La Pira
 
LA PIRA O DELLA POLITICA COME FORMA ALTA DI CARITÀ:
COSA RESTA DI QUELLA LEZIONE?

Piersandro Vanzan SJ e Roberto Bertacchini
Maurilio Adriani ritiene che La Pira sia l’uomo che meglio di chiunque altro, nel sec. xx, ha compreso la funzione esemplare di Firenze come luogo al quale le genti di tutto il mondo guardano. Una funzione radicata non solo nell’epoca comunale - quando, in memoria del Savonarola, si votò a maggioranza per la consacrazione a Cristo Re e Maria Regina - o nel famoso Concilio del 1439-42, ma anche nello splendore artistico qui concentratosi lungo i secoli e nella vita contemplativa dei suoi tanti monasteri: per La Pira tutti riflessi dello splendore divino. Questo eccezionale passato storico, culturale e religioso di Firenze è, secondo l’Adriani, un tesoro che il presente deve saper valorizzare non solo a livello turistico, e nessuno meglio di La Pira ha sentito questa responsabilità. Domandandosi poi quanto resti dell’immensa opera lapiriana, egli risponde che solo nella misura in cui resteremo fedeli a quell’eredità, La Pira non sarà vissuto né avrà operato invano. Ma procediamo con ordine.

Un originale personaggio coinvolto nell’utopia del «Regno»

Giorgio La Pira, originale sindaco di Firenze; vivace «professorino» dell’Università Cattolica che, insieme a Dossetti, Lazzati, ecc. in casa Padovani, a Milano, progettava il futuro dell’Italia libera (1942-43); uno dei protagonisti alla Costituente, sempre con i «professorini», nella singolare «comunità del porcellino», ospiti delle sorelle Portoghesi alla Chiesa Nuova nell’Urbe (1946-47); grande nel Diritto romano e amico battagliero di Fanfani, è il personaggio di cui in questi mesi si fa un gran parlare, ricorrendo il centenario della sua nascita. Speriamo non sia l’ennesima forma - questa volta celebrativa della sua utopia, in passato tacciata di scarso realismo -, per vanificare la sua eredità. Perciò domandiamoci: nel messaggio e nell’agire lapiriano cosa è ancora valido e attuale? Dove la sua azione ha portato frutto e la sua ispirazione potrebbe ancora portarlo? Questi gli interrogativi cui tentiamo di rispondere, anche per contrastare sia la rimozione che ne hanno fatto i più, sia una certo lapirismo maldestramente promosso da taluni amici. È noto infatti ce un certo «lapirismo», o mantello protettivo steso intorno alla sua figura, già durante la vita ma ancor più dopo la morte, non ha ancora permesso di studiare la maggior parte delle sue carte.
Ma quanto conosciamo è già sufficiente, e ne avanza, per cogliere i tratti salienti dell’utopia concretissima del Regnum Dei che segna tutto il pensare e agire lapiriano. Basterebbe questa pagina dove, indicando nella pace mediterranea il principio di una nuova civiltà mondiale, riconosce che è un sogno, ma aggiunge: «Questa età apocalittica in cui viviamo e nel cui interno sempre più ci inoltriamo, è appunto l’età dei sogni (l’immaginazione al potere), l’età dell’utopia, l’età nella quale l’utopia diventa storia e il sogno diventa realtà». Perché, ecco il punto, due sono i modi di concepire la politica: quello del potere, che accidentalmente deve anche gestire il quotidiano - il che significa approfittare del potere ottenuto per mantenerlo -, oppure quello del servizio, come occasione di ridurre lo stacco dall’orizzonte ideale predefinito. La Pira fa parte di quella eccentrica ma necessaria squadra, antica e sempre nuova, che da Platone, Thomas More e Campanella, passando per Fourier, Saint-Simon e Marx (di cui La Pira scrive: «È ebreo: il Manifesto non è comprensibile senza l’Esodo»), giunge a Luckàs, Bloch e Silone, ma sempre ruotando, più o meno esplicitamente, intorno all’utopia di Gesù Cristo: nato per essere Re, ma non disponibile a regnare se non in un modo e Regno tutt’altro. Per La Pira, su questa «utopia ma concretissima» del Regno - quella dei Profeti (le spade che diventano vomeri) e di Atti degli Apostoli (la condivisione dei beni in forza dell’essere cor unum) - non si discute: o abbracciamo la speranza teologale e, in spe contra spem, puntiamo sull’oltre di quanto è umanamente possibile, oppure l’impegno politico non ha valore etico.
Ecco perché l’immaginazione è un orizzonte fondamentale di senso: perché la storia di domani è l’immaginario di oggi. Ed ecco perché La Pira afferma: «Noi non ci muoviamo sul terreno astratto dell’utopia, ma restiamo saldamente radicati in quello concreto della storia». E continua sottolineando come la Popolorum progressio di Paolo vi (1967) sia il baluardo che respinge l’accusa di utopia rivolta a coloro che operano per l’unificazione, pacificazione e sviluppo dei popoli. Dunque: «Siamo nel sentiero storico giusto - il sentiero di Isaia! - nell’alveo del fiume storico vero, quando da questa terrazza di Parigi guardiamo e indichiamo alle città di tutta la terra le prospettive dell’Apocalisse». In La Pira il passaggio di piani è continuo: utopia vale escatologia, e non si fa alcun problema che tra i suoi interlocutori vi siano anche non cristiani e non credenti. Profezia è per lui «anticipo escatologico» nei movimenti storici, e quanto realizza l’agire politico di quel genere corrisponde a «esperimenti d’avanguardia del Regno». Pensiamo ai viaggi di Giovanni Paolo ii in Polonia, facendo prendere coscienza alla nazione dell’utopia sommersa, o agli interventi di Giovanni xxiii nella crisi di Cuba e a quelli di La Pira nella crisi algerina e vietnamita.
È allora per questa coscienza profetica che già nel 1944, nell’opuscolo La nostra vocazione sociale ― indirizzato «soprattutto a quanti, nell’ambito dell’Azione Cattolica, si erano sino ad allora disinteressati di politica, in nome di una presenza esclusivamente ecclesiale» ― egli teorizza non solo la «discesa in campo» del mondo cattolico, ma la necessità di evitare l’ingenuità di interpretazioni intimistiche del cristianesimo, disincarnate da una proporzionata responsabilità politica. Consapevole dell’impossibilità di una reale neutralità etica dello Stato, gli è chiaro che dietro ogni politica vi è una metafisica, una precisa visione del mondo; e che non ogni Weltangschauung è compatibile con l’ideale cristiano, per cui accontentarsi di tutelare la vita ecclesiale con strumenti concordatari, dopo le esperienze del fascismo e del nazismo, sarebbe stato da incoscienti. Da qui il rifiuto di quella posizione di neutralità nei confronti della cosa pubblica, che in precedenza aveva dato frutti storici così amari: «una democrazia senza cattolici sarebbe stata una costruzione fragile e alla fine destinata al fallimento».
Certo, talvolta il dire lapiriano pare ingenuo e nel citare la Scrittura non usa le mediazioni care ai dotti. In lui prevale quel francescano procedere sine glossa che ha un sapore unico, la cui nostalgia è struggente ogni volta che, osservando la politica attuale, ne constatiamo le prospettive rachitiche, senza respiro né lungimiranza, dunque senza utopia. E se ciò è triste in generale, è particolarmente doloroso per la comunità cristiana, in quanto le proprie istanze escatologiche non hanno una sponda politica che le propugni, facendone una propria bandiera ideale. Anche per questo rilanciare il pensiero lapiriano oggi, nel centenario della sua nascita e in piena crisi teorico-pratica dei cristiani nella res publica, è quanto mai opportuno. Vediamone dunque qualche aspetto particolare e da vicino.

La Pira alla Costituente e per arginare l’incubo atomico

La Pira unì a eccellenti virtù morali anche qualità umane di tutto rispetto. Egli infatti non solo aveva un ottimo retroterra giuridico come romanista, ma il suo ingaggiarsi attivamente in politica lo portò a letture intense di economia, che assimilò talmente bene da poter respingere le critiche mossegli anche da personaggi ben in vista della politica nazionale. Proprio di tale solidità dottrinale - che fu anche di A. Fanfani, le cui teorie economiche furono apprezzate nell’area angloamericana ― oggi la nostalgia non è poca. Ma limitiamoci a due capitoli emblematici.
La prima occasione in cui emerse lo spessore culturale di La Pira fu la Costituente. Nella circostanza di quei lavori egli osservò che ogni architettura politica implica una visione del mondo, e dunque una metafisica. Punto questo su cui ancor oggi occorrerebbe riflettere a fondo. E quando Nenni propone le idee di Stato laico e di Stato dei lavoratori, La Pira contesta a fondo questi due punti. Quanto al primo, osserva che uno Stato laico sarebbe autocontraddittirio, perché contro la realtà di fatto, e perché surrettiziamente confessionale. La Pira, in forza del principio del pluralismo, nega la legittimità di uno Stato confessionale, che anche Nenni attacca. Se infatti le norme e gli ordinamenti dello Stato fossero dedotti in linea diretta da principi religiosi, essi forzerebbero in uno schema non liberamente assunto i cittadini di diversa credenza.
Ma uno Stato laico, inteso nel senso di antireligioso o areligioso, eleverebbe indirettamente a valore l’irreligiosità. E quindi supporrebbe una metafisica precisa, proprio nel nome della negazione di ogni metafisica. Ne deriva che non vi sarebbe un guadagno reale di civiltà nel passaggio da uno Stato cattolico a uno Stato massone o socialista: in via di principio si tratta sempre di stati «confessionali», dove la normativa e l’ordinamento sono dedotti in modo diretto da presupposti ideologici. Per cui il problema reale è solo quello della lotta di potere.
Per La Pira uno Stato laico incorre anche nello scoglio di negare la realtà di fatto. Se lo Stato è un organismo sociale che rispetta i corpi intermedi vitalizzanti dai propri cittadini, non vi è dubbio che debba tener in nota anche l’importanza quantitativa di alcuni di essi. E se pesano i partiti di massa o i sindacati, non si vede perché non dovrebbe pesare la religione cattolica.
Similmente La Pira contesta l’idea di uno Stato dei lavoratori, perché osserva che il diritto politico non può sorgere in forza dell’attività produttiva, ma è previo. Se infatti il diritto politico sorgesse in forza del lavoro, gli invalidi o inabili neppure dovrebbero godere di diritti civili. Invece non è così, salvo che l’origine dell’ invalidità derivi da una grave carenza della capacità di intendere e volere. In conclusione, La Pira si giovò delle proprie competenze e capacità intellettuali non tanto per conservare spazi vitali al cattolicesimo, ma soprattutto per arginare possibili gravi conseguenze di veri errori dottrinali.
Oggi tutti parlano di Stato laico: sarà un caso? Certo il parallelismo tra secolarizzazione e marginalizzazione politica della Chiesa è irrecusabile. I laicisti hanno ampiamente ottenuto che i propri figli non escano da scuola «cattolici». E perché i cattolici non possono rivendicare il simmetrico diritto che i propri figli non ne escano scristianizzati? Quando La Pira difende la pluralità dei corpi intermedi è quest’orizzonte che ha in mente.
L’altro fatto emblematico che permette di cogliere nella giusta ottica il modo lapiriano di pensare e agire, in quel momento storico, riguarda il pericolo atomico. Il primo dopoguerra, infatti, è caratterizzato dallo shock della resa giapponese ottenuta con l’atomica. Due sole bombe avevano piegato l’ultimo avversario dell’America, e adesso gli arsenali atomici si stavano moltiplicando follemente. La Pira nel 1967 lamenta che essi siano arrivati a 70.000 megaton, ma l’anno successivo denuncia che le scorte hanno raggiunto i 500.000 megaton. Se si considera che la bomba di Hiroshima non raggiungeva i due kiloton, e che un megaton vale 1000 kiloton, 500.000 megaton valevano oltre 250 milioni di Hiroshima. Aggiungiamo che nel 1950 era scoppiata la guerra di Corea, che durerà sino al 1953 e si comincerà a percepire che i richiami apocalittici di La Pira avevano fondamenti in re di tutto rispetto.
Oggi ci lasciamo cullare dalla sicurezza che non è possibile essere così stolti da scivolare in una guerra atomica. Purtroppo questo è un veleno micidiale, che difficilmente sarà senza conseguenze. La Pira da esso era stato vaccinato in cinque anni di guerra, e con lui gli uomini della sua generazione. Nel 2004 scopriamo che Bush e Blair hanno scatenato una guerra contro l’Iraq sulla base di informative inconsistenti. Per quale motivo ciò che è successo una volta, se per caso fosse stato orientato da servizi segreti non angloamericani, non dovrebbe ripetersi? E perché poi, nel ripetersi, non potrebbe avere conseguenze più tragiche? Proprio perché consapevole di un orizzonte apocalittico, La Pira può difendere i suoi contemporanei da un suo anticipo improprio. Ma oggi questa consapevolezza la stiamo perdendo, e addirittura Cacciari rimprovera a Giovanni Paolo ii di fare il katéchon (colui che trattiene), perché l’Anticristo non deve essere contrastato, ma favorito nella sua venuta. Il clima non è più quello degli anni ’50. Oggi i timori di La Pira appaiono eccessivi, ma potrebbe anche essere che il nostro troppo scarso temere induca eccesso di sicurezza, che potrebbe favorire altre tragedie.

Le iniziative di politica estera

Coerentemente alle preoccupazioni di cui si faceva carico, La Pira promosse una impressionante rete di intrecci e relazioni planetarie: Kruscev, Nasser, re Hussein, Maometto V, Ben Gurion, De Grulle, Gronchi, Ho Ci Minh, Arafat, Atenagora e Santa Sede, Croce Rossa Internazionale, per non citare che alcune delle personalità e Istituzioni più note. Sorvolando sui vari impegni di carattere ecclesiale, ricordiamo che dal ’52 al ’56 Firenze è sede di cinque Convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana; nel ’55 è sede del Convegno dei sindaci delle capitali del mondo e tra il ’58 e il ’64 dei quattro colloqui mediterranei. Il battesimo sulla scena internazionale avviene col suo intervento contro la guerra fredda a nome delle città del mondo, tenuto a Ginevra nel 1954, in occasione della Sessione Straordinaria del Comitato della Croce Rossa Internazionale. Tra il ’56 e il ’57 è in Israele e in Egitto per perorare la causa della pace in Palestina. Nel ’59 e nel ’63 è a Mosca, dove incontra numerosi dirigenti politici sovietici; e nella seconda occasione partecipa alla Tavola Rotonda Est-Ovest per il disarmo. Promuove i gemellaggi di Firenze con Reims, Edimburgo, Fez, Kiev, Kioto e Filadelfia, dove si reca in delegazione per la celebrazione del «Columbus day» nel ’64. Nell’occasione ha colloqui di rilievo a Washington e all’ONU.
Tra il ’63 e il ’65 s’impegno nella mediazione per la crisi vietnamita. I suoi appelli furono raccolti da Chu-En-Lai, UThant e dall’Ambasciatore americano all’ONU. Nel marzo ’65 è a Londra alla Camera dei Comuni, dove matura l’idea di un «Symposium internazionale sulla questione del Vietnam e del Sud Est asiatico», da tenersi a Firenze nell’aprile successivo. In seguito ad esso Ho Ci Minh scriverà a La Pira, favorendogli il viaggio a Hanoi nel novembre dello stesso anno. Proprio in quel periodo Fanfani è presidente di turno all’ONU, e l’amico gli può relazionare quell’eccezionale incontro col leader vietnamita, sì da trasformare un atto privato in opportunità diplomatica internazionale. Nel ’67, a Parigi, La Pira viene eletto Presidente della Federazione mondiale delle Città Unite: presidenza che gli sarà rinnovata nel ’70 a Leningrado e nel ’73 a Dakar. Nel ’69 è a Stoccolma, a Berlino e a Belgrado. In un’epoca nella quale era difficile trovare politici che apertamente stigmatizzassero il muro di Berlino e la divisione della Germania, La Pira andò controcorrente in più occasioni ufficiali e internazionali.
«Dagli scritti di Giorgio La Pira - scrive Gorbaciov - emerge uno dei problemi più importanti del nostro tempo: quale obiettivo dare alla politica internazionale? La risposta che viene dalle pagine lapiriane è, secondo me, la sola risposta vera». Questo protagonista nella scena internazionale del secondo Novecento riconosce dunque in La Pira ben più dell’uomo devoto che distribuiva santini ai diplomatici. Egli vede nel progetto lapiriano dell’unione internazionale l’unico punto di riferimento vincente. E ha ragione, perché non è lo stesso concepire la politica estera come occasione di espansione economica, oppure come occasione di unione internazionale. Infatti, mentre la prima non esclude tensioni, guerre e altri disastri, la seconda comprende i vantaggi della prima, ma in forma ordinata e pacifica. Di questa politica estera sentiamo nostalgia, arrossendo delle bombe che abbiamo sganciato «per ragioni umanitarie», contro il dettato della nostra Costituzione. Prosegue Gorbaciov: «È molto importante che sia la fede a portare La Pira ad assumere prese di posizione di alta moralità anche nella sfera politica». Questo riconoscimento deve far riflettere.
Infatti non solo la fede di La Pira è la marcia in più che gli consente di attivare dei ponti con i credenti di altre religioni, proprio in nome della loro fede; ma è anche la fonte di una moralità politica complessiva il cui deficit, dopo tangentopoli, Parmalat ecc., risulta schiacciante. Se consideriamo che nel ’76 Zaccagnini invita La Pira a candidarsi alle politiche proprio constatando la bassa tensione ideale che ormai regna nei Palazzi, è inevitabile porsi qualche domanda. Per esempio, oltre ai vari torti, Gedda non ebbe forse anche qualche ragione? Il grigiore democristiano prima e lo sfascio poi non vanno collegati al malinteso «passo indietro» dell’Azione Cattolica richiesto da Lazzati? Perché la moralità dei candidati politici è questione rilevante, né lo è meno il loro profilo di formazione umana («scienza e coscienza», diceva Lazzati). Invece, con l’accennato «passo indietro» venne meno l’esigenza di scegliere rappresentanti del calibro dei «professorini», né l’Università Cattolica seppe fornire un ricambio generazionale di qualità altrettanto elevata. Mancando una politica di formazione e orientamento della classe dirigente, si affidò il bene comune a persone che manco ne percepivano l’importanza. Conclusione: la fede, se vissuta ai livelli eroici di La Pira, fa la differenza anche in politica, come riconosce lo stesso Gorbaciov.

La Pira sindaco di Firenze

Su questo capitolo moltissimo sarebbe da dire, ed è impossibile. In una parola La Pira interpretò il ruolo come espressione di cura paterna. Limitiamoci a due aspetti: il servizio agli ultimi e la crisi della Pignone. Circa il primo aspetto, già dal ’51 La Pira aveva immaginato un piano per la distribuzione gratuita del latte nelle scuole durante l’orario scolastico, che dal gennaio 1952 divenne operativa nelle elementari fiorentine. Può sembrare una piccola cosa, ma nel ’52 le condizioni economiche generali erano assai lontane dalle attuali. Erano ancora tempi in cui si andava a fare la spesa col libretto, perché non c’erano soldi e si comprava a credito, in attesa della fine mese o della paga. E una razione giornaliera di latte caldo non solo era gradita ai bambini, ma era anche un sostegno reale alle famiglie, per quanto soprattutto morale. Questo spirito paterno ispirerà sempre l’azione lapiriana, sia in occasione di crisi industriali (Pignone, Manetti & Roberts, Officina del gas, Fonderia delle Cure, Galileo), col rischio di ingenti abbassamenti dei livelli occupazionali, sia in occasione della requisizione di alloggi sfitti da destinare agli sfrattati, sia nelle varie iniziative assistenziali e promozionali destinate alla crescita del tenore di vita cittadino.
Questi atteggiamenti ebbero, però, reazioni opposte: da un lato, aumentarono il prestigio morale del sindaco in larghe fasce sociali; dall’altro, provocarono la crisi della giunta fiorentina nel 1954 e una certa marginalizzazione di La Pira nella stessa DC. Nel ’54 due assessori liberali si dimettono, aprendo una crisi. Il 24 settembre La Pira risponde in Consiglio Comunale, con una difesa puntigliosa, mirata a ricostruire le ragioni di un tale atto politico, che il PLI cittadino aveva avvolto di fumogeni. In breve i nodi venuti al pettine concernevano la crisi della Pignone, sulla quale ritorneremo più ampiamente; la requisizione di alloggi sfitti per rimediare alla crisi dovuta agli sfratti; e infine un terzo punto più radicale, che il Sindaco così riassume: «Io non sono fatto per la vita politica nel senso comune di questa parola: non amo le furbizie dei politici ed i loro calcoli elettorali; amo la verità che è come la luce; la giustizia, che è un aspetto essenziale dell’amore; mi piace dire a tutti le cose come stanno: bene al bene e male al male».
Nel caso particolare i liberali non motivarono il loro dissenso, ma una valutazione serena dei fatti evidenzia che, in fondo, il problema era più vasto, rispetto alle tensioni prodotte da occasioni contingenti. La Pira aveva un modo d’intendere la politica che turbava, se non proprio infastidiva, la maggioranza degli addetti ai lavori, massmedia inclusi. Maggioranza che di fatto prevalse, e le conseguenze sono ben note: tangentopoli, svendita del patrimonio statale con danni alla collettività per centinaia di migliaia di miliardi di lire, crac Cirio, Parmalat, acciaierie di Terni e via dicendo. Il 29 gennaio 2004 Gabriella Sartori su Avvenire pose una domanda secca: «Nessuno che si chieda: non ne sapevano proprio nulla i grandi mass media specializzati?». Domanda così limpida, che per un verso fa sperare che nel mondo cattolico odierno La Pira abbia qualche continuatore; ma anche così isolata, così caduta nel vuoto, da far dubitare che parafrasando Shakespeare, realmente vi sia del marcio in Danimarca. Se infatti vi fosse una tensione etica adeguata nel mondo politico-mediatico, le domande della Sartori avrebbero avuto una rilevante eco di indignazione; e se i dirigenti delle maggiori organizzazioni cattoliche avessero una competenza umana paragonabile a quella dei «professorini», si sarebbero immediatamente stretti intorno alla giornalista facendole eco. Basta il tenore di considerazioni semplici come queste, per far comprendere sia l’attualità di La Pira, sia il danno enorme prodottosi nel non aver saputo preparare una classe dirigente di alto profilo che potesse a suo tempo dare il cambio ai «professorini».
D’altra parte per cogliere appieno la moralità politica alta di La Pira, va ricordato che ai liberali dimissionari non rimproverò affatto il loro dissenso, né si sentì defraudato per la difficoltà oggettiva che avevano creato. La Pira, infatti, concepiva l’impegno politico sotto il segno della gratuità, e chi agisca con liberalità e si senta poi defraudato può essere solo una persona affetta da qualche grave deficit intellettuale o psichico. Invece La Pira giustamente evidenzia che vi era un rapporto patologico, che la relazione in essere nella coalizione che lo aveva eletto non era antropologicamente eccellente: ossia ingiusta per carenza di giustezza. Oggi, ormai, a queste sottigliezze non facciamo più caso, salvo quando il cancro sia divenuto così abnorme da aver fatto danni sociali di larga portata. Siamo divenuti come quella talpa che, pretendendo di aver imparato a vedere, aveva perso pure il senso dell’olfatto: il minimo che può succederci è di scottarci il naso. La Pira resta dunque attuale non solo nella sua magnanimità, ma nella chiarezza di giudizio che discerne le patologie sociali. E non per spirito di difesa dei propri privilegi-vantaggi-posizioni-di-potere, o per malposto spirito sindacale di rivendicazione; ma piuttosto per la consapevolezza che il servizio politico, come del resto quello religioso cristiano, esige in primo luogo la comprensione, ricerca e attuazione della giustezza.
Ma è tempo di affrontare il capitolo crisi della Pignone. Nel 1953 la SNIA, cui l’azienda fa capo dal 1946, decide di lasciare il settore e di licenziare in tronco le maestranze. Sembra che nel sugo la sostanza fosse questa: la SNIA avrebbe ottenuto la non belligeranza degli americani nei mercati argentini e brasiliani delle fibre, a condizione che non desse noia nel settore strategico della produzione di turbine. Se si considera che nella seconda metà degli anni ’90 proprio il Nuovo Pignone è stato alienato per due lire, benché impreziosito dei brevetti per le turbine a gas, si capisce la verosimiglianza dell’esistenza di un patto del genere, anche a prescindere dalla fondamentale testimonianza di E. Bernabei. Morale: Marinotti mette in cantiere il licenziamento di 1600 operai e, su pressione di La Pira, Fanfani ― Ministro dell’Interno ― risponde sequestrandogli il passaporto, per motivi di ordine pubblico. Di fatto la crisi si sbloccherà per l’intervento di Mattei e il passaggio dell’azienda all’ENI: nel complesso il potere democristiano era riuscito a risolvere un problema, con un «gioco di squadra» indubbiamente encomiabile.

Il pensiero politico di La Pira oggi: un’eredità illuminante e problematica

In base a quanto detto, tentiamo di attualizzare quella lezione considerando alcuni retroscena e i connessi nuclei problematici. Il primo concerne il fatto che La Pira non accettò senza condizioni la candidatura a sindaco, ma ottenne previamente da De Gasperi l’approvazione di un «piano di sviluppo» per la città di Firenze che prevedeva finanziamenti per circa 25-30 miliardi. Nel settembre del ’53, in piena crisi industriale, il governo né aveva ancora fatto nulla di consistente (a parte il piano per la distribuzione del latte nelle scuole, che non faceva però parte direttamente di quel «piano di sviluppo»); né pareva intenzionato a ricordarsi di quegli impegni. Ma ben li ricordò La Pira all’amico Fanfani, che alla fine mutò consiglio, così come è attestato dal carteggio tra i due. Può essere che in effetti a mettere Firenze tra le priorità di seconda linea fossero stati Gava o Piccioni o Aldisio, che La Pira cita nella sua a Fanfani del 1° ottobre 1953 (cfr ivi, p. 163s). Comunque sia, è significativo che La Pira fosse stato lanciato alla conquista di Palazzo Vecchio e poi, una volta ammainata la bandiera rossa, fosse stato lasciato abbastanza solo. Forse il sindaco fiorentino non era altrettanto solerte a produrre contropartite verso i poteri centrali, quanto a difendere gli interessi cittadini. Se questo fosse stato il motivo di quelle inerzie romane, ci sarebbe da concludere che la DC già appena nata era leucemica.
Un secondo retroscena svela che Fanfani ― Ministro dell’Interno ― fu assai contrariato da un sindaco democristiano che si univa agli operai nell’occupazione di una fabbrica. Per non rinnovare memorie di repressioni fasciste, la DC fu tollerante verso le illegalità sindacali, o comunque promosse dalla sinistra: migliaia di reati non furono mai perseguiti. E così nell’immaginario collettivo passò l’idea che l’illegalità fosse un concetto borghese e, in quanto tale, senza rilevanza morale né penale, tranne che non sia la classe proletaria a potersene giovare per conquistare posizioni. La Pira-tutto-cuore non vide questi pericoli, e a Fanfani rivendicò di non essere soggetto alla legge, perché mosso dal Vangelo In linea di principio se una legge è ingiusta non obbliga, e un cristiano deve anche saper andare contro la legge, se un motivo grave di coscienza urge. Solo che si poteva dimostrare solidarietà ai licenziati senza cadere nella trappola della delegittimazione dello stato borghese. In questo La Pira fu più ingenuo del necessario, contribuendo ad aprire la strada a scelte o inerzie successive anche peggiori.
Un terzo nucleo riguarda le tensioni tra La Pira e Sturzo. In buona sostanza, mentre il primo non credeva nel capitalismo, troppo brutto per poter durare; il secondo non vedeva alternative possibili. Da qui le diverse valutazioni in occasione delle crisi industriali fiorentine. Di queste tensioni resta traccia in due articoli, uno di Sturzo e uno di La Pira, apparsi nel maggio del 1954. Nel primo don Sturzo accusa il sindaco di statalismo (=comunismo); nel secondo questi risponde all’illustre senatore richiamando le esigenze della dottrina sociale enunciata dai papi, e non meno rivendicando le dottrine liberali di Beveridge e Keynes. In fondo ― argomenta ― dato che lo Stato italiano interviene in economia non solo con le leve monetarie, con le politiche di spesa pubblica, con la definizione di assetti normativi e le politiche fiscali; ma in più, con strutture come IRI, ENI, IMI, Cassa del Mezzogiorno, Ferrovie, Scuola ecc., gestisce in modo diretto settori strategici di sviluppo, dov’è lo scandalo, se interviene anche a Firenze per sostenere l’occupazione? E allora, proprio oggi che tutti invocano la deregulation, c’è da chiedersi chi avesse ragione.
La questione è talmente complessa da non poterla valutare adeguatamente in poche righe. Cerchiamo allora di richiamare alcuni fatti. Se è politica di sinistra quella che migliora le condizioni dei lavoratori e dei ceti più bassi, non vi è dubbio che in Italia uno dei suoi maggiori campioni fu Fanfani. È fuori discussione che il potere di acquisto dei salari ebbe una parabola ascendente fino agli anni ’70, per poi declinare vistosamente nell’ultimo periodo del secolo scorso e all’inizio del nuovo millennio. La prova molto chiara è nel mercato della casa: 360.000 € per un appartamento equivalgono a quasi 20 annualità di un salariato che guadagni 1.500 € al mese. Ma quando un operaio guadagnava 100.000 lire al mese, 20 annualità erano 24 milioni, coi quali si sarebbe potuta costruire e arredare una villa di lusso, perché il prezzo di un appartamento o di una villetta modesta era ancora abbordabile tra i tre e i sei-sette milioni. In più va ricordato che fin tanto che il credito fu indirizzato dalla vecchia guardia democristiana ― e dunque più o meno fino a Craxi ―, né si verificarono mai maxitruffe per migliaia di miliardi, né concessioni di credito a tassi d’usura. Perciò comprare una casa era possibile, anche a dei salariati, perché potevano ottenere mutui a tasso fisso e, a volte, anche mutui agevolati. Oggi, con un’inflazione molto inferiore a quella degli anni ’60, i tassi passivi sono superiori a quelli di allora (che erano a tasso costante tra il 6 e l’8%, se di credito ordinario; inferiori o uguali al 4% se agevolato) e in genere il risparmio non dà remunerazione significativa.
Perciò i fatti sono molto evidenti: occorre distinguere le politiche dalle formule, che non sempre hanno corrispondenza stretta. Per esempio, in Italia, Governi di centro ― come quelli di Fanfani ― hanno fatto una politica riformista «più a sinistra» di quella dei successivi Governi socialisti. In questo senso è emblematico che La Pira polemizzi con Fanfani (e con altri), perché seguendo la propria spinta utopica non si accontentava delle soluzioni realistiche fanfaniane e perseguiva una politica della piena occupazione.
La Pira resta dunque attuale in molti aspetti della sua azione politica, che in breve potremmo condensare nell’immagine profetica di una moralità alta e competente, protesa verso un bene comune, ricercato partendo dal servizio e dalla tutela dei meno privilegiati. Resta attuale nelle sue iniziative di politica estera, nella sua ostinata dedizione alla causa della pace. Oggi, edotti dagli errori passati, dobbiamo riscoprire l’altezza di una politica centrista ingiustamente coperta di fango non da persone più degne, ma soltanto più abili nell’utilizzo propagandistico dei massmedia. In particolare va riconosciuto che la via degaspero-fanfaniana, quanto a impostazione strategica, fu quanto di più equilibrato si potesse immaginare, onde correggere gli eccessi del capitalismo selvaggio (reintrodotto in Italia proprio dai Governi di centrosinistra degli anni ’90), e che non necessariamente il coinvolgimento al Governo di componenti politiche socialiste è un progresso. Nel negoziare tali coinvolgimenti, infatti, non si ebbe l’accortezza di vedere il rischio di un degrado per mancanza di standard etici adeguati. Su questo piano i democristiani non seppero chiedere quelle garanzie che implicitamente forniva la classe politica degli anni ’50, in forza di una formazione complessivamente ancora di qualità alta (rispetto allo sfascio successivo). Furono sottovalutate le differenze enormi presenti nell’immaginario collettivo delle rispettive parti (e l’immaginario di oggi è la realtà di domani): di fatto l’immaginario laico prevalse, ma a ciò non corrispose affatto il conseguimento di un maggior bene comune.
     
Roberto Bertacchini --- robertacchini@yahoo.it