Smail Aïssa Kouider, Reggae e Raï dal “Terzo Pianeta”

 

By RasWalter

 

La musica “di genere”, almeno in Italia, sopperisce alla sua scarsa Smail Kouider Aissapromozione e “commercializzazione”, con una genuinità sicuramente sconosciuta al mondo della musica pop. Questo perché, da sempre, i protagonisti di suoni come il reggae, la musica etnica o un certo tipo di rap, sono persone “vere”: anche quando raggiungono un certo grado di successo, rimangono essenzialmente persone con storie di vita vissuta, reale, da raccontare. Questa “privilegio” è negato ad altri generi più “ricchi”, laddove è troppo facile parlare di saggezza, libertà, giustizia e diritti, senza averne pagato il prezzo sulla propria pelle.

In quest’occasione, vogliamo raccontare la storia particolare del cantante algerino Smail Aissa Kouider, che sul finire degli anni Ottanta/inizio anni Novanta è stato uno dei protagonisti della nascente scena “alternativa” italiana, fatta di concerti, serate nei centri sociali a favore degli immigrati, dancehall e pionieristici programmi radiofonici. Oggi Smail alterna la sua militanza nel gruppo multietnico di successo dei Third Planet, alla gestione del suo ristorante a Firenze, “La Lanterna Blu”. Con lui abbiamo ripercorso trent’anni di vita di un immigrato in Toscana, una storia “felice”, non senza diversi spunti di riflessione.

Prima di trasferirsi in Italia lei era già un cantante di successo in Algeria?

Sì, ero conosciuto come interprete di musica popolare, il Chabbi. Erano i canti folkloristici delle campagne, che andavano per la maggiore. Non erano ancora i tempi del Rai (genere reso popolare da Kahled ndr) che invece parlava di giovani, alcol, donne e libertà.

Quindi lei non ha fatto parte del movimento Rai?

No, perché mi trasferii in Italia già nel 1974. Il Rai è esploso negli anni Ottanta. Comunque è un genere che ho fatto mio, condividendolo e apprezzandolo.

Un genere che in Algeria è stato spesso osteggiato…addirittura il celebre cantante Cheb Hasni fu ucciso…

Sì, nel 1994, mi pare. Fu un duro colpo per tutti noi, artisti e non solo. Ma non so dire, ancora oggi, se fu ucciso per motivi politici o altro.

Torniamo a quando si trasferì in Italia, cosa la spinse a lasciare il suo paese?

Motivi di studio. Volevo studiare cinema, cosa che ho fatto, e mi sono iscritto ad un istituto tecnico di Firenze. Terminati gli studi tornai in Algeria per lavorare nel settore, ma c’era il monopolio di Stato sul cinema, e non si poteva lavorare in libertà, c’era poco lavoro. Partii nuovamente alla volta di Firenze, dove iniziai a lavorare nel mondo degli spot pubblicitari. Ne realizzavo la musica.

Come entrò nella scena reggae/world fiorentina?

Abitavo in una zona di Firenze vicino al centro sociale Flog dove si suonava spesso. Noi musicisti ci conoscevamo un po’ tutti allora, e di volta in volta nascevano nuove collaborazioni. A quell’epoca io ero il leader di un gruppo chiamato Kas, era una band nata in Italia, ma ottenemmo un discreto successo in Algeria, tramite le cassette che realizzavamo.

Avevate anche un riscontro in denaro?

In Algeria sì, certo. Avevo una specie di studio di registrazione domestico, e realizzavo cassette di musica rock nordafricana fatta in Italia. Cantavo dei problemi dell’immigrazione, all’epoca la vedevo nera. Queste cassette le spedivo in Algeria e lì ero sempre al primo posto in classifica.

A quel punto lei realizzò per il mercato italiano, insieme al musicista elettronico fiorentino Ludus Pinsky, lo storico “Village Criers”, un disco di reggae, Rai e musica africana. Un album che, se fatto qualche anno più tardi, avrebbe ottenuto molto più successo.

Certo. Il disco fu concepito nel mio studio e poi prodotto a Pisa da Ludus Pinsky. All’uscita dell’album fummo invitati da Red Ronnie al suo “Roxy Bar”, andammo su Rai Sat e Teleregione. Realizzai anche dei videoclip per la tv algerina, dove il disco fu anche trasmesso da alcune radio. Fu così che con la Ludus Dub Band facemmo due/tre anni di concerti in giro per l’Italia.

Sul disco c’erano anche canzoni del camerunese Luois Bonaventure Hell, che fine ha fatto?

Vorrei saperlo anch’io. Tempo fa lo cercavo, c’erano dei tizi che lo volevano per delle serate in Africa, ma non sono riuscito a trovarlo. Ancora oggi mi chiamano dal mio paese per suonare, ma oramai sono bloccato qui e pertanto spesso ci mando altri artisti di mia conoscenza.

A che punto nacque il gruppo dei Third Planet?

Subito dopo l’esperienza con la Ludus Dub Band. Fui contattato dal mio amico Nazar del Kurdistan, e demmo vita a questo gruppo multietnico che ci ha dato tre album -di cui due con la CNI- e tante soddisfazioni.

Adesso il progetto è un po’ fermo perché il nostro Maurizio Dami, alias Robotnik, sta ottenendo talmente tanto successo come DJ elettronico all’estero, che aspettiamo che si fermi un po’ per dedicarsi anche ai Third Planet. 

La sua carriera di cuoco e ristoratore quando nasce invece?

Sempre in Italia. Mi pagavo gli studi lavorando, poi, dieci anni fa ho aperto il mio Laguna Blu.

Vengono a mangiare anche dei cantanti?

Certo, tutti gli amici della scena reggae fiorentina, Jaka, il Generale eccetera. Una volta capitò Piero Pelù che venne in cucina per conoscermi. Voleva facessimo un progetto insieme per una sua nuova etichetta che poi però mi pare cedette ad altri o cose del genere.

In generale cosa può dirci della sua esperienza in Italia e della situazione attuale, per quanto riguarda la convivenza fra gruppi culturali diversi?

Attualmente direi che siamo fermi al palo. Siamo in sala d’attesa: o si continua a far entrare la gente, o sarà difficile tornare indietro. Ma per il futuro sono ottimista, le cose andranno meglio per gli Italiani e gli immigrati insieme. Io in trent’anni in Italia raramente ho dovuto affrontare il problema razzismo.

Crede che la musica possa servire davvero ad abbattere certe barriere?

Assolutamente sì. E’ quasi una cosa scientifica. Vede, suonando in giro con i Third Planet, spesso abbiamo incontrato la diffidenza del pubblico. Il mio collega indiano e quello kurdistano vestiti in abito tradizionale a volte hanno suscitato questa reazione. Ma poi succede che inizi a suonare, e la gente piano piano si scioglie. Alla fine si diventa un solo gruppo di persone che suonano, ballano e ridono insieme. Ecco che le differenze si annullano e si diventa amici.

Lei che musica ascolta di solito?

Mi piace tutta la musica. In auto, per andare al ristorante, ascolto sempre la musica classica. Mio padre accordava i pianoforti, era l’unico in Algeria, e spessissimo mi portava ai concerti. Mi ha insegnato tantissime cose, ed oggi spero di trasmetterle a mio figlio.

Segue anche l’attuale scena Rai?

Beh, sicuramente. Ci sono tantissimi giovani artisti veramente bravi. Il Rai non è solo Kahled, a cui va comunque il merito di aver fatto amare questa musica, che era di per sé una cosa difficilissima.