e comunità, incluse le comunità dei viventi ( stanziali o migranti)  e le comunità  epistemiche.

L’identità stessa è costituita nel “più di uno” dell’incontro: designare un “io” o un “noi” richiede un incontro con gli altri.  Questi altri non possono essere semplicemente relegati al di fuori: dato che il soggetto viene ad esistere come entità soltanto attraverso incontri con altri, l’esistenza del soggetto non può essere separata da quella degli altri che incontra. Perciò l’incontro è ontologicamente precedente alla questione dell’ontologia (la questione dell’essere che incontra).

Negli incontri [faccia-a-faccia, occhio-a-occhio, pelle-a-pelle] quotidiani con gli altri, i soggetti vengono perpetuamente ricostituiti: il lavoro di formazione dell’identità non finisce mai, ma lo possiamo considerare uno scivolare dei soggetti quando incontrano gli  altri. (p. 7)

Per evidenziare la feticizzazione, Ahmed esamina vari discorsi sociali connessi, in termini di esclusione e inclusione, all’incontro con estranei.  Nella prima parte discute il concetto di “pericolo dello straniero” usato dai progetti inglesi per la “Vigilanza nei quartieri” [Neighbourhood Watch]. Secondo l’autrice, le comunità dipendono dal riconoscere come estranei gli estranei – dimostrazione di quanto le comunità stesse siano fragili e si sentano in crisi. Utilizzando la tesi di Althusser sull’interpellazione, vediamo che anche nominare l’estranea/o ed espellerla/o dal vicinato la/o include nella struttura. Questo processo di implicazione dimostra come la paura dell’estraneo sia un impulso necessario alla costruzione di vicinati:

Per costituire comunità è necessario che il potenziale comunitario fallisca. Decretare l’esistenza di confini  per coloro che già vengono riconosciuti come fuori binario (inclusi altri residenti) permette la costruzione di questi confini. Costruire la comunità ‘ideale’ costa fatica, ma è il potenziale del suo  fallimento che presiede alla costituzione di una comunità. (p. 26, corsivo  di Ahmed)

Costruire comunità è al cuore dei progetti sulla vigilanza nei quartieri. In questi progetti si crea un legame inestricabile fra riconoscere un estraneo e costruire spazi sociali “sani” e “puri”, e Ahmed analizza in modo particolarmente interessante la natura deliberatamente vuota di gran parte del linguaggio usato dai documenti ministeriali. Leggiamo per esempio la sua analisi del termine “sospetto”:

Il buon cittadino non viene informato su come considerare sospetta una cosa o una persona. Non fornire tecniche di differenziazione mi sembra di per sé un modo di far conoscere:  attraverso il discorso della vigilanza nei quartieri si produce la tecnica del senso comune. Il senso comune non solo definisce cosa “noi” dovremmo dare per scontato (cioè quello che già è normalizzato e assodato), ma implica la normalizzazione dei modi di “sentire” la differenza tra ciò che è comune e ciò che non è comune. Non viene data informazione su come distinguere tra normale e sospetto, perché la differenza già si “sente” per via di una storia pregressa del fare senso in quanto fare senso del “comune”. […] Quindi la vigilanza di quartiere si occupa di fare il comune: fare la comunità. (p. 29, corsivo  di Ahmed)

Ahmed continua ad esplorare la costruzione dello straniero come qualcosa di riconoscibile, qualcosa che, lungi da essere fuori di sé o altro da sé, è contingente al sé. Nella sezione sul tatto, discute come l’estraneo viene prodotto attraverso una dialettica di prossimità e distanza. Nella parte sull’embodiment, suggerisce che “sono corpi estranei quei corpi che nell’incontro vengono temporaneamente assimilati all’ignoto: funzionano da confine che definisce sia lo spazio che un corpo famigliare non può attraversare, sia lo spazio dove questo corpo si pone come fosse di casa” (p. 54).

Questa prima sezione termina esaminando come la teoria postcoloniale abbia contribuito a posizionare lo straniero come una figura-feticcio. Esplorando in particolare la disciplina etnografica, Ahmed mostra come la necessità etnografica di tradurre l’esperienza dello straniero in forma comprensibile al mondo accademico occidentale possa condurre all’appropriazione dello straniero.  Qui l’analisi di Ahmed prende le distanze dall’approccio tradizionale al problema (che si chiede chi abbia il diritto di parlare per il soggetto postcoloniale) ponendo invece la domanda: “in che modo l’atto di parlare già riconosce  ‘lo straniero’  come interno o esterno a una certa comunità?” (p. 61), ovvero, com’è che anche il postcolonialismo costruisce e marginalizza l’estraneità? A questo proposito Ahmed riporta l’episodio in cui la femminista australiana Diane Bell ha citato una indigena australiana, Topsy Napurrula Nelson, come co-autrice di un dibattito sullo stupro tra la popolazione aborigena[1].

Nella seconda parte del saggio Ahmed riprende il discorso sull’appropriazione e manipolazione dello straniero nel contesto del capitalismo globale, continuando a decostruire le concezioni ontologiche dello straniero attraverso l’esame dei processi con i quali si produce tale ontologia.

Cosa significa essere a casa? Lasciare casa, come influisce sulla casa e il sentirsi-a-casa? Nella storia di Dhingra, il luogo famigliare, comodo e confortevole, è lo spazio-tra, l’intervallo, l’aeroporto.  Questo spazio conforta non perché si è arrivati, ma perché si ha la sicurezza della destinazione, una destinazione che  diventa letteralmente l’esistenza della casa da-qualche-parte. La casa non è qui un luogo specifico dove si abita, ma più di un luogo: tante case ci danno spazio, troppe per garantire le radici e i percorsi della nostra destinazione. Non è che il soggetto non appartenga in nessun luogo, dato che il viaggio tra case fornisce al soggetto i contorni di uno spazio di appartenenza, ma questo spazio esprime proprio la logica dell’intervallo, il suo passaggio attraverso momenti di partenza e arrivo solo apparentemente fissi. […] (p. 77)

La narrativa del lasciare casa produce troppe case e quindi nessuna Casa, troppi luoghi a cui si attaccano i ricordi ritagliandosi spazi abitabili, quindi nessun luogo dove la memoria possa permettere al passato di raggiungere il presente (dove il “sé” può dichiarare di essere arrivato a casa). Il movimento tra case permette alla Casa di diventare un feticcio, di separarsi dal particolare spazio del vivere qui, attraverso la possibilità di certi ricordi e l’impossibilità di altri. In questo viaggio narrativo lo spazio che più assomiglia alla casa, quello più comodo e famigliare, non è lo spazio dell’abitare – io sono qui – ma lo spazio dove uno si sente quasi, ma non del tutto, a casa.  In questo spazio il soggetto ha una destinazione, un itinerario, persino un futuro: avendo questa destinazione ancora non è arrivato. […] La casa è da-qualche-parte; certo è altrove, ma è anche là dove il soggetto sta andando.  La casa diventa l’impossibilità e la necessità del futuro del soggetto (non ci si arriva mai, ma ci si sta sempre arrivando), anziché il passato  che lega il soggetto a un dato luogo. (p. 78)

Il fatto che non abitando un dato luogo (= essere-a-casa) si possa abitare la posizione di straniero, crea una forma di universalità basata  sul rifiuto del luogo stesso, delle relazioni mondane che contrassegnano terreni abitabili. Come possiamo leggere le narrative migranti senza dare per scontata la figura dello straniero? Anzi, come possiamo narrativizzare le soggettività migranti senza ridurre “lo straniero” a qualcuno che potremmo semplicemente essere noi, un soggetto che nel momento di perdere casa sua viene candidato all’universalità?

In questo capitolo intendo esaminare l’effetto del movimento transnazionale delle genti sulla formazione dell’identità, ma senza presumere l’ontologia dello straniero. […] Per interrogare le esperienze di straniamento mediate e vissute, il loro rapporto con la formazione di comunità e la ricostruzione della casa, dobbiamo indagare il modo in cui migrazione e casa sono state teorizzate…. Certo, nel libro di Ian Chambers, Migrancy, Culture, and Identity, la migrazione diventa un modo per interrogare non soltanto i diversi rapporti sociali prodotti dalle storie di dislocazione dei popoli, ma la natura stessa dell’identità.  La migrazione è un viaggio tra i tanti che comporta l’attraversamento di confini: il migrante come l’esule e il nomade, attraversa confini e abbatte le barriere di pensiero ed esperienza (Chambers 1994: 2).

Nel lavoro di Chambers, migrazione, esilio e nomadismo non si riferiscono solo all’esperienza di essere allontanato da casa, ma diventano modi di pensare senza casa […] Vedrò in seguito come questa narrativa costituisca la casa come un luogo fisso, ma qui mi sembra importante osservare che la migrazione diventa un meccanismo per teorizzare come l’identità stessa dipenda dal movimento o dalla perdita.  Cosa è in gioco in questa narrativa?

Tanto per cominciare, possiamo considerare come tipi diversi di viaggio vengano sovrapposti quando si teorizza l’identità come migranza. Nel testo di Chambers, lo spostamento tra le figure del migrante, il nomade e l’esule serve a cancellare differenze reali e sostanziali tra le condizioni in cui avvengono particolari movimenti attraverso confini spaziali. Per esempio, quale diverso effetto ha sull’identità essere costretti a muoversi? Ci si muove liberamente? Quali movimenti sono possibili e quali impossibili? Chi ha il passaporto e può recarsi laggiù? Chi non ha il passaporto eppure si muove? Queste domande provocatorie fanno eco ad Avtar Brah quando lei domanda: “Non è solo questione di chi viaggia, ma quando e come, e in quali circostanze?” […] Come afferma Uma Narayan, “La realtà globale postcoloniale è una storia di migrazioni multiple, radicate in una quantità di diversi processi storici.” (1997:187) […]

In questi trattamenti metaforici della migrazione, essa viene equiparata a un movimento trasgressivo che destabilizza la costruzione di confini. […] Tuttavia, è problematico sovrapporre migrazione e trasgressione di confini  per arrivare a sostenere l’impossibilità di arrivare a una identità: si presume che la migrazione abbia un significato inerente; si costruisce una essenza della migrazione al fine di teorizzare la migrazione come rifiuto di una essenza. […]

Il lavoro di Chambers, che a un dato livello ha come oggetto di studio la “migranza” si autodefinisce esempio di un teorizzare autenticamente migrante, un  teorizzare che rifiuta di pensare in termini di identità fisse. Anche nel lavoro di Rosi Braidotti che privilegia la figura del “nomade”, è evidente l’aspirazione verso una teoria migrante, multipla e trasgressiva dato il suo dislocamento da un sicuro luogo sicuro di origine. Braidotti spiega che “sebbene l’immagine dei ‘soggetti nomadi’ si ispiri all’esperienza di popoli e culture che sono letteralmente nomadiche, il nomadismo si riferisce qui al tipo di coscienza critica che resiste modalità socialmente codificate di pensiero e comportamento…. E’ il sovvertimento delle convenzioni che definisce lo stato nomadico, non l’atto letterale del viaggiare” (1994: 5). Di nuovo è importante il rapporto tra letterale e metaforico.  Separando dal nomadismo letterale quello che intende per nomadico, Braidotti traduce il letterale in metaforico, così che i nomadi vengono a rappresentare qualcosa che non sono. Si allude alla specificità della differenza di particolari popolazioni nomadi (in quando ispirazione), e poi la si cancella (in quanto non è l’atto letterale del viaggiare). La cancellazione di differenze culturali ottenuta figurando il nomade come un modo generico di pensare, diventa un’auto-coscienza critica: alla fine, il nomade viene a configurare quel tipo di  sovvertimento delle convenzioni che il libro si propone.

Definire nomadica una teoria può definirsi una violenza della traduzione, ovvero una forma di traduzione che permette alla teoria di autodefinirsi sovversiva delle convenzioni – la cancellazione di altri permette al “sé”, in quanto “coscienza critica”, di appropriarsi degli elementi di minaccia nel segno del nomadico. In realtà è in gioco qui un certo soggetto occidentale, soggetto di teoria e in teoria, un soggetto libero di muoversi (Ahmed, 1992: 17) […] Abbiamo quindi  bisogno di complicare la narrativa che legge come necessariamente trasgressivo il movimento, e di esaminare come tipi diversi di movimento siano accessibili a soggetti che già sono differenziati. (pp. 82-83) […]

I contributi di due presidenti dell’associazione Global Nomads International (GNI),  pubblicati nel libro Strangers at Home, ci aiutano a  considerare come alcuni movimenti migratori comportino forme di privilegio, e a pensare l’identità non soltanto in termini di trasgressione. [In uno degli interventi, è la mancanza di casa piuttosto che condividere la casa a creare affinità, a espandere il concetto di casa; nell’altro l’abilità di soggetti migranti di decostruire e muoversi oltre i confini culturali.] Se si rifiuta di appartenere a un particolare luogo, il mondo diventa la casa globale del nomade, e permette al soggetto nomade di abitare il mondo come un terreno famigliare e conoscibile.  Rivendicare la proprietà dello spazio globale attraverso il rifiuto di identificarsi con uno spazio locale abitabile comporta nuove forme di cittadinanza per il GNI, che io definirei cittadinanza global-nomadica. Qui la cittadinanza non dipende dai diritti e doveri di un soggetto che abita dentro lo stato-nazione, ma viene prodotta da un soggetto che si muove attraverso lo spazio e i confini nazionali. (85) […]

Non tutti i soggetti nomadi sono implicati in relazioni di privilegio e nella creazione di nuove identità globali dove il  mondo diventa casa, ma ritengo che forme di viaggio, migrazioni e movimenti non siano necessariamente collegati alla trasgressione e destabilizzazione dell’identità.  La ricerca sui viaggi di migranti dovrebbe esaminare non solo come la migrazione metta in questione l’identità,  ma come possa renderla un feticcio sotto il segno della globalità. Il presupposto che lasciare casa, emigrare o viaggiare significhi sospendere i confini spaziali entro i quali l’identità diventa vivibile, nasconde complessi rapporti contingenti di antagonismo che conferiscono ad alcuni soggetti la facoltà di muoversi liberamente a spese di altri. (p. 86)

 

In un’altra sezione particolarmente interessante, Ahmed analizza la formazione delle comunità migranti, dove è proprio l’estraneità a forgiare legami:

Formare comunità attraverso l’esperienza condivisa di non essere pienamente a casa – di aver abitato un altro spazio – presuppone l’assenza di un terreno condiviso: fare comunità rende apparente la mancanza di una identità condivisa che permetterebbe alle forme di prendere una sola forma. Ma questa mancanza viene reiscritta come pre-condizione di un’azione. […] Il processo di estraniamento è la condizione per l’emergere di una comunità contestata, una comunità che “crea un luogo” nell’atto stesso di rivolgersi al “fuori luogo” di altri corpi migranti. (p. 94)

Ahmed tratta poi la manipolazione della retorica del multiculturalismo in Australia, discutendo come il governo si appropri delle differenze per cancellarle, e così facendo riaffermi il potere e i valori dell’egemonia. In Australia, sostiene, il multiculturalismo viene ridotto al concetto di accettare “la diversità culturale”.[2]  Questo permette all’elite governativa di reinventare “’la nazione’ sui corpi degli stranieri” (p. 95), dato che questa forma di multiculturalismo “esclude qualsiasi differenza metta in questione i presupposti valori universali su cui si fonda quella cultura. O per meglio dire, il discorso ufficiale del multiculturalismo implica che le differenze si riconcilino attraverso quella stessa struttura legislativa che storicamente ha definito neutri e universali i valori occidentali.” (p. 110, corsivo  di Ahmed)

Nel capitolo finale della seconda parte, Ahmed analizza il consumo della cultura dello straniero nella società multiculturale occidentale, e ispirandosi a “Mangiare l’altro”, il saggio di bell hooks sulla esotizzazione della differenza, esplora come l’etnia venga trasformata in oggetto di consumo per il soggetto occidentale:

L’etnia diventa una spezia o un gusto da consumare, da incorporare nell’esistenza di una persona  che si muove tra luoghi (dove si mangia).  Le differenze da consumare sono quelle che contano: la differenza conta in quanto può essere incorporata non solo nello spazio della nazione ma anche nel corpo individuale […]. Implicitamente, non hanno valore le differenze che non possono essere assimilate nella nazione o nel corpo attraverso il consumo. (pp. 117-8, corsivo  di Ahmed)

Nella terza parte del libro, Ahmed muove oltre il concetto di feticismo dello straniero per formulare una nuova etica dell’estraneità proponendosi, tra altre cose, di ri-storicizzare il processo di produzione dello straniero/estraneo.  Partendo dalla richiesta  di Levinas di proteggere “l’alterità dell’altro” (p. 140), Ahmed colloca l’incontro con lo straniero in una più ampia prospettiva filosofica. Di nuovo sostiene che il punto cruciale è la modalità dell’incontro, piuttosto che lo statuto ontologico dell’altro che si incontra. Così facendo propone un’etica che affronta dialetticamente sia l’incontro specifico con un particolare estraneo, sia il concetto di universalismo implicito in questo tipo di incontri.

Infine Ahmed  si chiede come possa essere applicato al discorso femminista il concetto di estraneità. Qui insiste che si debba tenere conto della tendenza da parte delle istituzioni occidentali (in questo caso l’istituzione del femminismo ‘internazionale’) ad universalizzare la propria esperienza e a parlare per tutti, specificamente per tutte le donne. Di conseguenza sostiene che anche il femminismo cade nella trappola del feticismo dello straniero, atto verificabile se si esamina l’attacco delle femministe occidentali, al ‘purda’ (il velo) che molti occidentali considerano un segno dell’oppressione femminile a cui dare significato universale:

[…]

Tuttavia, l’universalismo può essere letto come una fantasia di prossimità.  Perché, a un certo livello, leggere “la donna velata” come una donna oppressa e controllata sessualmente nasconde la fantasia che si possa abitare il posto dell’altra, che già si sappia cosa significhi “l’altra” (e quindi di cosa abbia bisogno).  Oppure, per dirla diversamente, l’enfasi sul torto universale del ‘purda’ (e l’assunto che il diritto delle donne sia quello di ‘non portare il velo’), implica la fantasia che si possa ‘entrare nella pelle dell’altra’ (e parlare per lei). (p.166)

D’accordo con Spivak, Ahmed considera questa una posizione molto controversa. Tuttavia, diversamente da Spivak, conclude che il progetto del femminismo non è indagare su ‘chi parla’, ma piuttosto capire come incontriamo chi parla. Conclude dunque che la differenza dovrebbe essere vista come una dinamica produttiva, piuttosto che come qualcosa da superare  o semplicemente accettare:

Quello che chiedo, sia esso contro l’universalismo o contro il relativismo culturale, è una politica basata su incontri più ravvicinati, incontri con quelli che sono altri dall’’altro’ o dallo straniero/estraneo’ (‘noi svestiti’). Questa politica presume che ‘azione’ ed ‘attivismo’ non possano essere separati da altre forme di lavoro: sia che il lavoro differenzi occupazioni (globalizzazione come lavoro), modi di parlare (ad altri, con altri), o persino modi di stare al mondo. Questo tipo di attivismo implica un rapporto intimo tra agire e scrivere (per esempio, nella costituzione di ‘piattaforme di azione’) e ipotizza un rapporto intimo fra ontologia e politica (tra essere e agire).  Pensare a come lavorare o parlare con altri, oppure a  come abitare il mondo insieme ad altri, richiede di immaginare una diversa forma di comunità politica, che muova oltre l’opposizione tra comune e non comune, tra amici ed estranei, tra il medesimo e il diverso.

Una tale politica basata su incontri tra ‘altri altri’ è inscindibile dall’assunzione di responsabilità – dal riconoscere che i rapporti (faticati) tra altri sono sempre costitutivi della possibilità di parlare o di non parlare. Una politica dell’incontro è più vicina se permette alle differenze fra di noi—differenze di potere e di antagonismo --  di fare differenza nell’incontro stesso. Le differenze tra di noi richiedono dialogo e non il contrario: dobbiamo dialogare proprio perché non parliamo la stessa lingua.

Per rendere possibile una forma diversa di politica collettiva è necessario avvicinarci agli altri in modo tale da non appropriarci del loro lavoro come fosse ‘mio’, o delle loro parole come fossero ‘mie’.  Il ‘noi’ di questa politica collettiva non sta già alla base del nostro lavoro collettivo, ma è quello per cui dobbiamo lavorare. Nella fatica di starci più vicine, di parlarci, di lavorare l’una per l’altra, ci avviciniamo  anche agli ‘altri altri’.  In questi atti di allineamento (piuttosto che di immedesimazione), possiamo ridisegnare la forma corporea della comunità, farne una comunità ancora a venire. 

Ci si incontra, si ha un incontro ravvicinato, quando succede qualcosa di sorprendente, un incontro dove ‘noi’ formiamo un’alleanza proprio attraverso il processo di disturbo causato da quello che ancora non c’è.  Non si tratta di una comunità di estranei o di amici. E’ piuttosto una comunità dove veniamo sorpresi da coloro che sono già assimilati come stranieri in un’economia globalizzata della differenza (la spazializzazione del lavoro).  In altre parole, un incontro ravvicinato è sempre uno strano incontro, dove qualcosa non è rivelato. Si possono formare comunità femministe transnazionali attraverso strani incontri, lavorando su quello che non si riesce ad inserire in una identità collettiva (per esempio, la ‘donna globale’),  cioè rielaborando quello che potremmo ancora avere in comune. (pp. 180-81, corsivo  di Ahmed)


 

 


 


[1] Per un ulteriore contestualizzazione del dibattito, vedi anche Lisa Marie Buccella, “’What’s the Difference’. The Politics of Difference in Feminist Representation” (2006) http://www.athabascau.ca/courses/engl/492/feministessay.doc e Cynthia Townley,  Toward a Revaluation of Ignorance”, Hypatia - 21,  3, 2006, pp. 37-55.

[2] Vedi anche  Sara Ahmed,Elaine Swan (2006) “Introduction”. Doing Diversity, Policy Futures in Education, 4 (2), pp. 96-100; e Sara Ahmed, “Doing Diversity Work in Higher Education in Australia. Educational Philosophy and Theory, 38, 6, 2006.