Contraddizione o non-contraddizione
 
Contraddizione o non-contraddizione?
La rilevanza politica della filosofia
di
Roberto A. M. Bertacchini
Cristianesimo e dialettica
In queste note è evidentemente impossibile esaurire un tema che attraversa tutto il pensiero cristiano. Ciò che propongo è dunque e solo un semplice excursus, teso a ricostruire una problematica nella cui prospettiva sia più chiara e illuminata la questione teoretica che l’articolo intende affrontare.
La prima osservazione è che il tomismo ha sancito un connubio sia filosofico che teologico con la dialettica che, se oggi può anche apparire ovvio e irrinunciabile, tale non fu affatto, almeno fino al XII secolo. Ne segue la necessità di considerare meglio lo status quaestionis. L’evento fondamentale alla luce del quale mi pare si debba leggere il periodo precedente è la rivolta antilogica dell’XI secolo. Secondo Gilson essa affonda le sue radici direttamente in Ambrogio: “Il modo in cui parla delle filosofie nel suo De fide (I, 5; I, 13; IV, 8) e nel suo De incarnatione (IX, 89) fa presagire talvolta le invettive di un Pier Damiani contro la dialettica. Ambrogio è una delle fonti più sicure degli «anti-dialettici» del secolo XI e del secolo XII” [E. Gilson, La filosofia nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1988, p. 133]. Quanto ad antichità, probabilmente Gilson ha ragione. Ma quanto a peso, non trascurerei Agostino. L’ interpretazione agostiniana della dialettica non è metafisicamente aristotelica. E proprio questo sarà l’ orizzonte di crisi del sec. XI.
Nota giustamente Alessio, che una rivolta antilogica non è per questo necessariamente una rivolta illogica. E allora - dato che i rivoltosi non erano degli sciocchi - è importante capirne le ragioni. Prima, però, mi pare necessario sgombrare il campo da una questione previa: perché tanto tardi? Perché questa rivolta generale maturò solo nell’XI secolo? Senza voler esaurire la serie delle concause, mi pare che l’elemento essenziale fu il ricostituirsi di biblioteche sufficientemente ampie da rendere possibile esami critici più approfonditi. Che ciò sia avvenuto lo sappiamo dalla testimonianza di Gerberto d’ Aurillac, che sguinzaglia segugi ogni dove per recuperare o copiare manoscritti; e lo sappiamo da Cluny, abbastanza ricca - dopo aver debellato il malcostume degli abati commendatari - da potersi permettere la spesa che la biblioteca esigeva. Del resto anche le condizioni economiche generali cominciano a migliorare sensibilmente, i commerci riprendono o si intensificano; i viaggi si fanno meno rari, ecc.
In quest’ epoca non si dispone ancora della traduzione completa dell’Organon, ma i commenti di Boezio, sia agli Analitici primi che secondi, non sono più un bene raro. E, d’ altra parte, Cicerone ormai lo si può leggere non in una o poche opere, ma in tutte o molte. In altri termini il commercio - ossia lo scambio - dei manoscritti crea una prima situazione obiettivamente nuova. Non è però irrilevante neppure il fatto che a tali studi più completi possano ora accedere anche i chierici, e cioè persone generalmente meno disciplinate - sul piano ascetico - dei monaci. E di fatto succede ad es. che un chierico come Berengario di Tour metta in discussione la transustanziazione e la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, in nome della logica. E dunque in questo clima del tutto nuovo matura la rivolta antilogica dei monaci, che va ora considerata nel merito.
Una delle critiche ricorrenti, e che troviamo ad es. in Pier Damiani, è che l’essenza del male è andare oltre i limiti, e i dialettici non sono esenti da questo peccato (cfr. Alessio cit. p. 400). Vi è dunque un problema di hybris. Ed è esattamente questo il nocciolo della questione, di cui è opportuno definire i contorni. Per farlo prendiamo ad es. Manegoldo di Lautenbach: la sua posizione, che vede negli antichi filosofi pagani solo dei presuntuosi, non è molto lontana da alcune pagine di Agostino. Sono però i suoi argomenti che destano interesse: “Cicerone aveva dato come esempio di una proposizione irrefutabile: «Si peperit, cum viro concubuit». E allora, come credere che Cristo sia nato dalla vergine Maria? Si definisce l’uomo un «animale mortale»; ora Cristo è risuscitato”. In queste frasi lapidarie il problema è chiarissimo: il Vangelo va oltre l’orizzonte di sapere che fu proprio dei sapienti pagani e dei teologi ebrei. Dio contesta a fatti l’assolutezza di quei limiti, prima ancora di contestarli con la dottrina. Perciò il cristianesimo non è riducibile entro quell’orizzonte. Non è questione della sola dottrina della transustanziazione. È nell’insieme che si dà un’ulteriorità tale che non per caso, quando Paolo predicò ad Atene, di fronte alla trasgressività insostenibile del suo messaggio, i più gli dissero: su questi argomenti ci sentiremo un’ altra volta (pensando fra loro: perché adesso abbiamo cose più urgenti da fare).
L’obiezione a Manegoldo, che sorge spontanea, è: ma cosa c’ entra la dialettica? È vero, infatti, che se io suddivido i vertebrati in mammiferi e non mammiferi, poi mi salta fuori l’ornitorinco che mi manda in crisi. Ma ciò avviene solo perché non la logica, ma la sua applicazione era sbagliata. Dividiamo i vertebrati in vivipari e non vivipari. E poi di nuovo i non vivipari in mammiferi e non mammiferi, e il problema sarà stato risolto. Allo stesso modo cambiamo la definizione di uomo, e quant’ altro necessario per accogliere la Rivelazione, e la dialettica non sarà più un problema.
È così? Di certo la cosa non era per nulla pacifica ai monaci. E il primo punto da considerare è l’ordine veritativo, la gerarchia veritativa. Per spiegarmi ricorrerò ad un altro caso. Fra le disciplinae una era la grammatica, ossia quella latina. Ma su che base insegnarla? Su quella della letteratura pagana, oppure includendo il latino biblico? Per noi il problema non si pone, perché al limite diciamo che si tratta di due lingue affini, ma non sempre coincidenti (come potrebbero essere l’inglese e l’americano). Ma per Smaragdo la questione è ben più seria: infatti partendo dal presupposto che la lingua fosse una sola, ricavando la grammatica dalla letteratura pagana ne derivava che si concedeva ai pagani di giudicare la Parola di Dio e gli autori ispirati. Lasciamo stare che la Bibbia non fu mai scritta in latino, ma solo tradotta; lasciamo stare tutto, e astraiamo dalla stessa questione della grammatica. La domanda allora è: dove il fondamento del sapere? In quale autorità? E come si colloca la Scrittura rispetto a quest’ autorità? Posto così, il discorso assume una dignità che non si può liquidare con faciloneria, ma che anzi richiede un esame ulteriore.
E allora passiamo al Proslogion di S. Anselmo. Il tema è l’argomentazione razionale dell’esistenza di Dio, e lo svolgimento ha una sua genialità incontestabile: definito Dio come ciò di cui nulla di più grande si può pensare, anche l’incredulo, se ammette una tale definizione, dovrà concluderne l’esistenza. Infatti è ben vero che egli potrebbe ribattere di non aver concesso esistenza che a un concetto; ma allora, se Dio non esistesse, esisterebbe un concetto più grande di quello definito, perché l’ente esistente per sé di cui non si possa definire un maggiore è certamente un pensabile maggiore di un ente di ragione di cui non si possa definire il maggiore. Dunque la coerenza logica esige l’esistenza divina.
Contro il Proslogion insorse l’abate Gaunilone con il Liber pro insipiente. E qui sviluppa due argomenti principali: in primo luogo perché l’insipiente dovrebbe intendere l’idea di Dio, solo udendo il suono della parola? Infatti il significato dei concetti non può mai prescindere dall’esperienza o nostra, o di altri cui diamo credito. Ma l’insipiente non può avere esperienza di Dio, altrimenti non sarebbe agnostico; e neppure può basarsi sull’esperienza di altri, altrimenti non sarebbe incredulo. Secondo: anche sulla definizione di Dio c’ è da discutere, perché anch’ essa non può essere appropriata, se non supponendo un’ esperienza previa. È di nuovo l’esperienza che ne garantisce la verità, non la logica.
Si tratta di obiezioni così acute, che quando Tommaso indagherà il fondamento del sapere teologico non potrà che ricorrere alla Comunione dei Santi: è solo per l’esperienza di Dio fatta dai beati e dai santi che è possibile un discorso umano sulle realtà divine. Allora Anselmo tenta un discorso filosofico-teologico assoluto, puramente dialettico. E l’obiezione è: un tale discorso è impossibile, perché tutto ciò che di sensato diciamo suppone l’esperienza. E allora anche le artes suppongono l’esperienza. E se la cosa è evidente per l’astronomia o la grammatica, non è meno vera per le rimanenti, dialettica inclusa. Ecco allora la domanda: quale esperienza?
L’abate Desiderio, conversando a Montecassino con Pier Damiani, sostiene che “neanche Dio può far sì che ciò che è accaduto non sia accaduto” (cit. in Alessio cit., p. 401). È un’asserzione che parrebbe evidente a motivo dell’esperienza; e non meno per il fatto che, ammettendo il contrario, non si capisce perché Dio non abbia fatto tornare indietro il film, che col peccato originale aveva derogato dal piano creativo, per rigirarlo senza errori e soprattutto senza le nefaste conseguenze note. Ma Pier Damiani sente che nel discorso qualcosa non quadra. Forse si ricorda dell’episodio di Isaia che fa tornare indietro il sole di diversi gradi sulla meridiana. Sta di fatto che la sua risposta è geniale: il passato, il presente e il futuro sono categorie umane, storiche, non applicabili a chi, come Dio, vive in un eterno presente. E allora se tutto è presente a Dio, se Egli può agire nella Storia, lo può allo stesso modo verso ciò che è storicamente presente, passato e futuro. Ancora una volta il ragionevole non coincide col vero, ma con l’illusorio, a motivo del fatto che trova la sua fondazione in un’ esperienza limitata, e non in un’ esperienza infinita. Se la logica è distillata dall’esperienza finita non può avere un valore metafisico. Solo ciò che suppone esperienza del trascendente può dire il trascendente. L’orizzonte teologico dell’Incarnazione è evidente in queste posizioni. Ma qui interessa evidenziare il valore filosofico ed epistemologico, che non mi pare per nulla irrilevante, tanto che, come ho detto, Tommaso fonda la scienza teologica proprio sull’esperienza di Dio dei beati.
Allora non è qui il luogo di discutere cosa della logica aristotelica possa avere valore metafisico e cosa non ne abbia. Ma è abbastanza evidente che non può essere lo stesso costruire una ontologia del finito o una metafisica dell’infinito. La seconda ha infatti esigenze che la prima non ha. Si può sostenere che l’ontologia di Aristotele sia una metafisica dell’infinito, o non piuttosto occorre concedere che sia un’ ontologia del finito? Gli antilogici dell’XI secolo sul breve periodo persero la partita, forse anche perché - non sufficientemente addestrati alla filosofia - non riuscirono a maturare la domanda cruciale: cosa ci permette di distinguere un’ ontologia del finito da una metafisica dell’infinito? Che io sappia questa non fu una delle quaestiones disputatae su cui si infuocarono i pensatori bassomedioevali. Ma la domanda resta. E finché non disporremo di risposte convincenti, la fondazione epistemologica di qualsiasi metafisica dell’infinito resterà incerta.
Da un altro punto di vista, possiamo ora meglio comprendere il problema dell’hybris, posto dagli antilogici. Fra finito e infinito il rapporto non può che essere di hybris, perché l’infinito ha in se un’ eccedenza intrinseca che il finito non può accogliere se non andando oltre se stesso. E allora se parlo del trascendente usando le regole di necessità empiricamente vere nel finito, o gli orizzonti precomprensivi ad esso associati, inevitabilmente lo riduco, lo finitizzo. Vado quindi oltre il limite che imporrebbe di rispettare l’infinito come infinito. Ne deriva che il corretto discorso su Dio suppone l’analisi previa della sua trasgressività (ontologica). È solo mettendo a fuoco tutto ciò che il divino si concede in deroga a ciò che al finito è concedibile, che è possibile risalire - almeno parzialmente - a qualche legge dell’essere valida per il trascendente. Ma il tema della trasgressività divina e cristiana è fino ad oggi così poco studiato che la stessa voce è per lo più assente tanto nei dizionari di filosofia che di teologia.

Logica e non contraddizione: la questione teoretica
Allo scadere del millennio, Vita e Pensiero ha pubblicato una miscellanea, curata da V. Melchiorre, dal titolo I luoghi del comprendere. Al suo interno (cfr. pp. 177-201) si trova l’ articolo di P. Gilbert, Logica, ragione, pensiero. È un lavoro che meriterebbe un ben più ampio commento. Qui lo cito, perché ha il merito di ripresentare con accenti più giustamente e più coraggiosamente problematici alcune questioni metafisiche, fra le quali anche quella concernente il significato del principio di non contraddizione (in seguito pnc).
Una delle sue formulazioni più classiche e generali è A non è non-A. In questo assioma non è difficile scorgere due distinti livelli: quello ontico e quello critico. Sul piano ontico il principio difende l’ identità della res, e non per caso secondo Aristotele esso non è che una riformulazione del principio di identità. Sul piano critico esso è la contrazione della formula: se A è A, A non è non-A.
Vediamo subito alcune importanti conseguenze pratiche. Il pnc è un principio prescrittivo, che sul piano critico si pone (o sembra porsi) come presupposto di qualunque discorso in quanto vero. L’ argomento è noto: si neghi il principio. Segue l’ antitesi se A è A, allora A è non-A. Ma se A è non-A, siccome A è una variabile predicativa illimitata, ne seguirebbe che di qualsiasi ente potrei predicare tutto. Ovvero, un qualunque discorso sarebbe anche un discorso vero. Ma una tale conclusione contrasta con l’ esperienza e con il modo istituzionale di intendere il discorso in quanto vero. Se infatti dicessi che la vacca è il bue, o che la luna mangia con la coda, giustamente sarei preso per uno che ha voglia di scherzare e di burlarsi di chi ascolta. Ora una tale reazione ha la propria radice esattamente nell’ uso quotidiano e generale della logica aristotelica. La precomprensione che non tutti i discorsi sono veri, esige che di un ente non si possa dire qualsiasi cosa: ossia non si possa dire ciò che non è. La definizione stessa di falso si può ridurre al principio di predicabilità corretta: di un ente è corretto predicare solo ciò che l’ ente è. Da cui segue che una predicazione contraddittoria sarebbe una predicazione falsa.
Una seconda conseguenza sul piano ontico è il concetto di separazione dell’ ente. Se A è A, A non è non-A significa appunto che la distinzione è una categoria metafisica, per cui alla differenza concettuale fra A e B corrisponde una differenza reale. Ciò che la mente distingue ha come presupposto la corrispondente distinzione in re. E, inversamente, se un tale presupposto metafisico si negasse, si negherebbe nel contempo la possibilità della conoscenza analitica. Ma noi sappiamo che la conoscenza analitica funziona, e dunque che necessariamente è vera, per cui la distinzione degli enti è necessariamente una verità metafisica. Cosa di più ovvio?

La posizione di Bontadini
Ma se tutto è ovvio, allora anche Bontadini ha ragione nella sua riformulazione: l’ essere non può non essere. Infatti basta porre A = essere, e si ottiene immediatamente: se l’ essere è l’ essere, l’ essere non è non-essere. Ora ciò che prescrittivamente non è non-essere, neppure può diventarlo. La cosa può non essere perspicua a causa del problema della potenza, per cui potrebbe sembrare che parlare dell’ essere in potenza non sia parlare dell’ essere in quanto essere. Ma poniamoci la domanda: l’ essere può non essere? Se si accetta la prospettiva apofantica - cosa che non mi risulta sia mai stata messa in discussione dai neoscolastici - gli esiti possono essere solo due: o sì, o no.
Allora, se l’ essere può non essere, significa che almeno in un caso l’ essere non è. Se infatti negassimo la conseguenza, affermeremmo per un verso che l’ essere è; e per un altro che può passare dalla sua condizione di essere a quella di non essere. Ora tale posizione è problematica: a) perché si nega che in qualche caso l’ essere non sia; b) perché nel contempo si afferma la possibilità di un tale passaggio, ma non si spiega in quale modo e circostanza possa avvenire. E allora la presunzione che l’ essere possa non essere sarebbe irrazionale: ossia 1. contro esperienza (si nega il caso che l’ essere non sia), e 2. contro ragione (si fa una illazione arbitraria). In più il motivo di una tale mancanza di spiegazione è chiaro: se l’ unica cosa predicabile dell’ essere è il suo essere, è del tutto impossibile raggiungere una formulazione che dall’ essere possa derivare il non essere o il poter non essere. In conclusione il giudizio che l’ essere può non essere se è razionale esige che almeno in un caso l’ essere non sia; se è irrazionale esige la ridefinizione di senso del discorso, e delle norme che ne fondano la razionalità. Ma abbiamo appena visto che la prima norma è il pnc. E allora avremmo dimostrato che il nostro processo razionale è irrazionale. E cioè che un argomentare sviluppato secondo le norme di ragione del pensiero apofantico ha come esito un giudizio che si sottrae alle medesime norme. Ma in questo modo l’intero processo discorsivo esce dai canoni presupposti, pur essendosi sviluppato secondo essi. Per cui esso si deve intendere ad un tempo razionale e irrazionale. E ciò confligge col presupposto normativo e veritativo del pnc. Ergo il pnc è falso, almeno perché un discorso non può essere razionale e irrazionale nel medesimo tempo, essendo il pnc normativo. Dunque, se l’ essere può non essere, almeno una volta l’ essere non è. E allora almeno una volta il predicato l’ essere non è è vero. Ergo il pnc è falso.
Ne segue che alla domanda cruciale dovremmo rispondere che l’ essere non può non essere. Ma se diciamo che l’ essere non può non essere, affermiamo la formula di Bontadini. Quindi la domanda cruciale mostra che se Bontadini ha torto il pnc è falso. Ma il pnc è vero, dunque Bontadini aveva ragione.

La posizione di P. Gilbert
Sembrerà incredibile, ma, pur giocando in trasferta - ossia scrivendo per quell’ Editrice che ebbe Bontadini così caro - Gilbert, ordinario di metafisica alla Gregoriana, ha buon gioco a ridicolizzare tanto nume: «…come segnala Berti, questa posizione […] non è aristotelica né ha fondatezza per il buon senso. Da un lato non è aristotelica perché suppone che l’ essere abbia un’ essenza (il suo poter essere), mentre ‘l’ essere non ha essenza e quindi nulla può appartenere alla sua essenza’; d’altro lato, essa ignora la nostra esperienza comune, il che è troppo ridicolo: ciò che è, evidentemente, può non essere» [loc. cit. p. 193]. Gilbert afferma con semplicità che il poter non essere dell’ essere è una verità evidente.
Purtroppo non spiega a quale evidenza alluda: alla morte? All’ accidentalità dell’ essere? Alla creazione? Non si sa, ma neppure importa troppo. L’ importante è che tale evidenza è evidente anche a Melchiorre ed è evidente ai molti lettori che non hanno subissato l’ editrice o l’ Autore di proteste, o di articoli polemici. Quindi ciò che non fu evidente né a Bontadini né ai suoi estimatori illustri, oggi è evidente a tutti.
La domanda allora sorge spontanea: come è stato possibile che un personaggio che si permette di esser così ridicolo e così ignorante, abbia potuto ottenere la cattedra di filosofia teoretica alla Cattolica, e l’ abbia mantenuta nel plauso generale? Forse che il re era in mutande, ma non si poté trovare in giro un bimbo impertinente che lo dicesse? E, d’ altra parte, se il re era in mutande, il pnc è falso. Quindi abbiamo un’ evidenza che dice che esso è vero; e una seconda evidenza che dice che esso è falso. Abbiamo un sapere istituzionale che accoglie la prima evidenza, e ancora un sapere istituzionale che accoglie la seconda. Come uscire da un tale pasticcio?
Gilbert porta l’ attenzione sul fatto che il pensiero pensato è altro dal pensiero pensante. La cosa è molto evidente, perché la dottrina non è una funzione pensante. Essa ha un’oggettività discorsiva che la reifica; e una res di questo genere non è pensante. O, almeno, non è pensante in modo necessario: diventa pensante solo se vi è un soggetto che accoglie la dottrina e la attiva. In questo modo il pensiero pensato può tornare ad essere produttivo di pensiero. E siccome dal pensiero pensante non si esige di essere anche il soggetto pensante, il pensiero pensato è pensiero pensante e anche non è pensiero pensante. E il passaggio dall’ essere al non essere è mediato in parte dalle circostanze e in parte dalle funzioni dell’ accoglienza e dell’ espressione.
Il pensiero pensato, in quanto pensiero espresso, è un pensiero reificato, morto. Ma, in quanto morto, è un pensiero che è passato dall’ essere al non essere. Se dunque il pensiero pensato è il cadavere, esso suppone un vivente che ne sia origine. Tale vivente è il pensiero pensante. Ora potrà un cadavere morire? O non sarà il vivente che muore? Di fatto è così: nell’ esprimersi il pensiero pensante partorisce se stesso, ma nel partorirsi si uccide. Perciò l’ espressione è esattamente la funzione che fa evolvere il pensiero pensante nel proprio non essere pensiero pensante. L’ analisi dell’ articolazione fra pensiero pensante e pensiero pensato evidenzia la presenza del passaggio dall’ essere al non essere; e, perciò, dell’ essere al non essere. L’ essere può non essere. Gilbert, purtroppo per Bontadini, ha ragione.

Limiti di validità del pnc
Verrebbe allora voglia di dire: ma, forse, Bontadini intendeva salvare il pnc come norma del pensiero pensato, e non del pensiero pensante. Può essere che inconsapevolmente la cosa stesse proprio così. Ma, al di là delle intenzioni e delle motivazioni sue e di molti, che spinsero in tale apologia, sono comunque da osservare due cose. La prima è che la metafisica ha una pretesa veritativa di più vasta portata, sicché esige di non esser contraddetta per via empirica o apodittica. Ergo l’ errore metafisico ci fu, e serio.
La seconda è che, indipendentemente dalle intenzioni bontadiniane, è di valore teoretico stabilire se il pnc conservi validità entro il pensiero pensato; o se almeno si possa salvare un ambito all’ interno del quale esso sia valido. In teoria della computabilità tale problematica corrisponde alla ricerca del dominio di validità (o di significanza) di una funzione. Dunque la ricerca è per se stessa sensata. Bisogna però vedere se è possibile arrivare ad una soluzione, ovvero se siamo in grado di trovarne una corretta.
Supponiamo che l’ ipotesi sia adeguata, e che effettivamente entro i limiti del pensiero pensato il pnc funzioni. Vediamo allora di considerare che differenze possiamo trovare tra il pensiero pensante e il pensiero pensato (ossia tra il pensiero vivo e il pensiero morto). Se riusciamo nell’ impresa, possiamo fare l’ ipotesi che la differenza trovata abbia qualche correlazione con le diverse proprietà logiche riscontrate. Passeremo allora a qualche verifica, per vedere se il modellino regge.
Dunque il pensiero pensato è sicuramente un pensiero discreto, e anche un pensiero finito. È un assunto inevitabile, perché abbiamo detto che il pensiero pensante si annichila nel parto espressivo. E l’ espressione è un susseguirsi finito di parole e segni. O di parole, toni, pause e gesti. Possiamo filmare un discorso e registrarlo su un CD. Ma su un CD non ho che una sequenza di miliardi di informazioni binarie. Eppure rivedendo il film, ripreso da una microcamera posizionata sopra il mio naso, all’ altezza degli occhi, io ho esattamente la sensazione di rivivere il mio vissuto di spettatore del discorso. Perciò tutta l’ informazione che mi è giunta si è conservata. E, allora, l’ informazione che mi è giunta, ossia l’ informazione di cui è carico il pensiero pensato, è finita.
E del pensiero pensante, che posso dire? È subito evidente che esso, in quanto pensante, è come minimo illimitato, e illimitabile; e, perciò, non-finito. Ma che correlazione può esservi fra finitudine e non contraddizione? In effetti se il pnc è riducibile al principio d’ identità, che esso sia un principio di calcolo discreto è abbastanza evidente. Anzi, si potrebbe dire che è il principio stesso della discretizzazione.
D’ altra parte che il pnc abbia qualche problema con l’ infinitudine, si vede per così dire ad occhio nudo. Al principio aristotelico che la parte è minore del tutto, per secoli si è riconosciuta dignità di principio metafisico. Il giudizio A è parte di B significa che ogni elemento di A ÎB, ma A non è B e la differenza fra B e A non è = 0, mentre la differenza (A - B) è < 0. D’ altra parte io dico che A < B se (B - A) > 0. In sostanza, se io tento di mettere in corrispondenza biunivoca gli elementi di B e quelli di A, mi accorgo che quando ho raggiunto l’ ultimo elemento di A ho ancora elementi liberi di B, e cioè B eccede A.
Le due definizioni di parte e di < non sono equivalenti, perché un insieme può essere minore di un altro senza esserne parte. La condizione di parte è dunque più restrittiva di quella di minore, e perciò siamo nella condizione dell’ implicazione logica: se parte allora <. Il principio di Aristotele sembra così tetragono ad ogni attacco. Dire che la parte non è < del tutto vorrebbe dire che un ente A è A < B per il concetto di parte; e simultaneamente A ³ B per la pretesa di non minorità. Ma la condizione < B è opposta alla condizione ³ B, ossia ne è la negazione logica. Ne segue che se il principio aristotelico fosse falso, significherebbe che $ un A parte di B, tale che p[(A < B) Ù (A ³ B)] = vero. Ora la condizione A ³ B significa esattamente che A non è parte di B, perché o è uguale a B, o lo eccede, contro la definizione di parte. E così siamo arrivati al risultato che A è parte e non parte di B. Ossia siamo arrivati a predicare di A una cosa e il suo opposto. In questo modo abbiamo negato il pnc. Per cui affermare che la parte è minore del tutto è un’ esigenza metafisica tanto quanto il pnc sia una struttura metafisica. Quindi o siamo davanti a due principi metafisici, oppure nessuno dei due principi è un principio metafisico.
Ma un principio metafisico deve valere tanto per il finito che per l’ infinito. E allora occorre considerare cosa succede all’ infinito. Già Galileo dimostrò che i numeri pari pur essendo una parte dei numeri interi, sono tanti quanti gli interi, per cui nell’ infinito la parte è minore del tutto, ma anche no. Studi più recenti hanno dimostrato che addirittura i pari sono perfino di più degli interi, pur essendone una parte propria. Infatti basta prendere la serie delle potenze intere di due. Esse sono solo una parte esigua dei numeri pari, dato che

6, 10, 12, 14, 18, 20, 22, 24, 26, 28, 30, 34…

ne restano esclusi. Eppure è facilmente dimostrabile che le potenze intere di 2 sono tante quante gli interi: infatti gli esponenti sono esattamente gli interi, per cui l’ associazione fra ogni elemento della serie e ogni intero è immediata. Ne segue che nell’ infinito l’ eccedenza non è solo una proprietà del tutto rispetto alla parte, ma anche della parte, purché infinita, rispetto al tutto. E, infatti, mi basta una parte esigua dei numeri pari per contare tutti gli interi, ma senza usare un’ intera infinitudine di numeri pari, che resta eccedente. Ora siccome diciamo che quando un insieme A eccede un insieme B, A > B, ne segue che una parte propria degli interi è maggiore del tutto.
Quindi nell’ infinito non vale il principio che la parte è minore del tutto, e per conseguenza non vale neppure il principio di non contraddizione. Questo ha molte conferme. Ad es. in geometria la definizione delle parallele è quella di rette complanari prive di punti comuni. Eppure le parallele all’ infinito hanno in comune un punto improprio. Perciò all’ infinito le parallele sono e non sono parallele (dal punto di vista della definizione finitistica). Anche più interessante sarebbe l’ analisi di Matte Blanco sul rapporto fra inconscio, infinitudine e contraddizione. La logica simattica è una logica contraddittoria che ha dignità antropologica non minore di quella alattica o non contraddittoria.
Su questo punto ci si potrebbe allargare assai, e non è il caso. Invece è importante segnalare che ad es. Mario Vittorino e Agostino usano questa logica contraddittoria parlando di Dio, ossia dell’ infinito. E ciò non corrisponde semplicemente ad un linguaggio suggestivo. Quando la mente è invitata a contemplare Dio, bellezza sempre antica e sempre nuova, essa assente al giudizio perché ne intuisce la verità. Ma questo assenso non potrebbe darlo all’ idea del gatto Fuffy come bellezza sempre antica e sempre nuova. Solo legando l’ idea del gatto a quella di infinitudine la cosa potrebbe avere un senso (almeno dal punto di vista del sempre nuovo, mentre resterebbe il problema del sempre antico). Perciò la mente assente al suggestivo non perché suggestivo, ma perché coglie intuitivamente che vi è un corretto modo di predicare l’ infinitudine che esige il superamento del pnc. Su questo punto rimando ai miei lavori L’ infinito e Maria e L’ Infinito e l’ Incarnazione.

Violenza e pnc
In astratto può sembrare che il pnc non abbia effetti pratici deleteri, ma anzi - al contrario - essi conseguirebbero celermente dal suo improprio abbandono. E ciò in parte va concesso, come si è visto. Occorre tuttavia cercare di mettere in luce la zona oscura della luna, ossia gli effetti dell’hybris che pretende di rinchiudere l’ infinito nelle catene del finito. Che questo sia violenza, è evidente. Ma si potrebbe obiettare che è solo violenza metafisica, che sul piano pratico e storico non ha rilevanza alcuna. È proprio così?
Prendiamo il caso Galilei. Galileo non fu condannato solo per ragioni teologiche, ma anche per ragioni logiche. Infatti gli fu obiettato che se la sua teoria era giusta, la gravità terrestre doveva comporsi con la forza centrifuga dovuta alla rotazione: e siccome essa dipende dal raggio, la gravità teorica deve essere sensibile alla latitudine, aumentando verso i poli e diminuendo verso l’ equatore. Il concetto era giusto, ma gli strumenti di misura non segnalavano differenze apprezzabili. Ne segue che il Bellarmino si trovò in una situazione analoga a quella di Agostino rispetto alla teoria delle fasi lunari. Ma mentre l’ Ipponense seppe rimanere in equilibrio logico, Bellarmino non ebbe questa capacità. Se l’ avesse avuta, avrebbe infatti intuito non che Galileo aveva ragione, ma che avrebbe potuto averla. E’ su questo piano che si consumò il suo peccato di inaccoglienza, di cui il papa ha dovuto fare ammenda.
Ebbene all’ origine di tale peccato sta anche il pnc, sebbene non in modo diretto, ma mediato dal principio del terzo escluso. Se infatti parto dall’ idea della struttura apofantica del giudizio come specchio dell’ essere e del non essere della realtà, segue che giudizi opposti a) non possono essere simultaneamente veri; b) non può essere vero un giudizio terzo. Aggiungendo il postulato di conoscibilità del reale, ne deriva la necessità di schierarsi o con Galileo o contro.
Ma facciamo un esempio di vita spicciola: la signora Maria ha due figli, Giovanni e Antonio, che stanno litigando e suonandosele di santa ragione. E a questo punto Maria ha un problema: può anche darsi che uno dei due abbia effettivamente torto, o almeno un po’ più di torto. Ma se ella prendesse risolutamente la parte dell’altro, potrebbe il primo sentirsi accolto? E il suo sentirsi rifiutato non finirà per peggiorare le cose, inasprendolo ancor di più? Per cui se si vuole salvare l’accoglienza di entrambi, bisogna tenere insieme il conflitto, la ragione con il torto.
Questi due esempi non ci hanno ancora consentito di raggiungere in modo perspicuo il nodo teoretico, ma ci hanno introdotto nel suo orizzonte. Perché il conflitto non sia risolto in modo violento, con la negazione di uno dei termini, occorre superare il principio del terzo escluso. E, in secondo luogo, ci possiamo aspettare che il pnc presenti una inadeguatezza radicale rispetto all’ obiettivo dell’ unum, laddove esso si voglia intendere come principio normativo anche degli opposti. Vediamo allora di approfondire la nostra ricerca seguendo una pista ulteriore: e lo faremo considerando filosoficamente l’ articolazione di unum e accoglienza.
Klossowski nella sua trilogia dal titolo Le leggi dell’ ospitalità, incentrata espressamente sul tema dell’ accoglienza, osserva che l’ ospitalità è tanto più eccellente quanto più l’ ospite non sia richiesto di adattamenti gravosi. In particolare in Roberta stasera egli analizza le due figure dello straniero, e dell’ ospitante che si estranea affinché l’ ospite possa sentirsi non solo a proprio agio, ma addirittura padrone di casa. Lo straniero è la figura di massima accettazione della disciplina dell’ accoglienza e dell’ asimmetria che essa dice col suo stesso esistere. Da qui l’ incredibile atteggiamento di autoespropriazione di chi si fa straniero al fine di de-estraniare l’ ospite.
Abbiamo perciò due vie, entrambe in grado di originare una convivenza ordinata; ma non si può dire che esse siano ugualmente feconde di comunione. Infatti è solo nell’ estraniazione dell’ ospitante che la comunione è accessibile, in quanto solo in questo modo è possibile un bilanciamento dinamico fra simmetria e asimmetria. Se infatti l’ ospitante non si kenotizza fino al segno di aprire all’ ospite la partecipazione all’ attività normativa, resta un’ alterità radicale che è alterità di dignità. Allora è ben vero che servi e padroni posso convivere; non è vero che possono costituire un noi libero.
Se è così, la dinamica dell’ ospitalità, per essere perfetta, richiede un’ isomorfia con il processo nuziale di espropriazione/reintegrazione/riappropriazione che Kant descrive nella Metafisica dei costumi. Infatti l’ equilibrio e la giustizia si hanno solo nella doppia kenosi, nella doppia reificazione tanto di chi accoglie che di chi è accolto. Solo in questo modo si vincono le patologie conseguenti ad una asimmetria statica. Ciò dice in altri termini che l’ ospitalità e l’ accoglienza sono suscettibili di essere valutate normativamente non solo verso l’ ospite, ma anche verso l’ ospitante. Il tentativo che Klossowski fa di definire le leggi dell’ ospitalità dal punto di vista della perfezione dell’ ospitalità, e dunque della definizione della figura ideale di ospitante, per questo motivo non ha nulla di peregrino in via di principio, sebbene possano essere discutibili ovvero ostici alcuni esiti che egli ipotizza. Non vi è dubbio, infatti, che se molta problematica sociale alla fin fine è riducibile ad un ordinamento insoddisfacente delle dinamiche di accoglienza, non è vero che la soluzione generale sia di tipo moralistico: e cioè che tutto si riduca all’ educazione dell’ ospite al rispetto della legge. Ciò sarebbe vero solo se la legge fosse comunionalmente perfetta e adeguata. Ma, da che mondo è mondo, una tale capacità legislativa non è ancora divenuta patrimonio comune dell’ antroposfera. Ma approfondiamo il discorso.
Klossowski osserva giustamente che il modello ideale dell’ anfitrione si ha nell’ estraniarsi a favore della piena ospitalità dell’ ospite. A questo punto le parti sono invertite, e perfetta ospitalità si ha solo se adesso è l’ ospite ad estraniarsi a favore dell’ anfitrione. Si avrebbe così un modello dinamico in cui il soggetto accolto si fa accogliente e l’ accogliente viene accolto, in una iterazione senza fine dell’ inversione dei ruoli. Ora il modellino teorico funziona, ma in pratica chi e cosa garantisce che, una volta al potere, l’ ospite non si sieda e non divenga tiranno? La domanda non è per nulla banale, se pensiamo che nel mondo divino la garanzia dell’ eternità della kenosi è addirittura una Persona: lo Spirito Santo. Per cui la domanda è: si tratta di una garanzia antropologicamente sostituibile, oppure no? O lo Spirito Santo ha una centralità antropologica che sola rivela il significato di Gen 1, 26-27?
Ebbene nella ricerca delle condizioni di possibilità dell’ unum, scopriamo - seguendo la pista indicata da Klossowski - alcuni elementi strutturali: a) l’ unum si realizza nella reciproca comunicazione e accoglienza; b) l’ accoglienza, per essere perfetta, si deve esercitare su tutti i piani della persona; c) ciò vuol dire che non basta accogliere il corpo; neppure basta accogliere gli affetti dell’ altro; invece occorre accogliere anche il giudizio estraneo. Solo se si giunge ad accogliere l’ estraneo nelle tre forme della corporeità, della affettività e del giudizio si può dire che l’ unum sia raggiungibile.
Fermiamoci allora su quest’ ultimo elemento, che è quello che qui interessa. Qual è il giudizio estraneo? Qual è la forma del giudizio estraneo, laddove l’ estraneo supera il diverso e ne segna il limite? Io penso che come il vertice dell’ estraneità è nel rifiuto - ossia nell’ inaccoglienza - così la forma del giudizio estraneo è appunto il rifiuto. Supponiamo dunque che lo straniero rifiuti l’ ospitante, e che questi non si arrenda e decida di essere comunque accogliente. A questo punto - per essere perfetta - la sua accoglienza deve essere anche accoglienza di giudizio, e ciò significa che il rifiuto diventa per l’ ospitante un criterio relazionale e di giudizio.
Se la logica dell’ ospitante (ora divenuto estraneo) è alattica, per il principio di simmetria - che è alla base della possibilità dell’ unum - egli non potrà che giudicare se stesso e l’ ospite secondo il medesimo criterio. Il rifiuto dice asimmetria, e l’ asimmetria chiama asimmetria. La risposta all’ inaccoglienza sarà l’ inaccoglienza. Se invece la logica del rifiutato è simattica, vi è la possibilità che la risposta al rifiuto non sia il rifiuto, senza per questo derogare dal principio di simmetria. E questo non perché in questo caso il rifiutato non veda la differenza fra sé e il rifiutante; ma perché la sua logica è ora in grado di tenere insieme simmetria e asimmetria senza che il conflitto logico debba debordare in conflitto esistenziale e pratico. In pratica a questo punto dal giudizio di diversità non segue più come necessario il giudizio di non uguaglianza. Ma diversità è non uguaglianza. Dunque lo scoglio del rifiuto impone come condizione di possibilità dell’ unum una logica della contraddizione, perché esige di tener insieme i due giudizi: io sono come te e io non sono come te. Ovvero: ‘io sono te, ed essendo te rifiuto’; e ‘io non sono te, e non essendo te non rifiuto’. Dunque io rifiuto e non rifiuto. Questa posizione contraddittoria è l’ unica che può salvare la possibilità dell’ unum. Ed è significativo che davanti allo scoglio del peccato metafisico del rifiuto, l’ unum esiga per vincere una logica infinitista.
Ne segue che senza il superamento del pnc per un verso l’ unum sarebbe vinto dal peccato metafisico; e per un altro detto peccato genererebbe violenza in modo inarrestabile. Posto il rifiuto, non vi sarebbe risposta possibile diversa dalla distruzione di uno dei termini: o nell’ autoschiacciamento dell’ insignificanza per salvare la dignità dell’ altro e la possibilità di continuare ad amarlo; o nella guerra che esige l’ annientamento dell’ altro (ovvero della sua pubblica immagine) come prezzo di autodifesa.
     
Roberto Bertacchini --- robertacchini@yahoo.it