Agostino tardoantico
 
Agostino d’Ippona fra tardoantichità e medioevo
A proposito degli indirizzi storiografici
1. Premessa
In questa nota mi restringerò a tre punti: a) una sintetica rassegna della storiografia agostiniana del secolo scorso, che ha visto la contrapposizione fra medievisti e tardoantichisti; b) alcune note comparative su Agostino e il medioevo; c) una discussione sul significato del dibattito storiografico e sulle conseguenze delle diverse scelte operate.

2. La storiografia agostiniana del secolo scorso
Nella presente sintesi seguirò soprattutto tre figure emblematiche: Troeltsch, Gilson e Marrou. La più tradizionale è stata la rilettura dell’Ipponense in chiave medievalistica, e di essa è esponente emblematico Gilson. Essa è in particolare caratterizzata dal fatto che dà origine a una manualistica nella quale Agostino è il primo degli autori medievali, al di là del fatto che si usi esplicitamente o no l’aggettivo.
La seconda, più innovativa, appare già nel 1915 con lo studio Augustin, die christliche Antike und das mittelalter, di Ernst Troeltsch (1865 - 1923). Avendo assimilato il pensiero di Dilthey e di Weber, venne progressivamente a maturare l’idea che un autore debba essere letto nel contesto culturale nel quale è vissuto e si è espresso. Ciò lo portò da un lato a teorizzare la necessità di una rilettura di Agostino in chiave tardoantica; da un altro a polemizzare con gli esponenti di un diverso orientamento; e una premessa teoretica della sua polemica è la revisione dei criteri di periodizazzione, da lui ritenuti troppo rigidi.
Fra Troeltsch e Gilson si trova Marrou, che lentamente, ma con decisione via via più chiara, passa da una posizione prossima al secondo a una più affine al primo. Una rassegna di questo itinerario si ha in Franco Bolgiani, «Decadenza di Roma o tardo antico?» in La storiografia ecclesiastica nella tarda antichità, Messina 1980. Riassumo: il titolo del primo studio marrouiano, S. Agostino e la fine della cultura antica, sembrerebbe già alludere a una collocazione non medievalista dell’Ipponense. E in effetti l’Autore è polemico verso i classicisti della Sorbona, per i quali all’età aurea greco-romana segue immediatamente la decadenza medioevale. In questo modo diventava troppo facile identificare i due fenomeni della decadenza e della cristianizzazione, e Marrou reagisce.
Tuttavia nota Bolgiani che in questa prima opera il tardo antico è ancora decadente, e “Agostino gli si presentava come un «letterato della decadenza»” (p. 553): quindi l’enfasi è sull’inizio del medioevo, nella medesima prospettiva di Gilson “…in quel momento Marrou riconduceva il suo discorso ancora essenzialmente nei termini delle periodizzazioni tradizionali” (ivi, p. 558). “«Agostino, diceva {Marrou}, è assai più vicino a Dante che a Cicerone […] il suo ideale non è più tributario dell’antica paideia. […]»” (ivi, p. 558). Ancora nel 1938 l’illustre storico resta su posizioni analoghe: “Il passaggio” dalla civiltà romana a quella medievale con Agostino “si è già compiuto” (ivi, p. 559), benché ora l’idea sia quella di una funzione di transizione: “…la cultura di Agostino nell’insieme «non era né antica né medievale, ma l’una e l’altra insieme: riassume il passato e anticipa l’avvenire»” (ivi, p. 559).
Nella Retractatio, però, Marrou è già in vista dell’approdo: quella di Agostino ora è una terza età, diversa tanto dall’epoca classica che dalla decadenza (cfr. p. 564). E nel 1956 al Simposio internazionale di storia della civiltà musulmana, (Bordeaux) egli relativizza il concetto di decadenza del tardo antico “facendo ricorso soprattutto a testimonianze artistiche” (ivi, p. 556). La dottrina si precisa poi nell’opera postuma, dove egli periodizza il mondo antico in quattro epoche: “un’età protostorica […] un’epoca storica antica, quella della polis greca; un’epoca ed un’area ellenistica (da Alessandro Magno a circa gli anni ’20 - ’30 del III secolo d.C.)” e infine l’epoca seguente comprensiva dei “secoli IV - VI d.C., con momenti di anticipazione nel III secolo e con prolungamenti, non uniformi” da regione a regione “fino al VII - VIII secolo” (Bolgiani cit. pp. 538 - 539). Di fatto l’itinerario di Marrou riassume e anticipa quello più vasto della storiografia storica, che sempre più decisamente riconoscerà l’importanza di considerare il Tardo Antico come un’epoca degna di una periodizzazione propria.
E se, almeno paragonata alle storiografie storica e filosofica, quella teologica non ebbe mai il problema del Tardo Antico; a differenza della storiografia storica, quella filosofica presenta per tutto il secolo scorso un’inerzia di ostacolo al superamento delle posizioni iniziali.

3. Discontinuità fra Agostino e il medioevo
Le cesure fra l’Ipponense - e dunque il suo pensiero, la sua sensibilità, il suo essere uomo e cristiano - e il pensiero, la sensibilità e il modo di intendere l’essere uomini e cristiani dell’epoca successiva sono molte, come del resto non sono pochi gli elementi di continuità. Essendo essi già stati ampiamente sottolineati dalla critica, soprattutto filosofica, mi soffermo solo sulle prime, che mi paiono più trascurate. La mia indagine sarà limitata a tre soli punti.

3.1. L’ecclesiologia
L’ideale sacerdotale di Agostino diverge da quello medioevale: per lui i chierici devono vivere comunitariamente, seguendo lo stile apostolico. Occorreranno secoli prima che quest’idea riemerga, e tutt’oggi non solo manca una diffusa teologia del sacerdozio che ne sviluppi a fondo la dimensione comunitaria; ma ciò che per Agostino era sostanziale, resta accidentale, supererogatorio.
Agostino fu vescovo contro voglia. Per delineare il significato di una tale riluttanza è necessario presentare un quadro sommario della sociologia episcopale del tempo: “Paolo di Samosata è sovrintendente alle finanze cittadine […]. In Africa […] san Cipriano annota che gli altri vescovi della regione gestiscono possedimenti, commerciano nelle fiere o procedono ad evizioni. […] Certi vescovi di grandi città non temevano di vivere con un fasto simile a quello dei ricchi pagani. Lo storico […] Ammiano Marcellino conferma che così era nel IV secolo, all’epoca dei successori di Costantino: «Conducono una buona vita perché si arricchiscono con i doni delle donne di qualità. Vanno in carrozza vestiti con ricercatezza. Danno dei pranzi così abbondanti che i loro banchetti eclissano la tavola dei re». Lo stesso Ammiano […] nota che certi vescovi di provincia si segnalavano, al contrario, «per la loro estrema semplicità nel bere e nel mangiare, per gli abiti modesti»”.
Rispetto a un tale scenario, basandosi sulla testimonianza di Possidio, sembrerebbe che Agostino abbia scelto una via intermedia. L’uso alla sua tavola di cucchiai di portata d’argento è un tocco di stile patrizio, sufficiente a dare onore ad un ospite povero, e a non mettere a disagio uno ricco. Ma d’altra parte la limitazione dell’argenteria a queste sole posate, escludendo piatti, coltelli e quant’altro, sembra un segno di sobrietà. Agostino sollecita la carità dei fedeli, ma non pare si possa dire che la usi per uno sfacciato lusso personale. Tale stile episcopale depone a favore di un’interpretazione benevola della sua riluttanza al ministero. Se fosse stato un ambizioso, si sarebbe comportato diversamente, cogliendo ogni occasione per darsi gloria. E invece di rifiutare più volte (per nobili motivi) eredità importanti, le avrebbe accettate per il proprio sfarzo.
Da questo punto di vista Agostino è in controtendenza rispetto al trend dei secoli successivi. In tempi in cui la gente vivrà non di rado in case di legno, i vescovi abiteranno palazzi in pietra, molti dei quali sono tutt’ora vescovadi. E questa tendenza comincia già al tempo di Agostino, che addolorato, in alcune lettere (cfr. ad es. l’Ep. 20*) illustra il danno causato dal vescovo Antonino, proprio per l’ambizione di avere un palazzo proporzionato alla sua dignità. Ora è vero che anche Agostino abita un palazzo simile, ma esso è quello in cui già era insediato Valerio. E non risulta che l’Ipponense abbia fatto nulla per aumentarne lo sfarzo.
Un secondo aspetto, che evidenzia un’interpretazione dell’episcopato lontana da quella che si imporrà successivamente, e invece prossima all’ideale lucano, è attestato nei sermones 355 e 356. Essi vanno studiati insieme, riferendosi ad un medesimo gruppo di eventi, connessi al testamento del prete Gennaro: comprensibile, dato che aveva un figlio e una figlia; ma a Ippona fu scandalo. E Agostino ne fu così umiliato che sentì l’esigenza di rendere conto alla Chiesa - ossia al Popolo - della situazione patrimoniale propria e di tutti i chierici, cominciando da diaconi e suddiaconi fino ai presbiteri. Il Sermo 356 è il tempestivo rendiconto che Agostino fa della situazione, un paio di settimane dopo il fatto, o poco più.
Invece di fare una relazione generica, egli entrò nel merito delle singole situazioni, addirittura chiedendo che qualche laico subentrasse nell’amministrazione di una tenuta ecclesiastica fino a quel punto gestita da un chierico. E riconobbe persino che più di uno di essi fino a quel momento aveva ancora schiavi non affrancati, cosa per lui intollerabile. In Atti 11,1+ Pietro è chiamato ad un rendiconto di altro genere, ma al quale non si sottrae per nulla in nome del proprio carisma. Ora il rendiconto è uno degli elementi basilari della democrazia, quasi più importante del potere elettivo. Infatti è il presupposto del corretto esercizio del potere elettivo. Se non si conosce, non si può giudicare con cognizione di causa. E, perciò, non si può scegliere in modo veramente libero; ragion per cui l’esercizio della scelta, di fatto, diviene un esercizio improprio, strumentalizzabile, pilotabile e quasi sempre pilotato.
Il rendiconto è il segno concreto della simmetria del sapere comunitario; è il primo indicatore affidabile dell’esistenza reale di una Comunità di eguali. In questo senso è ciò che accerta che il ministero è servizio: è il riscontro verace della diakonia. In base al soggetto cui si rende conto si attesta chi è che si serve. Ora se prendiamo le Confessiones, ci accorgiamo che il rendiconto pubblico è una cifra di lettura propria. È un vescovo che ancora una volta rende conto al Popolo della propria vita, della propria anima, della propria fede. Perciò il rendiconto popolare è una categoria ecclesiologica e sapienziale insieme. Ben presto le cose cambiarono. E l’idea di trasparenza progressivamente muta: in origine verso il basso, si trasforma poi in trasparenza verso l’alto.
Agostino non abbandona Ippona assediata, e ciò risponde ad una scelta ideologica: il pastore che abbandoni il gregge nel pericolo non lo giudica, ma preferisce non imitarlo; e in questo mostra un sentire profondamente cristiano. Il Sermo 355 ci fornisce anche un’ulteriore notizia: Agostino vuole il monastero dei chierici non nell’episcopio, ma accanto ad esso, per poter essere più libero di accogliere chi si presentava chiedendo ospitalità (§ 2.). E questa la vede come “una necessità per un vescovo, se non vuole apparire inumano” [ivi]. Dunque l’accoglienza è ad un tempo un valore antropologico ed ecclesiologico. Purtroppo da questo passaggio e dalle note di Possidio è impossibile risalire alle caratteristiche sociologiche dei pellegrini ospitati (salvo il fatto che l’episcopio sembra interdetto alle donne, cosa questa che ha quasi dell’inverosimile).
Nel 396 Agostino chiede un parere al Vescovo di Cartagine sul Liber regularum di Ticonio. È un testo che apprezza, e che si dispone ad usare. Ma Ticonio è un donatista (sebbene moderato), e dunque potevano esservi motivi di opportunità che era prudente vagliare. Qui egli si mostra ad un tempo umile, prudente e attento alla collegialità episcopale, ma anche assai aperto di mente, e non bloccato da un’ideologia che discerna a priori la verità partendo dall’appartenenza. Non è chiaro se Aurelio gli abbia risposto. Di fatto, quanto alle regole ticoniane, per confutare lo scisma donatista “…verso il 400 […] ricorreva apertamente all’ecclesiologia che queste teorizzavano”.
L’episcopalità di Agostino, pur mantenendo tratti assai edificanti, è già divergente da quella apostolica, almeno se diamo credito alla storicità del racconto finale del Quis dives salvetur. Giovanni apostolo depone un vescovo, perché non era stato capace di interpretare in senso stretto il suo ruolo paterno, e aveva licenziato un giovane dopo averlo tenuto per tre anni in casa, e averlo portato fino al battesimo. Quel Vescovo non ha più chiaro il concetto che la Chiesa deve essere una famiglia, altrimenti la fraternità cristiana si svuota del suo significato, con il danno cristologico che si può capire. Agostino punisce Antonino togliendogli la sede di Fussala, ma lasciandogli altre otto comunità dove i fedeli non si erano rivoltati. In questo caso l’antidonatismo ideologico mostra la sua debolezza. Giovanni, secondo Clemente Alessandrino, rimuove il vescovo, perché incapace di tutelare la sacramentalità della Chiesa, ossia la visibilità mistica del Cristo presente in una famiglia soprannaturale di persone che si amano. Agostino non rimuove completamente Antonino, perché convinto che l’insegnamento del vescovo non perda valore solo perché la sua moralità è difettosa, né per questo decada il suo potere di consacrare.
Infine l’ideale agostiniano dei rapporti fra Chiesa e impero, senza escludere possibili differenze, resta in linea con Ambrogio, mentre l’idea di un potere temporale del papa gli è totalmente estranea. Quella di Agostino è una Chiesa sinodale e non centralista: è vero che nella controversia pelagiana Agostino coinvolge il vescovo di Roma; ma non è vero che questi entri troppo nelle questioni concernenti l’amministrazione normale. Addirittura il titolo che oggi gli è riservato, a quel tempo non aveva carattere esclusivo, tanto che S. Girolamo apostrofa signor papa Agostino stesso.
Consideriamo le procedure di nomina dei vescovi: non Roma è la chiesa che decide, ma quella locale: o assemblearmente, come nel caso di Ambrogio, o più frequentemente per disposizione testamentaria del vescovo stesso. Quando Agostino stabilisce chi sarà il suo successore è alla sua chiesa che lo notifica. E se questa era la prassi, in alcuni casi la successione avveniva sulla semplice parola del designato, che avesse raccolto le ultime volontà del presule. Ora non è lo stesso esser vescovo per mandato del papa, per mandato del vescovo cui si succede, o per mandato dell’Assemblea che si andrà a governare. Meno ancora è la stessa cosa se il diritto di candidatura è avocato a sé da Roma, dal Vescovo locale, o lasciato all’Assemblea, come nel caso di Ambrogio. Il medioevo, caratterizzato come sarà dalla lotta per le investiture, parte dal presupposto antidemocratico che le questioni locali siano di competenza di un’autorità centrale. E questo presupposto, che è culturale e non dogmatico, non si ritrova nella civiltà e nella prassi del cristianesimo romano, dove addirittura si verificò il caso della chiesa di Corinto che depose il proprio vescovo, con il papa Clemente che, deplorando il fatto, ben si guardò dal dichiararlo illegittimo. La cristianità medioevale sarà un’altra cosa.

3.2. L’antropologia del lavoro
Col medioevo cambia il concetto che si ha del lavoro, in quanto il benedettino ora et labora è distante anni luce dalla concezione grecoromana, ossia da una civiltà fondata sulla schiavitù. Se la civiltà occidentale attuale è fondata sul lavoro, non poco si deve alla regola benedettina (i signori feudali sono solo dei nuovi patrizi). I monaci sono il motore economico che fa ripartire una civiltà collassata. Le abbazie sono centri di sapere pratico, con le loro farmacie, i loro caseifici, i loro mulini e quant’altro. I monaci lavorano. E questo esempio dà dignità ad un’attività umana tradizionalmente disprezzata o concepita come punizione.
Indubbiamente l’antropologia religiosa del lavoro tipica dei benedettini ha precedenti importanti nelle tradizioni monastiche più antiche, e non meno uno sviluppo ideologico di tutto rispetto proprio in Agostino, nel De opere monachorum. Tuttavia, se questo è vero, resta che in questo caso l’Ipponense sembra in mezzo al guado: si trovano accenti indubbiamente nuovi, ma non meno posizioni tipiche della cultura precristiana. Cercherò dunque di considerare sia gli elementi inerziali, che quelli innovativi.
Nella tradizione antica il sacerdote viveva delle offerte dell’altare. E il sacerdozio era castale. Il sommo sacerdote ebraico è circondato di servi, è la seconda autorità dopo il re. Non parliamo poi del sacerdozio egizio. In genere, dunque, il pensiero precristiano concepisce il sacerdozio come una dignità non servile, poco compatibile con il concetto antico di lavoro. Questo in Agostino resta. Egli pensa che chi opera per la diffusione spirituale del Regno di Dio (evangelizzatori e sacerdoti) debba essere esentato dal lavoro. E questo sebbene nella acuta analisi che conduce sulla teologia paolina del lavoro, si accorga che Paolo si sottomette ad esso non semplicemente per procurarsi il necessario, ma per non rischiare di esser di scandalo ove avesse preteso di esser mantenuto dai neoconvertiti. Eppure ciò non sfocia in una teoria dell’evangelizzazione in grado di annullare radicalmente gli effetti inerziali della cultura pagana.
Roma cristianizzata resta Roma patrizia, con la lontananza inevitabile di mentalità che un ceto nobile può avere con quella di un Dio che vive più di trent’anni a Nazareth facendo l’artigiano del legno. Gesù è un Dio che non solo si incarna, ma che si fa plebeo. E la spiritualità benedettina lo segue, immaginando delle comunità fondate sulla preghiera e sul lavoro, che è un modo chiaro per dire che occorreva ripartire da Nazareth. Ebbene Agostino se non è, come Basilio o Ambrogio, un alto patrizio per censo, lo è però per mentalità.
Troeltsch (cfr. il suo Agostino cit., p. 84) afferma: «La cristianità non è più essenzialmente contemplativa, ma attiva». È il motivo del negotium. E questo in Agostino c’è. Ma negotium non è ancora lavoro. È attività liberale. Gen 2 dice che Dio mise l’uomo in Eden perché lo lavorasse e custodisse. Questo sarebbe già sufficiente a sviluppare un’antropologia del lavoro, che invece in Agostino non c’è. E quando in De Gen. ad litt. VIII, x, 19-23 non può evitare di discutere il tema, lo fa in un modo così cavilloso, che da solo basta a dire la mira e l’imbarazzo. Vediamo qualche passaggio: «Se d’altra parte si traducesse più accuratamente alla lettera, dal greco, sta scritto così: Il Signore prese l’uomo che aveva fatto e lo pose nel paradiso per coltivarlo e custodirlo. Ma noi non sappiamo se Dio vi pose l’uomo a lavorare: così interpretò il traduttore: perché lavorasse o coltivasse (ut operaretur), oppure ‘a lavorare’ il medesimo paradiso […] il testo è ambiguo e il modo di esprimersi sembra richiedere che non si dica ‘a lavorare il paradiso’, ma ‘nel paradiso’» [x, 19].
Agostino mette le mani avanti: occhio, perché la traduzione è carente! Su questo presupposto inizia il ricamo retorico: intanto che l’uomo abbia lavorato non è sicuro, dato che a volte i traduttori sbagliano. Ma anche prescindendo dai loro errori, il paradiso non è l’oggetto del lavoro, ma il luogo. Distinzione raffinata che prepara lo sviluppo successivo. Infatti Eden non è luogo di fatica, ma di gioia, per cui «L’uomo fu messo nel paradiso per coltivare lo stesso paradiso […] mediante il lavoro agricolo non faticoso, ma gioiso e adatto a suscitare nella mente di un sapiente pensieri alti e salutari» [x, 22]. E qui è il punto: vi è opposizione fra fatica e possibilità per la mente di elevarsi a pensieri alti e salutari. Agostino non lo dice esplicitamente, ma lo lascia intendere.
Del resto quando in De civ. XXII, xxii, 2 scrive: «anche» il lavoro «che dà profitto è una punizione. E tuttavia ad essa occorre sottomettersi, perché senza sforzo e fatica non vi è apprendimento» il valore pedagogico è nella punizione, non nel lavoro. E l’unico frutto rimarchevole è l’apprendimento, non il manufatto. L’uomo deve esercitarsi nell’apprendere, non nello zappare. Solo l’apprendere eleva. Del resto, cosa può elevare in un’attività ripetitiva? Agostino non vede che nella ripetizione del gesto può esservi novità nel modo. E cioè nel modo interiore, nel vissuto che accompagna il gesto. Non lo vede, perché non ne ha esperienza. Perché la sua cultura non è fondata su quell’esperienza. E dunque vi è una carenza di consapevolezza. Agostino segue il Cristo Rabbi, ma salta il Cristo faticatore. Per non dire che il lavoro, sporco di denaro, non si capisce bene se possa non far danno d’avarizia all’anima: e infatti nel Sermo 337, 5 accennando al lavoro necessario per edificare una basilica, dice: «… realizzi un bene temporale, così che la vostra ricompensa sia eterna»; dove il valore è chiaro (non è il lavoro e men che meno il denaro!); e una tale suprema ricompensa non si capisce se la si debba attendere per la sacralità del manufatto, per la sacralità del modo o altro.
Se poi il lavoro resta pena e punizione (e giammai benedizione), esso è ricompreso al massimo nell’orizzonte dell’utile e del necessario, e non in quello del bello. E ciò è coerente con il principio generale che la bellezza vera è quella delle res aeternae, non quella delle cose temporali. Perciò dalla prima occorre lasciarsi attrarre; dalla seconda no, perché fallace e falsa. Questa posizione verrà rettificata dal medioevo monastico ed ecclesiastico. Basti pensare alle preziose miniature dei codici, o alla raffinata ebanisteria in qualche caso conservata fino ad oggi; o alle grandi vetrate policrome delle chiese gotiche. Certo, un’espressione delle belle arti paragonabile a quella rinascimentale non c’è. E per vedere delle chiese affrescate, Dura Europos a parte, occorre attendere per lo più il secondo millennio. Tuttavia rispetto al Concilio di Elvira qualcosa si muove. Il bello sensibile non è rimosso in modo assoluto. I paramenti sacri sono ricamati spesso in modo ricco o sfarzoso. E se è vero che il gotico è spesso un sublime spoglio, è pur sempre un sublime. Del resto l’arte musiva è utilizzata a volte in modo straordinario. Insomma il rinascimento ha delle premesse chiare in una visione generale del mondo che non è più e non è solo quella di Agostino. Ciò che sfocerà nel rinascimento è un processo lento, ma anche un fiume che si ingrossa con chiarezza col volgere dei secoli. Basti riflettere alla perizia raggiunta dai liutai già nel basso medioevo. La musica è importante, perché la festa è importante. E la festa è una forma e un luogo del bello, antropologicamente di particolare significato.
Torniamo al commento alla Genesi citato: «Che cosa c’è dunque di contrario alla verità se crediamo che l’uomo fu posto nel paradiso per esercitare l’agricoltura non già costretto da un lavoro servile, ma spinto da un godimento spirituale adatto alla sua nobiltà? Che cosa c’è di più innocente per chi ha tempo libero, e che desta pensieri più profondi e più sapienti?» [ix, 18]. Osserviamo il target. Agostino si rivolge alla nobiltà patrizia, che disprezzava come ignobile il lavoro servile. E forse che l’Ipponense li rampogna? Tutt’altro! Di lavoro servile in Eden non se ne parla proprio! Adamo gioca, passa nel giardino e coglie frutti. Oppure fa un grazioso innestino. Che spali il letame di una vacca non se ne parli. La fatica è contraria alla gioia, e nulla in Eden può contristare.
Ma veniamo al terminus ad quem del lungo ricamo che si chiude al § 23: Il Signore prese l’uomo che aveva fatto e lo pose nel paradiso per coltivarlo e custodirlo, si deve intendere nel senso che il soggetto che coltiva è Dio e l’oggetto coltivato e custodito è l’uomo. Per cui, indirettamente, il peccato è sottrarsi alla cura divina. Questa interpretazione è spiritualmente bella e ricca. Tuttavia, sul piano ideologico, non è meno chiara: l’unico lavoro nobile è quello che si prende cura dell’anima. E siamo nuovamente all’assioma dei Soliloquia. L’orizzonte della sapienza si rinchiude fra l’anima e Dio, fra Dio e l’anima. Di lavoro materiale non si parli proprio.
Da qui un ideale che non coincide con quello benedettino: la comunità monastica, guidata dalla ricerca dell’ideale edenico (che la Chiesa sia il nuovo eden è esplicito in Sermo 341, iv, 5; e il monastero è il giardino nel giardino o anche il vero giardino), aborre sia l’esercizio della sessualità che del lavoro. Il suo negotium è nobile: attendere alla cura della propria anima, e a quella di coloro che siano eventualmente affidati dal ministero apostolico (nell’Ep. CLVII, iv, 38 la posizione ideologica è chiara: chi è veramente un pastore secondo il Signore, non deve farsi scrupolo di farsi nutrire da coloro che per primo egli ha nutrito in modo più prezioso). Il medioevo sarà ben altro. Con questo per Agostino la laboriosità è importante, anche quella monastica. Ma la laboriosità dei plebei. Per i patrizi, che loda se lavorano manualmente, è però meglio la vita direttiva e amministrativa o l’otium contemplativo. Manca totalmente il senso moderno dalla problematica del lavoro. Riprova i monaci di bassa estrazione che gli appaiono sfaticati, ma non si pone il problema della giusta misura della fatica.
Indubbiamente nel momento in cui Agostino riflette sulla necessità che il monastero sia aperto a ogni classe sociale, abbraccia un ideale che ha qualche antecedente in Seneca, ma non certo in Aristotele o in genere nella mentalità antica. Ed è vero che nel momento in cui si pone il problema della veracità vocazionale monastica dei plebei tocca un tasto del tutto plausibile: in quell’epoca monacarsi poteva in effetti essere un espediente per mettere insieme il pranzo con la cena, per non dire di ciò che poteva rappresentare per uno schiavo. Per cui la preoccupazione del Vescovo di Ippona di non favorire pseudovocazioni di appartenenti a classi disagiate è ragionevole. Ma che si deve dire nel momento in cui teorizza che se un patrizio nel farsi monaco aliena i suoi beni a favore dei poveri, se poi non se la sente di lavorare ciò va sopportato? La mancanza di gradualità nell’insistenza sulla costituzione più delicata delle classi più alte, la presenza di un’etica del lavoro, ma non di una spiritualità, sono tutti elementi che dicono di una situazione non ancora totalmente rinnovata dal cristianesimo e dal Vangelo.
E tuttavia l’affermazione ideologica del principio che chi non lavora non può pretendere di esser mantenuto dalla Chiesa, per giunta difesa contro le interpretazioni allegorizzanti, dei correlativi passi paolini, ha un indubbio valore culturale innovativo, al di là del fatto che poi Agostino stesso, senza rendersene conto, introduca una deroga che nel modo in cui è espressa sembra difficilmente fondabile sul Vangelo. Similmente, quando in De op. monach. xv, 16 si dilunga nella discussione della diversità fra lavoro e lavoro, per cui non è lo stesso - sul piano spirituale - zappare o occuparsi di borsa e di commerci, perché in questo secondo caso il coinvolgimento delle facoltà superiori non è solo maggiore, ma intenso; e per questo toglie all’anima la libertà di rimanere nella preghiera incessante di cui parla Paolo, a causa dell’ansia di guadagno che è strutturale al buon esito stesso dell’impresa commerciale; è vero che se non delinea esplicitamente una spiritualità del lavoro, tuttavia è in quella prospettiva che si indirizza.

3.3. La cultura
La prima osservazione concerne il profondo mutamento delle condizioni socioeconomiche che interviene fra il III e il VI secolo nei territori occidentali dell’impero romano. Osserva infatti F. Alessio, che il processo di deurbanizzazione è così spinto da poter dire che si assiste ad un vero e proprio ritorno ad una civiltà rurale. Confrontando infatti l’elenco delle città di Strabone o della Tavola Peutingeriana coi centri abitati ricordati nel medioevo, gli storici non hanno mancato di rilevare la moltitudine di città scomparse. E già ai tempi di Strabone la decadenza era in atto, al segno che delle città sannitiche un tempo vitali era rimasta la sola Benevento.
Di questa crisi demografica non è mancato chi abbia fatto colpa al cristianesimo e all’ideale di continenza che esso diffondeva. In effetti l’epigrafia attesta nel IV sec. un consistente aumento delle vergini. Tuttavia la crisi demografica dovrebbe semmai essere imputata in primo luogo all’encratismo (che ha una certa diffusione fra il III e IV sec.) e non in modo diretto al cristianesimo. In più a monte della crisi demografica fu anche l’uso di nozze con fanciulle impuberi: «Questa pratica produceva, demograficamente, disastri: l’epigrafia funeraria mostra come quasi un quinto delle giovani spose conosciute tramite dette iscrizioni muoia nel primo anno di matrimonio, e i due terzi hanno meno di vent’anni» []. Forse nella sua interpretazione Dumont forza troppo: se i due terzi hanno meno di vent’anni, non significa che ne avessero anche meno di quattordici. Ma se un quinto delle spose muore nel primo anno di matrimonio, non è possibile non correlare una tale statistica alla gravidanza intervenuta. E allora è evidente che il cristianesimo e il suo ideale ascetico di questo non hanno colpa: semmai la responsabilità andrebbe girata alla scienza medica, all’introduzione di metodi di parto inefficaci o, forse più probabilmente e verosimilmente, alla diffusione di pratiche abortive maldestre.
Insieme al depauperamento urbano, col crollo dell’artigianato si assiste a quello del commercio. D’altra parte il commercio richiede strade praticabili ed eccesso di produzione di beni scambiabili; ma ad es. Cassiodoro lamenta, in una lettera del 535, che ormai la Flaminia è impraticabile: è scavata da ruscelli che l’attraversano, e interrotta dall’abbondante caduta di ponti. Tanto per quantificare la portata della crisi economica che investì l’occidente basti dire che Onorio il 24 novembre 395 cancellò dal censo oltre 500.000 iugeri di terre campane, perché ormai incolte; e che durante l’assedio di Odoacre il grano era salito a sei soldi il moggio, che per gli storici del tempo era uno sproposito inconcepibile: e infatti equivaleva ad un aumento di oltre trecento volte rispetto al prezzo ritenuto equo. Se poi si aggiunge lo sterminio sistematico condotto da Attila, il quadro comincia ad essere realistico. Di questo sfascio restano addirittura tracce lessicali, perché scompare o quasi l’uso del termine fundus, che denotava il terreno arativo, sostituito dalla diffusione del termine saltus, che in origine si riservava a selve e luoghi incolti.
Ora è subito chiaro che la “cultura” è un lusso che solo civiltà economicamente evolute possono permettersi. Certo gli incendi di Attila non risparmiarono le biblioteche, né i suoi eccidi i dotti. Ma tutto sommato questo danno immane non sarebbe stato irrimediabile, se ad esso non si fossero aggiunti i tracolli politici ed economici. Viceversa, se la moneta non vale nulla, i professori non possono sopravvivere; né può sopravvivere quell’attività editoriale che supponeva il supporto dell’industria urbana. E allora l’esito non è casuale: alle grandi biblioteche si sostituiscono compendi enciclopedici come quelli di Isidoro e Beda, o sunti (pur nobili) come quelli di Boezio. Del resto persino i trattati di Agostino vengono sunteggiati. Per primi spariscono gli insegnanti di greco (che scarseggiano già nel III sec.), e con loro la possibilità pratica di accesso alle fonti ancora conservate in Oriente, ma divenute doppiamente inutilizzabili: a) perché incomprensibili; b) perché il crollo dei commerci rendeva più che problematico lo scambio dei manoscritti, se pure si fosse rimediato il denaro per il loro acquisto. Per giunta la stessa conoscenza del latino diventa rara, al segno che Gregorio di Tour già nel 580 depreca che in tutta la Gallia gli studi siano periti a tal segno che non solo si perde la capacità di scrivere in versi, ma persino di narrare in prosa.
Per fortuna non tutto si perde, e ciò va concesso. Gli sforzi di Cassiodoro restano ammirevoli. Ma la cultura monastica pur non mancando di capacità innovativa, nell’alto medioevo la esercita su fronti diversi da quello speculativo classico. E qui occorre entrare nel merito di alcune considerazioni ulteriori.
In primo luogo occorre chiedersi quale sia lo stato delle biblioteche, e cioè cos’è che venne conservato. Purtroppo una risposta soddisfacente e dettagliata è impossibile. Però abbiamo testimonianze molteplici che vanno tutte nello stesso verso, e che consentono una ricostruzione qualitativa verosimile della situazione. Dei testi in lingua greca si è detto: aggiungo che la prima traduzione altomedioevale di un testo greco di un certo rilievo speculativo e di una chiara influenza pratica è quella che viene fatta da Ilduino e Scoto Eriugena delle opere dello Pseudodionigi, all’epoca di Ludovico il Pio (Eriugena traduce ad es. anche Gregorio di Nissa, ma non vi è paragone fra la diversa risonanza di questi due autori). E occorreranno secoli perché ad essa seguano quelle ad es. delle opere ancora ignote in Occidente di Aristotele e Platone: solo nel sec. XII le biblioteche si arricchiranno delle traduzioni latine complete dell’Organon, di Ippocrate, di Galeno e di Euclide, ovvero di grandi autori islamici: Avicenna, Geber, Alhazen; e per avere la prima traduzione integrale di Platone occorrerà attendere Ficino. Ma le cose non vanno meglio per la letteratura latina. Isidoro di Siviglia - dottissimo ed enciclopedico - non cita Plinio. E se Carlo Magno volle rimettere in auge gli studi, non poté evitare di ricorrere all’anglosassone Alcuino di York. E questi, giunto sul continente, per prima cosa si disperò di non poter disporre di una ricca biblioteca analoga a quella racimolata in Inghilterra da Benedetto Biscop, attraverso i suoi molteplici viaggi a Roma e in Europa. Allora è vero che non tutto si perse, ma non è vero che si riuscì a conservare il meglio della scienza antica. Beda conosce Plinio, e quindi Benedetto ne portò in Inghilterra l’Opera. Ed è vero che gli studi medioevali conservano il cursus delle sette discipline del trivio e del quadrivio. Solo che in ciò dipendono largamente da Boezio, il quale, nei suoi trattati scientifici, per lo più sunteggia trattati greci. Del resto l’ampiezza delle lacune risulta chiara sol che si consideri la sorpresa prodotta in occidente dalla scoperta, verso la metà del XII secolo, degli Analitici secondi di Aristotele.
Dunque la situazione non è più quella di Agostino, promotore di una fiorente attività editoriale e di cenacoli letterari almeno vivaci, e il punto di partenza è gramo. Ma poi occorre considerare come esso fu utilizzato. E qui le cose si complicano ulteriormente. In primo luogo va osservato che la nota di fondo dell’alto medioevo è un’idea della filosofia - ossia dello studio delle arti liberali - strettamente propedeutica e funzionale all’esegesi biblica e alla morale. I temi speculativi discussi (dico con nuovi accenti, ovvero nelle opere nuove) sono fondamentalmente ristretti all’anima e alla sua salvezza. È emblematico che neppure si avverta l’esigenza di una distinzione fra filosofia e teologia. Se tutto il pensiero antico non era che introduzione alla pienezza della Verità rivelata, l’idea stessa di approfondimenti teoretici meramente razionali risultava inimmaginabile e, perciò incompossibile. Perché approfondire, se già si è conquistato un punto di arrivo immigliorabile?
E infatti nota Alessio (cfr. loc. cit. pp. 370-371) che solo con Abelardo l’insegnamento abbandona la struttura lectio, doctrina, meditatio, per l’altra lectio, doctrina, quaestio. Non fu un cambiamento di poco conto, perché significò introdurre in modo organico la problematizzazione nel piano formativo. E, se ciò fu una novità, la fu appunto perché nei secoli precedenti al massimo si pose la questione della migliore ermeneutica biblica. Allora è vero che nell’atteggiamento altomedioevale non tutto è da gettare. L’idea che l’atto della filosofia prevalga sulla dottrina e l’importanza della persona su quella della teoria (cfr. Alessio cit. p. 375); oppure che la filosofia del cuore sovrasti la sottigliezza dell’ingegno; infine la civiltà dell’ascolto sviluppata dall’ascetica della lectio, sono valori che purtroppo poi divennero negletti all’oscillazione successiva del pendolo. Ma resta il fatto che l’ingegno fu veramente sottostimato; che per secoli ci si limitò per lo più a leggere e commentare le auctoritates, non solo senza aggiungere che poco; ma addirittura guardando con sospetto chi per caso si avventurasse fuori dai solchi delle antiche semine.
Fortunato di Poitiers (530 - 609) confessa candidamente di non aver letto non dico i Greci, ma neppure Ilario, Ambrogio e Agostino. I trattati scientifici di Isidoro di Siviglia non hanno nulla di originale. D’altra parte «Alcuino sceglie e raggruppa […] idee che, cariche in Agostino di tutta una psicologia neoplatonica, presso di lui compaiono soltanto ridotte allo stato grezzo». I suoi contributi all’educazione nelle arti liberali sono «assai modesti»; e le opere corrispondenti di Rabano Mauro «non vanno al di là del quadro delle analoghe opere di Alcuino». Il rinascimento carolingio - ma potremmo aggiungere l’intero alto medioevo, se prescindiamo da Boezio - conosce una sola grande personalità filosofica: Giovanni Scoto Eriugena. Fra i molti occidentali che citarono Agostino fu a mio parere il solo che lo comprese a fondo. Fu il solo erede di quella pedagogia filosofica. Ma benché abbia avuto rilevanti incarichi a corte, il suo pensiero troppo spiccato non fu capito e accolto dai contemporanei: anzi, qualche secolo più tardi lo si lesse con sospetto e non senza censure.
Il fatto è che i monaci copiarono molto, ma di ciò che copiarono capirono assai poco (cfr. E. Gilson, La filosofia nel Medioevo, cit., p. 234). E quando qualcuno, come Fredegiso, tenta qualche speculazione originale, neppure si comprende la coerenza del suo pensiero. Del resto, se «sapere il nome di un essere dispensa dall’accertarsi che esso esista», perché l’importante «è che gli insegnamenti che se ne ricavano siano veri ed utili» [E. Gilson, La fil. cit. p. 238], il quadro non potrebbe essere più chiaro. Ma a me pare che Alessio con acume vada oltre la nota gilsoniana, quando osserva (cfr. loc. cit. p. 383) che in realtà Isidoro, pur muovendosi - è vero - su un solco già presente in Agostino, operi di fatto una vera rivoluzione del paradigma filosofico pregresso. L’effetto formativo della sua enciclopedia fu quello di abituare a pensare che il sapere filosofico è scandito da tre momenti: a) la parola; b) il suo significato; c) l’essenza della res. L’analisi etimologica è allora il ponte fra parola ed essenza reale. E siccome la mira filosofica concerne l’individuazione delle essenze, resta provata la centralità della grammatica. Il filosofo è essenzialmente un filologo. Non discuto la modernità di una simile posizione, ma richiamo l’attenzione sul fatto che questa non è più la prospettiva agostiniana. Il programma de anima et de Deo in questo atteggiamento speculativo di Isidoro non ha più né una parte significativa, né una correlazione diretta. Non è lo stesso usare la grammatica per fondare la morale, o usare le artes per fondare la metafisica. È un altro mondo.
E non è tutto. Se la verità è nell’origine etimologica del significato, allora essa è anche alle spalle del tempo, alla sua sorgente. Ergo il tempo è corruzione e non progresso. Ne segue che l’attenzione non può essere rivolta in avanti (come in Agostino); ma deve essere volta all’indietro. Cambia allora la funzione della memoria. Essa non è più solo o soprattutto il luogo in cui l’anima incontra Dio nel presente attraverso l’illuminazione; è invece non meno il ponte verso un sapere più perfetto, non ancora corrotto. In questo modo il medioevo diventa il tempo in cui la tradizione viene ipostatizzata, per usare un termine frequente in Sofia Vanni Rovighi. E che poi si tratti di tradizione liturgica, teologica o filosofica, non cambia tanto: vuoi perché tali distinzioni non sono percepite; vuoi perché è l’atteggiamento complessivo, è la mentalità di un’epoca che entra in gioco: ci vorrà del bello e del buono per uscire da una tale impostazione pregiudiziale. E se Ruggero Bacone fu uno dei padri di un tale risveglio, ciò non avvenne senza contrasti e dure persecuzioni.
L’uomo altomedioevale è dunque preso a morsa fra due verità, entrambe date, entrambe ricevute dal passato: la Rivelazione e la Filosofia. Il sapere è alle proprie spalle: tutto. E allora quale compito può restare, se non la meditatio e il commento? Così, in un tale mutato contesto, non fa meraviglia che anche quando, come in Alcuino, troviamo un’opera dialogata, siamo ormai lontani sia dai dialoghi platonici che dal Contra academicos o dal De ordine. I dialoganti non sono più sullo stesso piano, in una comune e aperta ricerca del vero. Il vero è dato, e il discepolo deve solo apprenderlo dal magister. Così il dialogo avrà un protagonista e un deuteragonista, pura spalla teatrale e pedagogica, che dà la battuta al maestro mediante brevi e opportune domande. In fondo è la linea letteraria già chiara in Cicerone: ad es. nel De amicitia e ancor più nelle Tusculanae.
Un lieve passo avanti del sapere scientifico si ha solo con Gerberto d’Aurillac, che risolve per primo una questione logica sollevata da Porfirio, e perfeziona l’abaco. Tuttavia la sua matematica resta assai inferiore a quella di Archimede e di Apollonio; e comunque siamo già nel X secolo. Vale a dire in un’epoca nella quale diventa inevitabile il confronto con la civiltà araba. Ne segue che il rilievo del rinascimento carolingio, senza negare l’importantissima funzione storica che ebbe, va ridimensionato (e qui concordo con Alessio): se il carteggio fra due capiscuola, Ragimbold di Colonia e Radolfo di Liegi, evidenzia che il nome di Euclide è sconosciuto, che del teorema di Pitagora non si trova traccia, che le semplici proposizioni di Euclide citate da Boezio nel commento alle Categorie di Aristotele destano incertezza; che il Geometricum di Boezio suscita ripetuto imbarazzo, fino a discutere del significato di angulus exterior, se si tratti di angolo ottuso, ovvero al di fuori del piano del triangolo; oppure a interrogarsi sul senso di espressioni come pedes recti, pedes quadrati, pedes solidi; non vedo come si possa concludere diversamente. Questo carteggio è infatti dell’XI secolo.
Si può considerare poi la cultura anche sotto il profilo più generale degli stili di vita, del costume, dell’etica. E anche qui un esame accurato potrebbe evidenziare una serie non indifferente di cesure. Ne richiamo una sola, che è particolarmente significativa e marcata fra Agostino e l’epoca successiva. Il suo senso dell’amicizia, infatti, è di immediata derivazione ciceroniana. La sua amicizia con Nebridio e Alipio ha come causa esemplare Lelio e Scipione, e come causa ideologica il trattato dell’Arpinate. Vi è infatti un consortiium in vista di un fine filosofico, che Conf. VI, x rimarca con chiarezza: Nebridio lascia “la bellissima villa paterna” per Milano. E lo fa mosso dalla ricerca della felicità, “finissimo indagatore delle più difficili questioni”. Ora è vero che la convivenza filosofica si trasforma progressivamente, cristianizzandosi. E ciò significa che l’orizzonte delle motivazione ideologiche evolve. I riferimenti diverranno biblici: com’è bello, com’è gioioso che i fratelli siano insieme, è un versetto del salterio che ad Agostino sarà particolarmente caro, e che commenterà con la vita apostolica presentata da Luca in Atti. Da qui la possibilità di un equivoco di lettura, che finirebbe per ascrivere all’influenza cristiana abitudini, convinzioni e valori che sono invece previi e di diversa origine.
Ma vi è un secondo motivo che convince di una diversa appartenenza culturale. Quando Aelredo scrive il suo trattato sull’amicizia, ha l’impressione di introdurre un elemento bello, ma di fatto innovativo rispetto alla tradizione monastica più recente. Ora la condizione di possibilità di un tale fenomeno non può che essere la perdita di quella tradizione più antica che invece si ritrova in Agostino. La tradizione benedettina non ha l’unum al centro della propria spiritualità, nello stesso modo che è possibile ritrovarlo nella spiritualità di Ippona. Basti pensare al diverso valore del silenzio che abbiamo nei due filoni ascetici. E se è vero che il medioevo non fu solo spiritualità benedettina, resta il fatto che nella chiesa latina essa fu di gran lunga prevalente, e che lasciò un’impronta sull’intera civiltà non paragonabile a quella di altre esperienze monastiche coeve.
Anche sul piano della riflessione filosofica, l’amicizia non ha più quel peso che ebbe in Seneca, Cicerone, Platone su su fino a Pitagora, e infine in Agostino. Per trovare qualche pagina significativa occorrerà attendere Abelardo. E allora fra l’Ipponense che muore nel 430; Abelardo (1079 - 1142) e Aelredo (1109 - 1167) intercorrono oltre sei secoli durante i quali l’amicizia non è più un valore eticamente significativo, ossia né è una virtù celebrata, né è intesa nel senso della tradizione classica.
Il motivo probabilmente più forte all’origine di una tale variazione è che vi è un mutamento radicale nell’etica. Per Cicerone la cornice dell’amicizia è la Patria. Per i cristiani la Gerusalemme Celeste. Ne segue che cambia il concetto di amore, che il cristianesimo estende fino al nemico. Questa variazione ideologica ha però l’effetto pratico di distogliere l’attenzione da altri valori evangelici, quali l’intimità, la condivisione di vita, la comunicazione del vissuto ecc. Il significato stesso di carità si sposta più verso l’asse della generosità, distogliendosi parallelamente da quello dell’accoglienza. Fare la carità è molto più dare che accogliere. Invece per Cicerone l’amicizia è accogliere l’amico nella propria casa. E per Agostino altrettanto. Allora è evidente che nella prassi quotidiana l’amicizia restò nell’esperienza comune. Ma è significativo che passando da Ambrogio a Gregorio Magno consortium ricorra sempre di meno, e concordia sempre di più. È una traccia filologica che converge con il fenomeno che si è cercato di descrivere. E Agostino si trova effettivamente in una posizione di cerniera, che chiude un periodo e ne apre un altro.

Riassumendo: a) la decadenza classica è già iniziata nel III secolo, e dunque vi è un trend che antecede la rivoluzione cristiana; b) Agostino cerca di opporsi come può ad essa, ma il suo sforzo verrà seguito solo in parte nei secoli successivi; c) l’alto medioevo è meno barbaro di quanto a volte sia stato dipinto; ma si deve riconoscere che in quei secoli le arti liberali non solo non progrediscono rispetto al periodo aureo grecoromano, ma neppure ne uguagliano il livello; d) è solo col basso medioevo che riprende il grande sviluppo intellettuale e scientifico dell’occidente; e) e dunque è legittimo dire, come del resto prima di me ha sostenuto anche Marrou, che il progetto pedagogico di Agostino abortisce: «Si potrà leggere, citare e anche plagiare Agostino, fino all’inizio del XIII secolo, senza discernere nei suoi testi la metafisica di cui essi erano carichi». Come la spiritualità, anche la pedagogia medioevale non sarà per nulla agostiniana.

4. Note interpretative
L’esame comparativo se per un verso ha ribadito la funzione di cerniera che l’Ipponense ebbe nel passaggio fra romanità cristiana e medioevo, per un altro ha portato acqua alle tesi di Troeltsh e, successivamente, di Marrou: le cesure sono tali da giustificare l’assegnazione di Agostino a un periodo intermedio premedievale, con caratteristiche proprie.
Alle più note ragioni classiche dei filomedievali aggiungerei le belle osservazioni di Cagiano de Azevedo e Mastrelli, raccolte nei loro interventi in La storiografia altomedievale, Spoleto 1970, a cura del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo.
Troeltsch accetta che limitatamente alla storia dei dommi il pensiero medioevale sia in debito costitutivo nei confronti dell’Ipponense (cfr. Op. cit. p. 14); tuttavia “il medioevo non consisteva esclusivamente di dommi” (p. 14) e il suo spirito deve non poco alle condizioni economiche e sociali in cui esso si sviluppò. Per questo il “concetto storico prettamente ideologico richiede una decisa rettifica realistica” (p. 14), non disconoscendo che “le condizioni di vita e i problemi di Agostino erano completamente diversi da quelli del medioevo. Infatti egli faceva parte della società romana, e il suo orizzonte non la sorpassava in nessun punto” (p. 14). Fra Agostino e Gregorio Magno vi è un abisso (e il monachesimo benedettino di mezzo). Questa posizione non è tanto facile da esser contestata, perché si presenta più come integrazione delle posizioni espresse antecedentemente dalla critica, che come negazione assoluta delle ragioni filomedievali. Ma cosa cambia assumendo la prospettiva tardoantica, piuttosto che quella medievalista? Ad un primo sguardo, infatti, potrebbe sembrare che suddividere la storia in Antichità, Medioevo, Età Moderna; oppure Antichità, Tardo Antico, Medioevo, Età moderna, sia come dire che 10 non è 4+4+2 ma 3+2+3+2: alla fine sempre 10 è.
Sì, la Storia è sempre la stessa, ma non la storiografia. Vediamo perché: e per farlo, prima di entrare nel merito dell’esame di alcuni effetti dell’impostazione medioevalista gilsoniana, richiamo alcune note generali. Come ha ben osservato Guarracino nello studio citato, le periodizzazioni cambiano col tempo, come fa fede la storia della storiografia. Cambiano perché cambiano i tempi, e cambiano perché cambiano i modi di guardare la memoria storica, ovvero i criteri di unificazione degli intervalli spaziotemporali. Agostino periodizza secondo sei età, riprendendo lo schema delle età dell’uomo. Daniele periodizza secondo lo schema dei quattro imperi. Vi è una storiografia che fino ad Orosio calcola gli anni ab urbe condita, mentre Varrone parte dalla prima olimpiade. Il cristianesimo assai presto periodizza dicotomicamente prima e dopo Cristo, ma i documenti papali per secoli e secoli, ossia fino al 970, non faranno riferimenti al tempo calcolato dall’A.D.
Messa così, la cosa sarebbe quasi neutra, un po’ come la scomposizione di 10 in 2+8 o in 3+4+3. In effetti un’operazione interpretativa non è mai neutra: se Varrone computa il tempo dalla prima olimpiade, in un certo senso sottintende che quello è il punto di nascita della civiltà. Purtroppo, però, qualcosa di molto diverso accade nel momento in cui si afferma il concetto storiografico di medioevo. Esso infatti nasce come un giudizio negativo prima degli umanisti sulla cultura postclassica; poi della Riforma sul cristianesimo romano; e infine si consolida nel giudizio illuminista di una radicale negatività di un’epoca, che né gli umanisti né la riforma avevano voluto dare. Quanto sia stata grossolana una tale operazione è ben mostrato da Guarracino, a cui rimando. Sta di fatto, però, che nell’immaginario collettivo il medioevo è il tempo delle streghe, delle crociate, dell’inquisizione e della peste, come si vede in modo emblematico nel Settimo Sigillo di Bergman, mentre ad es. i processi alle streghe dell’inquisizione vanno collocati dopo il tempo in cui gli umanisti dichiaravano chiuso il medioevo (1453 secondo il Cellarius). Ne segue che collocare un Autore all’interno o all’esterno del medioevo, da un punto di vista dell’immaginario collettivo (anche scolastico) significa caricarlo o meno del peso di negatività che attualmente continuano a connotare ingiustamente un’epoca, come si vede dai detti popolari: non siamo nel medioevo, questo è tornare al medioevo, ecc. Perciò, in attesa che la storiografia più avvertita venga divulgata, e si purifichino luoghi comuni secolari, far passare un autore, che medievale non è, per medievale è puro killeraggio o autolesionismo.
Lo studio monografico di uno scrittore suppone poi sempre una domanda più generale, che è la domanda soggiacente all’impostazione storiografica dello studioso; mentre lo sviluppo particolare sull’Autore suppone una sottodomanda che correli lo svolgimento al quadro teoretico più ampio. L’idea che studiare un Autore significhi leggerne le opere è un’idea ingenua, che suppone la storiografia come un mero lavoro sulle fonti. Ma essa non può ridursi a questo, perché vi è sempre un sapere extrafonti che la caratterizza e in un modo così intimo da incidere notevolmente sulla qualità finale dello studio stesso. In particolare le domande unificanti che caratterizzano l’impostazione storiografica derivano sempre dal sapere extrafonti.
Se la domanda unificante è: come si è arrivati alla philosophia perennis? La sottodomanda che concerne Agostino sarà: che apporto (positivo e negativo) ha dato Agostino alla sintesi della philosophia perennis? Cambiamo impostazione storiografica, e supponiamo che ora la domanda unificante sia: cosa significa decadenza della cultura classica? La sottodomanda che concerne Agostino sarà: che contributi ha dato Agostino per frenare o assecondare il processo di decadenza della cultura classica? Se i due studiosi che si accingono alla stesura di una monografia sono ugualmente scrupolosi, è verosimile che l’esame delle fonti sarà analogo. Ma è anche molto chiaro che nei due casi uscirà un ritratto di Agostino completamente differente. E il motivo è che è impossibile dare risposte uguali a domande radicalmente diverse.
Se dunque Gilson invitasse a studiare Agostino per comprendere la scolastica successiva, cosa dovremmo dire? Che è uno studio illegittimo? Certamente no. Ma in senso proprio di cosa si tratterebbe? Di una comprensione di Agostino, o di una rappresentazione della scolastica in qualche suo antecedente? Da uno studio ben condotto, troveremmo non tanto Agostino, ma l’immagine che di lui ebbero i medioevali. E allora il titolo della sua monografia agostiniana è per lo meno ambiguo: forse sarebbe stato più preciso evidenziare che l’Ipponense non era studiato per se stesso, ma in ordine ad altro. La differenza di impostazione rispetto alle ricerche di Courcelle o Hadot, che vanno nella direzione di un più accurato esame delle dipendenze dell’Ipponense da autori precedenti mi pare chiara. E allora il primo punto è questo: che lo studio di Agostino in prospettiva medievalista ostacola quella comprensione di eccellenza dell’Ipponense che si avrebbe studiandolo per se stesso, ossia nell’ambiente in cui visse.
Ad es. così facendo entrano in ombra la sua romanità, e in genere le profonde differenze che pur esistono fra il suo pensiero e la mentalità di autori anche di poco posteriori. Fra esse ho ricordato la sua antropologia dell’amicizia e della gioia; e, coerenti ad essa, la metafisica e spiritualità dell’unità. Aggiungerei poi la sua estetica, prossima a Elvira, ma assai meno all’arte sacra medioevale, che non fu solo canto gregoriano. E se si può concedere che la sua conoscenza diretta dei testi greci non fu ampia, non è vero che il contatto indiretto sia stato irrilevante. Ambrogio, Vittorino o Girolamo leggono il greco correntemente; e non poco, sebbene non tutto, della filosofia e teologia orientali è assorbito dagli scrittori latini. Che storicamente, anche per comprensibili motivi polemici, si sia studiato più ciò che divideva le due tradizioni di ciò che le univa, non significa affatto che così si sia ottenuta la miglior comprensione di quel fenomeno che fu il pensiero patristico del periodo aureo. E solo ricollocando Agostino nella tardoantichità cristiana è possibile evidenziare convenientemente le vene dottrinali dei padri orientali che infine furono da lui assorbite, e viceversa.

Da un censimento sommario dei manuali di Storia della filosofia, emerge che, nella maggioranza dei più diffusi di essi, a una prima parte del trattato dedicato alla storia del pensiero pagano (dai presocratici a Proclo), segue una seconda, dedicata al pensiero cristiano e medioevale, che da Aristide e Giustino sale sino alla scolastica. Questa è l’impostazione di Gilson e degli autori che dipendono da lui, o che di fatto con lui convergono. Ma questo modo di trattare la materia ha una conseguenza importante sul piano correlativo fra post hoc e propter hoc. Infatti inevitabilmente le dipendenze si hanno solo in un verso, secondo il prima e il poi, e cioè dal paganesimo al cristianesimo.
Il debito del pensiero cristiano verso quello pagano è indubbio. Ma che il cristianesimo non abbia avuto nessuna influenza sullo sviluppo del pensiero pagano è discutibile. Celso non è un filosofo di prima grandezza, ma non avrebbe dedicato una pubblicazione agli errori dei cristiani, se il pensiero cristiano non fosse stato ormai abbastanza conosciuto e diffuso da meritare di esser preso in nota. Su Ammonio Sacca si è molto discusso e si discuterà ancora: purtroppo agì come Socrate, ma invece di avere a discepolo Platone ebbe Origene e Plotino: ciò che consente di immaginare la statura del maestro, ma infinitamente meno le sue dottrine. Se Ammonio fosse stato cristiano, come vorrebbe Eusebio, l’influenza del cristianesimo su Plotino sarebbe chiara. Ma anche prescindendo da questa possibilità, è verosimile che egli viva undici anni ad Alessandria, senza entrare minimamente in contatto col pensiero cristiano? Allora che la rilevazione delle influenze del pensiero cristiano su quello pagano sia ardua, si può concedere. Ma è sicuro che esse non emergeranno mai continuando a trattare gli autori cristiani dopo quelli pagani. Del resto la storiografia filosofica non ha motivo di derogare dai canoni che segue in altre circostanze, nel momento in cui tratta l’esordio del pensiero cristiano: è più ragionevole pensare che sbagli nel trattare l’eccezione, piuttosto che nel seguire la regola.
La periodizzazione accettata da Gilson ha dunque almeno due ulteriori controindicazioni: da un lato veicola implicitamente l’idea che il cristianesimo più che entrare in dialogo col pensiero pagano lo abbia semplicemente soppiantato. In questo modo, in pratica, il peso dell’apologetica nella storia della filosofia è molto ridimensionato, quasi che il suo luogo proprio sia nella storia della teologia o nella storia della Chiesa: e questo, per caso, non deforma la comprensione del Cristianesimo già nel suo sorgere? Non è infatti la stessa cosa se si rimarca la volontà di dialogo degli intellettuali cristiani, oppure se si trascura un tale aspetto. È solo dall’esame di un confronto puntuale di autori contemporanei che può emergere la superiorità oggettiva del pensiero cristiano e l’essere all’avanguardia dei Padri. Chi studia Basilio questo lo vede. Ma se il confronto è reso impossibile, più facilmente può insinuarsi un pregiudizio negativo sulla patristica. E comunque si perde il senso della forza filosofica che l’apologetica ebbe: Vittorino non si converte solo perché incontra delle anime belle. Si converte perché si convince che l’approdo migliore della sua ricerca filosofica è il cristianesimo. E lo stesso vale per Agostino e molti altri. In secondo luogo, poi, si toglie spazio ad una conveniente trattazione di autori come Clemente Alessandrino, i Cappadoci, Origene, Ambrogio, Mario Vittorino ecc., fra l’altro riducendo in pratica non solo il peso del neoplatonismo cristiano, ma anche la stessa possibilità della sua miglior comprensione.
Sul piano valutativo, non rilevare le cesure culturali fra Agostino e il medioevo è disconoscere che i Padri dell’epoca aurea rappresentano un picco del pensiero antico, ossia lo sbocco che il pensiero stesso pagano aveva finito per esigere. La scienza di Basilio è eminente. Quella di Agostino è notevole. È dopo che comincia il buio. E allora la conseguenza è che l’impostazione medioevalista, appiattendo Agostino e medioevo e facendo del primo la causa del secondo, consente poi di scaricare sul cristianesimo la responsabilità della decadenza. E questo è ingiusto, erroneo e gravemente scorretto. Analogamente non evidenziare la cesura antropologica e sociologica impedisce di riconoscere e ascrivere al cristianesimo il merito di aver fondato la civiltà del lavoro. La civiltà monastica benedettina è una civiltà del lavoro, direttamente radicata sull’esempio di Cristo. Questo è dunque il presupposto della superiorità delle civiltà occidentali su molte altre, prive di un tale gene nel proprio DNA. Marx questo non lo ha capito, ma è ora di rivendicarlo.

Se la rassegna presentata delle cesure fra tardoantichità e altomedioevo mostra, pur nella sua sintesi, la fondatezza della svolta storiografica operata in Italia verso gli anni ’60, sorge la domanda: ma se esse si trascurano, si enfatizza una continuità irreale fra Agostino e il medioevo. E allora ciò che implicazioni può avere? Se per ipotesi qualcuna delle discontinuità attenesse ad elementi di spiritualità o cultura tipicamente evangelici, ancora presenti nell’Ipponense, ma che poi si siano invece persi, enfatizzare la continuità con Agostino equivale a sottolineare l’ortodossia della tradizione, senza indagare criticamente la possibilità di involontarie infedeltà storiche rispetto alle consegne iniziali.
Questo ha una particolare rilevanza in due modi: da un punto di vista della storiografia teologica ecclesiastica, e da un punto di vista della storiografia filosofica. Nel primo caso se la domanda di fondo che la ispira non fosse la considerazione di ciò che nel tempo si è conservato della cultura neotestamentaria ed evangelica, ovvero ciò che si fosse perso, il rischio di un esito celebrativo della storiografia sarebbe sensibile. Nel secondo caso, poi, si ometterebbe di dare il significato migliore all’idea di filosofia cristiana. E qui veniamo al nodo teoretico forse più rilevante.
Nel secolo scorso il dibattito fu intenso e non è qui il luogo di riprenderlo nei dettagli. Propongo invece una prospettiva nuova. Supponiamo di considerare filosofia cristiana semplicemente il pensiero storicamente espresso dai filosofi cristiani. E supponiamo che fare storia della filosofia cristiana non debba rispondere alla domanda: quali sono le verità perenni?, ma più semplicemente a questa: in che cosa, come e quando il pensiero dei cristiani si è mostrato conforme-ai o difforme-dai valori antropologici e metafisici del Vangelo?
Se si accetta questa impostazione, si realizza immediatamente che la storiografia del pensiero cristiano esce dalla cronografia per farsi essa stessa pensiero, per farsi essa stessa filosofia. Filosofia cristiana, appunto. E il motivo mi pare ovvio: la domanda esige un giudizio, una valutazione critica. Esige che in via previa si distillino i contenuti metafisici e antropologici della Rivelazione. Esige che il criterio di paragone sia il modello interno che la Rivelazione offre. Esige di comprendere in che modo le precomprensioni hanno impedito o favorito che tale modello venisse accolto nel pensiero di questo o quel filosofo, di questo o quel secolo. Esige, insomma, una funzione catartica. Ma cos’è la catarsi intellettuale, se non maggior aderenza alla verità? E cosa significa aderire maggiormente, se non amare la verità? E non è questo philosophia? Se infine non è una qualsiasi verità cui si vuol tendere, ma agostinianamente si mira al luogo infinitamente denso di verità, alla Verità, appunto che in Cristo si raccoglie senza dispersione, dato che in lui sono tutti i tesori della scienza e della sapienza, non sarà questa filosofia cristiana?
E qui mi allargo in un’ultima nota. La Verità ha un carattere di infinitudine che definisce a priori il suo rapporto col finito. Se l’uomo fosse radicalmente incapace di accoglierla, non potrebbe conoscere nulla. Se fosse perfettamente capace di accoglierla, con una perfezione commisurata sulla Verità e non sulla finitudine, non potrebbe esserci progresso. Perciò una vera ricerca filosofica, che è ricerca umana della verità, non può che essere un laboratorio inesauribile di lavori in corso. Sotto questo profilo la filosofia storiografica si presenta più adeguata rispetto alla filosofia sistematica, proprio perché le è intrinseca l’impossibilità di una chiusura speculativa (o l’illusione di essa).
Roberto A. M. Bertacchini
     
Roberto Bertacchini --- robertacchini@yahoo.it