Estratto Agostino
 
Estratto dal libro su Agostino
STRUTTURA

Sigle
Note diacritiche

Introduzione

La difficoltà dell’analisi diacronica
Oltre lo sporadico
La criteriologia
La bibliografa agostiniana sull’unum
Il presente lavoro nel contesto degli studi agostiniani
Agostino e interdisciplinarietà
L’itinerario proposto
Il metodo esegetico
La prospettiva filosofica
Le citazioni
Lo stile.

La prospettiva teoretica

Cenni di antropologia agostiniana
Excursus: Il concetto di persona nella letteratura latina anteriore e in Agostino
La gioia in Agostino
La dottrina dell’anima e della vita affettiva
Il fine dell’anima, ossia la prospettiva ascetica
La dinamica dell’anima e delle sue facoltà
Anima, interiorità e vita affettiva
Giudizio e concettualizzazione
La conoscenza
Quadro generale
L’orizzonte della fede
Le due filosofie cristiane di Agostino
L’uomo è Dio?
Fede e unità
Quadro generale della metafisica agostiniana
La struttura gerarchica del reale
La struttura metafisica dell’ente-bene
Henologia e ontologia
La differenza


Cenni di metafisica dell’unum
La rilevanza dell’unum in Agostino
L’unità trinitaria
La cristologia dell’unum
L’esperienza dell’unum
Unum e condivisione
Unum, giustizia, pace e conflittualità
Unum e beatitudine
Unum e misura

Cenni di pneumatologia
La novità di Agostino
Spirito e Provvidenza: il creato come ordine
Spirito, purezza e proessere
Spirito e libertà, unum e peccato

La teoria dell’amore
Centralità etica dell’amore e ascetica
La dottrina dell’uti e del frui
Amore e politica
Amore e grazia

La prospettiva biografica
La vita
La personalità sociale di Agostino
L’aristocrazia di Agostino
La romanità di Agostino
Dialogo, autoritarismo e intolleranza
Dialogicità letteraria
Autorità e violenza
Intolleranza ed eresia
I rapporti amicali
L’amicizia nel suo significato e origine filosofica
Excursus: L’amicizia in Cicerone e la sua influenza
L’amicizia e il cristianesimo
L’esperienza agostiniana dell’amicizia

Conclusioni
Visione sintetica dell’itinerario e considerazioni generali
Difficoltà esegetiche
La prospettiva biografica
La prospettiva teoretica
La bellezza dell’unum in Agostino
Considerazioni teoretiche
La difficoltà del modello
Unum e cibernetica
A. Unicità del controllo
B. Adeguatezza del calcolo
C. Comunicazione
Analisi di adeguatezza dei filtri culturali e ideologici
A. Unicità del controllo.
B. Il calcolo.
L’etica dell’unità
Le dottrine embrionali
Amicizia e conoscenza
C. Comunicazione.
La problematicità dell’unum
Dualismo e unum
Metafisica e Rivelazione
Il concetto di natura
Le conclusioni affrettate
Gli schemi statici
Omeostasi e logica
Ideologia e Storia
Le condizioni trascendentali del progresso umano
Storia e storiografia cristiana
Unum e cultura

Note di chiusura
Rileggere oggi Agostino
Filosofia e beatitudine
Persuasione e verità



Ideologia e Storia
Le condizioni trascendentali del progresso umano – La Storia è dinamismo, variazione. Essa mira al progresso per la forza di una norma interna della ragione che esige di preferire il meglio al peggio. Dunque per una esigenza d’ordine. Ma i criteri del meglio e del peggio sono criteri essi stessi soggetti alla norma previa appena enunciata, che esige di abbandonare una criteriologia peggiore per una migliore. E siccome sono criteri di ragione, sono soggetti alla possibilità di formulazioni erronee o i-nadeguate o migliorabili. Ma, si può obiettare: il meglio e il peggio ineriscono per lo più all’evidenza. Se dunque l’evidenza inganna, risorge il problema della fondazione della conoscenza.
La questione è complessa e ne accenno appena. Lo scetticismo è vinto dal riconosci-mento della capacità autocorrettiva della ragione e dall’idea, sostenuta anche da Henrici nelle sue lezioni in Gregoriana, che la Verità sia il termine di un processo di avvicinamento asintotico. Ma, ciò che qui in-teressa è piuttosto un secondo versante, concernente il fatto che meglio e peggio sono correlativi appli-cabili in modo molteplice. Se io cerco di migliorare la fides quae, lottando contro l’eresia, sto perseguen-do un meglio innegabile. Perciò localmente non contravvengo alla norma di ragione. Ma globalmente? Questo è il punto che non solo sfuggì ad Agostino, ma anche ai suoi studiosi e alla teologia successiva. È mancata infatti la domanda cruciale che aprisse alla domanda illuminante. La domanda cruciale è: è possibile che dedicando attenzione – e dunque energie – a un meglio di minor valore si trascuri un me-glio di maggior valore? La domanda illuminante è: quale criterio d’ordine dobbiamo selezionare per ge-rarchizzare assiologicamente gli impegni etici verso il meglio?
Vi è dunque un rapporto circolare fra etica e sapere. Se io gerarchizzo in forza di un cri-terio sbagliato o inadeguato, come effetto avrò un’etica almeno inadeguata, perché essa non potrà non enfatizzare eccessivamente ciò che andrebbe ridimensionato, e trascurare ciò che andrebbe maggior-mente valorizzato. Ma d’altra parte l’etica è già inerzia di sapere che riproduce se stesso, per cui senza la purificazione dell’etica è impossibile la purificazione del sapere. Da qui il possibile valore della spiritua-lità, che per vie nascoste può giungere ad influire sull’etica rinnovandola, e dunque in seconda istanza sul sapere. Torniamo allora alla questione storica. Il Medioevo latino riceve Agostino, e lo studia molto più di altri autori. Ma lo studia male. E questo almeno per due motivi: in parte, come ha osservato anche Gilson, perché non lo ha capito; ma in parte, ed è questo il punto che mi sembra trascurato dalla critica, perché non ha focalizzato convenientemente i criteri di purificazione del pensiero ereditato.
Nel Vangelo troviamo l’espressione sapienziale: l’albero buono produce frutti buoni, l’albero cattivo frutti cattivi. Qui abbiamo un criterio di giudizio che consente di rispondere alla domanda illuminante: il criterio che definisce il meglio è la vita. Il frutto buono edifica, vitalizza. Il frutto cattivo de-prime la vita e la vitalità. Applicando il criterio al sapere, è migliore quel sapere che ravviva la vita spiri-tuale; è peggiore quello che la deprime. Ma allora a questo punto abbiamo un criterio e una metrica: è la fecondità spirituale che dice la vitalità di un sapere.
La storia del pensiero occidentale è, purtroppo, la storia di un lento e progressivo scol-lamento della filosofia dalla vita civile. La sinistra hegeliana tentò di reimmergere il sapere nella storia e nel sociale, ma sbagliò metrica e teoresi e facendo il disastro noto. Purtroppo il cristianesimo non era riuscito a focalizzare in tempo una criteriologia migliore. Per cui Agostino è sì studiato. È sì migliorato dal pensiero successivo. Ma senza la luce di una criteriologia che mira a preservare ciò che è più vitale spiri-tualmente, e a purificare ciò che è indebolito da qualche patologia. Da qui l’esito insoddisfacente di con-servare a volte e tramandare ciò che è meno alto; o trascurare ciò che è più geniale e profondo.
Ciò che io auspico non è che si dimentichi la teologia della grazia dell’Ipponense, ma che si passi da un’aspettativa di ricerca che legge la comunione alla luce della grazia, ad un’altra che legga la grazia nella luce dell’unità. Può darsi che mutando l’ordine dei fattori il prodotto non cambi. Ma potreb-be anche essere che in questo caso non valga la proprietà commutativa, e vi sia asimmetria fra le due aspettative. E allora, ciò che mi attendo è che i frutti non si equivalgano nei due casi. In altri termini è plausibile che l’accelerazione del progresso morale dipenda e sia correlativa all’acutezza e profondità della teoresi intorno a ciò che è meglio. E personalmente ritengo che una valorizzazione conveniente della comunione non sia di certo un danno, ma produrrebbe integrazione fra teoresi e Storia.

Storia e storiografia cristiana – Se questo è l’orizzonte, ne deriva l’importanza si una sto-riografia che focalizzi domande in passato poco presenti in letteratura. L’idea più ingenua della storiogra-fia, anche ecclesiastica, è quella cronachistica. E, certo, la cronaca è necessaria. Se non fosse rimasta la memoria dei dati, dei fatti, come potremmo interpretarli? Perciò non è che Eusebio sia stato inutile, né Rufino o altri. Ma è anche chiaro che, partendo dal concetto teologico che la Chiesa Apostolica è norma normans, e che in qualche modo è la memoria che ci consente l’orientamento verso l’escatologia, è inde-rogabile comprendere la necessità di una purificazione, che non può avvenire se non attraverso un con-fronto. Perciò la domanda è: in cosa la Storia mostra adeguatezza e sviluppo del modello evangelico, e in cosa mostra corruzione di esso?
È chiaro poi che una tale impostazione storiografica suppone una riflessione o una pre-sunzione di conoscenza intorno alla cultura evangelica. E questo è un tema troppo complesso perché in questa sede possa essere convenientemente affrontato. Mi limito allora ad osservare che il credo racco-glie molti articoli di fede, che non sono stati allo stesso modo considerati dalla teologia e dalla pastorale. Moltissimo è stato scritto e detto sui primi, sulla dogmatica trinitaria e sulla cristologia. Ma già quando in-contriamo discese agli inferi, sembra di essere davanti o a qualcosa di ovvio, o di inutile. Questo articolo non fa parte del vissuto comune della fede dei battezzati. Non può, perché è mancata una riflessione teologica proporzionata. E lo stesso possiamo dire in genere della seconda parte del credo.
Noi crediamo la Chiesa una, cattolica, apostolica, la Comunione dei Santi. Ma questa è per lo più, oggi (rispetto alla massa dei battezzati), una fides quae astratta, fredda, razionalistica, senza agganci col quotidiano. In Atti, invece, Luca presenta la medesima fides quae, ma vissuta, calda, palpi-tante di affetto, pur fra difficoltà e conflitti anche interni alla Chiesa. Il messaggio di Atti è infatti che i con-flitti e le divergenze ci sono, ma la Carità prevale e trova il modo di far di essi una ricchezza feconda. E questa non è solo ascesi o morale: questa è cultura. Ma proprio questa cultura, che era il collante che rendeva possibile l’articolazione della fides quae in fides qua, è ciò che si è perso. La Chiesa Apostolica non credeva solo la Comunione, ma anche per mezzo della Comunione. Non credeva solo la Chiesa u-na, ma anche per mezzo della Chiesa una. E lo poteva fare perché vi era una conversione coerente che non era solo soggettiva, ma intersoggettiva. Vi era stata, cioè, una conversione culturale dei primi cristiani. Questo è ciò che col tempo si è perso, senza neppure accorgersi. E questo è ciò che occorre-rebbe capire: com’è stato possibile? Perché fino a quando ciò non sarà chiarito, resta illusorio immagina-re di poter riproporre, in modo veramente efficace e generale, quel messaggio antico.
In metodologia storiografica si distinguono, nei processi storici, le cause in favorenti e antagoniste (o avverse). Questo è un fatto generale. Ad es. ciò, che avvenne nell’Africa romana nel V secolo, fu decisivo tanto per le successive sorti dell’Impero, che per la prossima islamizzazione. Il com-portamento del conte Bonifacio aprì l’Africa ai barbari, che presto la sottomisero. Ma questa nuova situa-zione politica ne provocò il crollo economico. Questo accelerò il processo di decadenza dell’occidente la-tino, col risultato che – indebolita – l’Africa ex-romana non avrebbe avuto alcuna chance contro qualsisi potenza in espansione. Per cui fu facile agli arabi prendersi tutto. Qui abbiamo dunque una serie impres-sionante di cause favorenti l’espansione islamica. Viceversa nella Grecia antica l’espansionismo di Atene fu contrastato da Sparta e dalla politica di alcune importanti colonie, che perciò – globalmente – si pose-ro come cause ad esso antagoniste.
Anche il cristianesimo, come processo storico, conobbe e conosce tanto cause che ne favoriscono (e ne favorirono) l’espansione, quanto che la frenano e contrastano. Ad es. lo zelo missiona-rio ha operato potentemente in senso espansivo, fin dai tempi della Chiesa Apostolica. Inversamente l’islam – nel suo insieme – si è posto come causa antagonista all’espansione cristiana. Ma non fu per nulla l’unica. L’illuminismo e il marxismo furono fenomeni culturali antagonisti, scopertamente contrari al-la civiltà cristiana e, in particolare, cattolica. Questo fu percepito assai bene dal Magistero, che non man-cò di stigmatizzarne gli errori.
Tuttavia se in antecedenza non fossero giunti i barbari, non è tanto evidente che gli arabi avrebbero avuto vita facile, dal momento che non riuscirono a sopraffare l’Impero romano d’oriente. Allo stesso modo perché una o più cause, avverse all’espansione cristiana, possano incidere efficacemente nella loro intenzione di contrasto, occorre che all’interno della cristianità siano previamente maturate del-le debolezze proporzionate. E qui si pone dunque un problema generale di strategia. L’azione pastorale ha sempre mirato – almeno nell’intenzione – a contrastare l’insorgere di debolezze interne. E le modalità che ha sviluppato nei secoli sono state essenzialmente di due tipi: etico-normativa e ascetica. Si è punta-to sulla definizione dei comportamenti socialmente accettabili, ovvero sulla pulizia interiore dei cristiani. Ma in questo modo si sono lasciati scoperti fronti di enorme portata.
Ad es. non ci si è mai chiesti (o molto poco) in che modo una Istituzione cristiana può di fatto generare fenomeni antiapostolici di controtestimonianza. Oppure in che modo il reciproco rappor-tarsi delle istituzioni cristiane rafforzi o indebolisca l’efficacia dello slancio apostolico. Oppure quanto sia importante la pulizia e la difesa dell’immagine della Chiesa (cfr però Duc in altum cit.), e quanto e come giochi la trascuratezza nel proteggerla. Questa carenza di interrogativi attesta una carenza della funzio-ne intellettuale all’interno della Chiesa. E cioè attesta la necessità di ripensare la funzione dell’intellettuale cristiano. Non basta tramandare il dogma. Neppure basta approfondirlo. E nemmeno è sufficiente che gli intellettuali cristiani studino i modi di comunicare il dogma ai non credenti. Tutto questo è certamente necessario, ma oggi è troppo poco.
Occorre aprire un fronte di lotta molto più profondo e serrato, che alla luce del NT esa-mini quando e cosa, al di là degli errori morali personali, si sia introdotto nella vita della Chiesa di non conforme alla sua missione. Questa potrebbe essere una nuova branca della teologia del peccato, del discernimento degli spiriti, e persino della storiografia teologica ecclesiastica. Il mio auspicio è che con urgenza seguano adeguate ricerche.

Unum e cultura – Anche dal poco che si è visto, è chiaro che vi fu uno iato fra la spiritua-lità agostiniana, fortemente protesa alla Comunione, e la cultura disponibile, non sempre adeguata all’impresa. E questo è un problema che oggi è come minimo non meno grave di un tempo. Pensiamo ad es. al danno che una logica inadeguata finisce per fare ogni volta che con essa si pretenda di gestire un conflitto. O anche alla dottrina dell’amicizia, quasi sempre lontanissima dall’ideale e dalla prassi evange-lica, con una capacità di farsi carico dei pesi altrui che è praticamente ridicola e che per lo più riduce la carità cristiana a filantropismo: che è meglio della misantropia, ma è pure lontano anni luce dalla comu-nione. Oppure al circolo vizioso che si produce per il doppio effetto di una preghiera che non è intimità ri-spettosa dello Spirito, e dell’ideologia dell’alterità.
O pensiamo al narcisismo, così difficile da stanare e combattere nelle sue forme più raf-finate: l’autocompiacimento della pulizia spirituale o l’autocompiacimento di essere dalla parte giusta (della serie: io ho ragione, loro hanno torto; ma non meno noi abbiamo ragione, lui ha torto. È facile con-dannare Bin Laden, come è facile condannare Bush: c’è sempre un noi contro un lui. Il difficile è acco-gliere entrambi, con un atteggiamento materno. La tossicità delle faziosità ideologiche è sempre connes-sa al narcisismo collettivo che esse inducono: e non cambia niente che si tratti di nazisti, di comunisti, di musulmani o di cattolici. Nel IV secolo i cristiani fecero cose indegne, non diversamente da chiunque al-tro nel momento in cui abbia il potere, cominciando da Davide, fino a Clinton). Il narcisismo ha due figli: la superbia e l’orgoglio. Il fariseo è un narcisista, superbo e orgoglioso. E il suo è un narcisismo colletti-vo, per giunta premiato dal successo religioso, perché la gente al fariseo dava onore sulle piazze. E quello collettivo è il più difficile da sradicare, perché quando ci si fa un film in compagnia non è tanto faci-le non scambiarlo per realtà. Aristarco ci provò a dire che il sole non poteva girare intorno alla terra. Ma passò dei guai. Come li passò Galileo, dopo quasi 2.000 anni.
La purificazione degli schemi precomprensivi è la più difficile. Essa esige la fatica e l’impegno dello studio amoroso. Chi si illude che il cristianesimo sia solo un fatto di cuore, è un intelletto oscurato, inconsapevole degli infiniti giudizi che il solo uso del linguaggio comporta. E ben pochi di essi nascono dal Vangelo. L’unità è un’impresa non meno ardua, solo perché è bella. E per condurla in porto la buona volontà non basta, come non basta l’ascetica tradizionale. Occorre anche un sapere adeguato e raffinato. Un sapere che sappia mettere a fuoco i meccanismi produttori di divisione, e li disarticoli. In alcuni passi di Agostino il concetto di ordine non è disgiunto da quello di carità; mentre per noi il concetto di ordine non include la carità, e carità non include unificazione. Ma tali concetti esprimono un sapere, che non è neutro sull’agire quotidiano. Ed è tutto da discutere che in questo caso le nostre precompren-sioni siano migliori di quelle dell’Ipponense.
L’analisi dell’adulazione ha mostrato non solo la debolezza, ma l’intrinseca nocività delle posizioni ingenue, apparentemente innocue, una che enfatizza il vero fino a rendere irrilevante il bello; l’altra contraria, che enfatizza il bello fino a rendere irrilevante il vero. E se basta niente a esser preda di Scilla o di Cariddi, solo un sapere navigato può tenere la rotta di una posizione equilibrata che integri e-stetica e veracità. E non è per niente vero che basta l’istinto. Non è vero, perché un gusto raffinato può guidare l’estetica, mentre solo la riflessione consapevole può giudicare intorno alla necessità di comuni-care il vero. E se Cicerone ebbe ragione a valorizzare la sobrietà di parola come indicatore della capa-cità di ascolto e della prudenza del giudizio, anche maggior rilievo ha la questione dello sgradevole.
Io devo ringraziare il mio sistema nervoso, che mi manda un segnale di dolore se ap-poggio la mano su un ferro che scotta. Se non provassi dolore, non ritirerei la mano. Il dolore ha dunque una funzione di salvezza e di protezione. È un allarme, un avviso che consente di attuare strategie che preservino l’integrità fisica. Perché allora non siamo culturalmente capaci di ripensare nello stesso senso il dolore morale? Perché il messaggero che presenta lo sgradevole è rifiutato insieme al messaggio? E perché la meditazione sulla stupidità che per questo motivo rifiutò i profeti non è divenuta occasione di una prassi più saggia, e ancor oggi siamo nella situazione di Socrate, e chi corregge chi è più in alto è mal tollerato dall’autorità costituita? Certo, in qualche caso l’ideologia del ne sutor supra crepidam gioca tuttora, ma sempre meno. Dunque non è solo questo. Piuttosto è la mancanza di un sapere contrario che pesa e decide.
E qui vengo all’ultima osservazione. Il punto di partenza di Agostino è alto: a Milano co-me in Africa, la Chiesa è ancora Comunione e i cristiani sono ancora uomini di preghiera, capaci di una fede tangibile, come quella dell’emorroissa. Agostino stesso narra di un episodio nel quale a Cassiciaco fu guarito dal mal di denti per la preghiera comunitaria dei suoi amici e di sua madre. Non solo, ma tale comunionalità con Mario Vittorino prima, e molto più organicamente con Agostino poi, per giunta passa sia nella dogmatica trinitaria e cristologica, e non meno nella teologia spirituale e nell’ecclesiologia.
Con tutto ciò, la deriva storica della Chiesa latina fu quella che sappiamo, con una dilui-zione sempre più forte della comunionalità, e con la trasformazione della Chiesa in agenzia moralistica promotrice della virtù, sul modello dell’etica stoica. E questo è così vero che valori tipicamente evangelici quali la solidarietà e l’unità, irrealizzati e in ombra nella civiltà cristiana che arriva agli orrori descritti da Manzoni nella Storia della colonna infame, riemergono al suo esterno, nell’ideale illuministico di fraterni-tà; nella solidarietà con gli ultimi di Saint Simon, che addirittura concepisce il progetto di un nuovo cri-stianesimo; o infine nell’unità comunista e fascista (cosa questa che si dimentica volentieri). Ed è solo dall’esterno che questi ideali trascurati rimbalzano nuovamente all’interno della Chiesa, riemergendo in movimenti di spiritualità che li rivalorizzano. È poi un fatto che l’ecumenismo nasce nel mondo prote-stante sul finire del sec. XIX, ossia dopo l’illuminismo e dopo il Manifesto di Marx.
Questa stranezza interroga: perché? Perché un percorso tanto anomalo? A me pare plausibile che la teoria delle variabili lente offra una cifra di intelligibilità del fenomeno. L’unum agisce come una variabile lenta. E infatti riemerge dopo secoli di sonno. Ma riemerge dove non ci si aspetta, in persone come Saint Simon, eterodosse, ma per le quali il Vangelo fu rilevante. Perciò che vi sia un ap-porto causativo del Vangelo è indubbio, al punto che nell’immaginario collettivo è passata l’idea di Gesù come primo socialista della Storia. Ebbene una variabile lenta non può avere una storia simile, se non per la presenza di altre variabili lente, ma di segno opposto, che la contrastino. Ed esse non possono che essere convinzioni contrarie, dirette o indirette.
E tali presenze in Agostino si vedono già molto bene. Un solo esempio: se l’unum è ef-fetto di natura, e dunque all’uomo è precluso nella sua forma propria, da ciò segue in modo immediato un’ecclesiologia moralistica: non è importante che la Chiesa manifesti al mondo la comunione divina: è sufficiente che il vescovo insegni la dottrina ortodossa. Allora è vero che la prassi di Agostino arriva all’eroismo della riconciliazione coi donatisti. Ma c’è anche l’altra (cfr nota 686) che, non ostante il grave scandalo da lui dato, depone Antonino solo dalla giurisdizione di quelle comunità che gli si erano ribella-te. E c’è l’ideologia che giustifica questa seconda prassi, che poi verrà accolta dalla Chiesa altomedioe-vale, e che peserà – sul lungo periodo – molto più dell’esempio dato nella crisi donatista.
La teologia spirituale insegna che gli attacchi diretti possono anche essere diversivi, che mirano a distogliere l’attenzione dai veleni più micidiali, che sono gli attacchi indiretti, ossia le tentazioni sotto apparenza di bene. Le variabili lente che più efficacemente contrastarono l’unum, non furono quasi mai percepite come dei pericoli, tanto è vero che non vi fu quasi mai una reazione veramente veemente. L’eccezione che conferma la regola è la rivolta antilogica dei secoli XI e XII, purtroppo perdente. Ma per il resto è buio. Vi fu dunque un problema di discernimento. E perché? La mia convinzione è che il di-scernimento è un’arte complessa. Esso ha un versante importantissimo che è la purezza del cuore. Se gli affetti sono disordinati, si è cotti in men che non si dica. Ma non è affatto vero che la purezza interiore sia anche pulizia generale.
La retta intenzione è necessaria, ma non sufficiente. Per vincere gli errori ideologici e po-ter parare i gravissimi danni che essi fanno, serve lo studio. Certo, uno studio possibilmente ardente, promosso da docenti infiammati, della tempra di Agostino. Ma studio. Studio notturno, quello di S. Gio-vanni della Croce. E studio erudito: quello di Erasmo e di Agostino, o di Basilio, o Gregorio di Nissa, o di Eriugena e tanti altri. Ma solo se sarà studio notturno e ardente, potrà essere studio illuminato e illumi-nante. La convinzione che lo studio non serva, è solo un perfido attacco di chi sta preparando nuove ten-tazioni più sottili con le quali sedurre, e vuole in tutti i modi impedire che guerrieri attrezzati le smascheri-no in tempo.
Roberto A. Maria Bertacchini
     
Roberto Bertacchini --- robertacchini@yahoo.it