Parrocchia casa per tutti
 
LA NUOVA MISSIONARIETA’
IN UNA PARROCCHIA RINNOVATA SECONDO LA NOTA CEI
di
Roberto A. Maria Bertacchini e Piersandro Vanzan sj
(Articolo pubblicato in Religiosi in Italia, 2004, n. 344, pp.192-202)

Il recente documento della CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, ha già suscitato molta atten-zione e commenti, sia in ambito cattolico che laico. In questo contesto ne riprenderemo l’esame tenendo conto di due domande principali: cosa significhi missionarietà parrocchiale, e in che senso i religiosi possano esserne al servizio. In esordio il docu-mento dà ampio rilievo al tema della comunicazione del Vangelo in un mondo che cambia, e con toni inequivocabili: «solo per po-chi il campanile che svetta sulle case è segno di un’interpretazione globale dell’esistenza», e ciò per il «venir me-no della parrocchia come centro della vita sociale e religiosa» (n. 2). Da qui la necessità «di una vera e propria conversione, che ri-guarda l’insieme della pastorale» (n. 1). Va dunque capito il sen-so di questa ‘conversione’, auspicata dai vescovi.

Punti salienti della nota CEI

In sintesi, ecco alcuni nodi salienti: la nuova centralità del-la pastorale degli adulti e della correlativa formazione del laicato; l’importanza del versante culturale e della scuola cattolica; la ne-cessità di superare i particolarismi mentali e pratici, per attuare in modo sistematico il maggior numero possibile di sinergie tra i va-ri gruppi e Istituzioni ecclesiali (cfr n. 6); il passaggio da una ca-techesi dogmatica a una più vitale orientata dalla via pulchritudi-nis. Riprenderemo in seguito alcuni di questi punti, ma un com-mento si esige immediatamente per l’ultimo, anche perché il testo dei vescovi nel suo esordio non usa in modo esplicito questa ter-minologia. Esso però richiama assai bene in che senso il mondo è cambiato: siamo usciti da un contesto di cristianità (cfr n. 6), al punto che le classi alte, ovvero i ceti che fanno tendenza, ove sen-tano un bisogno inappagato di spiritualità non si rivolgono al par-roco, e neppure a un frate, ma vanno in India . Nell’immaginario collettivo la Chiesa è quasi sempre associata al Medioevo; ma in-vece di ricordare che esso fu anche il periodo dello sviluppo della superiorità della cultura e della civiltà occidentali e la premessa della modernità, ciò che fa testo è l’idea negativa che di esso hanno diffuso l’illuminismo prima e il marxismo poi.
In breve, benché siano molti i bambini che in parrocchia ricevono una preparazione ai sacramenti, questa prima formazio-ne naufraga appena l’adolescente è attaccato dal bombardamento incrociato dei media, del laicismo scolastico, della propaganda anticattolica, dell’apologia dell’amoralità promossa anche da im-portanti partiti di massa, ecc. Ecco perché «cresce per contrasto l’esigenza di legami ‘caldi’» (n. 2). In altri termini se l’annuncio evangelico non è contestualmente offerta di fruizione di legami affettivamente ricchi , il suo insuccesso sarà statisticamente ine-vitabile. D’altra parte offrire legami caldi è offrire una proposta piena di attrattiva, di fascino: e il fascino è il segno della bellezza. Ecco perché se la pastorale parrocchiale non si ristruttura sulla via pulchritudinis, la prospettiva più probabile sarà quella di una atrofia progressiva e inarrestabile della vita parrocchiale stessa.
Quest’idea è così importante, che la Nota la riprende am-piamente al n. 9: «La parrocchia missionaria fa della famiglia un luogo privilegiato della sua azione, scoprendosi essa stessa fami-glia di famiglie». Dato che di fatto non è questa l’esperienza co-mune che i fedeli fanno della vita parrocchiale (naturalmente non mancano lodevoli eccezioni, purtroppo rare), è evidente l’intento dei Vescovi di indicare l’approdo verso il quale intendono tra-ghettare la Chiesa italiana. È presumibile che un forte stimolo in questo senso sia venuto dai movimenti, dove in effetti è molto più frequente trovare una pastorale calda e degli adulti; ma perché questo ideale di rinnovamento possa tradursi in trasformazioni tangibili, non vi è dubbio che occorra una profonda decostruzione e ristrutturazione della formazione sacerdotale. E ciò esige che nei seminari e negli studi teologici trovi spazio una teologia della familiarità soprannaturale che oggi è difficilmente metabolizzata, anche perché l’elaborazione teoretica è ancora embrionale.
Infine il documento richiama l’importanza del superamento dello schema clericocentrico: se la parrocchia non diverrà laico-centrica, l’auspicata familiarità spirituale resterà lettera morta. Questo può suonare urtante per tanti onesti e santi parroci, educa-ti a essere ‘capi’. E c’è d’aggiungere che le esperienze della Sviz-zera — dove sovente la parrocchia è in mano ai laici e il ruolo del prete è ridotto a quello di professionista della liturgia — non è che convinca molto. Per cui le resistenze clericali hanno anche un lato che va capito e accolto. Ma d’altra parte essere ‘capi’ è anco-ra accettabile se vi sia un seguito reale. Invece il raffronto con l’islam dice tutto: mentre gli imam sono realmente capi, la cui pa-rola orienta la vita quotidiana dei loro fedeli (purtroppo anche fi-no al martirio), i parroci sono per lo più capi figurativi, perché la vita della maggior parte dei cristiani non è orientata né dalle loro catechesi, né dalle loro omelie. Ed è già tanto se molti hanno tro-vato nei movimenti l’occasione di una nuova fioritura del loro cristianesimo. E infatti occorre riflettere che non può essere senza causa proporzionata che la secolarizzazione abbia colpito a fondo la cristianità, ma non sembri affatto colpire allo stesso modo la migrazione islamica in Europa o negli Stati Uniti (dove l’islam si espande al ritmo di 100.000 conversioni annue dal cristianesimo).
Occorre perciò dare un significato accettabile alla prospet-tiva laicocentrica. In primo luogo osserviamo che se la diakonia ecclesiastica è realmente tale, chi serve suppone qualcuno che sia servito. E l’oggetto del servizio non può che essere il Cristo na-scosto nei minimi, e dunque il Popolo di Dio nel suo complesso e in ogni fedele. Ma se chi è servito è servito bene, è inevitabile che provi gratitudine per il servizio ricevuto. In questo modo il servitore-diacono acquisisce prestigio morale, e la sua parola di-viene autorevole. Questo è il meccanismo su cui si fonda spesso l’autorevolezza dei dirigenti dei movimenti, per lo più laici; e non vi è motivo che esso non possa applicarsi anche ai preti: l’esempio di don Zeno non è certo l’unico che confermi la tesi. Questo schema consente perciò da un lato di superare la margina-lità clericale delle parrocchie svizzere, e dall’altro di superare un clericocentrismo giuridico e dogmatico dove l’autorità si svuota di senso per perdita di autorevolezza. Infine un tale schema ha il grande merito di essere propriamente pneumocentrico, perché tut-to ruota sulla prassi della carità, e da essa trova ordine.
In breve potremmo dire con Ambrosio (cfr Avvenire, 18 sett. 04) che la CEI auspica una doppia apertura della parrocchia: da un lato essa deve articolarsi a una pastorale d’ambiente che ne superi i limiti territoriali; da un altro deve invece mirare con effi-cacia alla comune-unione interna; entrambe dimensioni di quella che Ruini chiama «pastorale integrata».

La nuova missionarietà parrocchiale

Se i vescovi sottolineano la necessità di tornare (cfr n. 6) alla prima evangelizzazione degli adulti questo, a chi voglia in-tendere, dice tutto. E allora il punto è il modo parrocchiale di una tale rievangelizzazione. Qui occorrere procedere anche per via empirica, perché se l’elaborazione teologica disponibile fosse sta-ta di livello adeguato, non saremmo al punto in cui siamo (cfr no-ta 3). Certo, la Nota CEI spinge con forza su due tasti: la forma-zione cristiana e l’attivazione di ogni possibile sinergia. Non si può pensare a una evangelizzazione efficace, prescindendo da una profonda ricomprensione della formazione. Basti riflettere che mentre un musulmano non può sposarsi, se prima non si sia copiato tutto il corano; non solo sono rarissimi i cristiani — e purtroppo gli stessi preti! — che abbiano almeno letto tutta la Bibbia; ma sono rari già i cristiani che abbiano letto per intero anche uno solo dei Vangeli. Questo è oggi inaccettabile . Per re-sistere alla secolarizzazione occorrono delle potenti e sistemati-che endovene di Scrittura (cfr nn. 6 e 13). E se si vuole che l’omiletica sia qualcosa di più di un esercizio stoico di pazienza da parte dei laici, i sacerdoti devono imparare quell’eloquenza che nasce dalla preghiera ardente sulla Parola di Dio (cfr n. 8). Perciò la formazione va ripensata immaginandola orientata da due binari: la Parola e la familiarità soprannaturale (cfr n. 9).
Ma un secondo snodo cruciale è dato dalla riscoperta della teologia evangelica dell’evangelizzazione: da questo conosce-ranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni agli altri. Qui Gesù non nega l’importanza della benevolenza filantropica (i poveri li avrete sempre con voi), ma afferma che la sequela si qualifica per qualcosa di più del cinismo di Cratete: infatti dare tutte le proprie sostanze ai poveri non è male, ma non è ancora necessariamente carità . Perché lo sia, occorre la condivisione nella familiarità soprannaturale, in forza della quale Gesù può di-re fatto a se stesso ciò che è fatto all’ultimo dei figli del Padre. La fraternità cristiana, per essere reale, esige molto: e in primo luogo il conoscersi e il reciproco ascoltarsi. La Nota allude a queste e-sigenze alte, sia trattando della familiarità soprannaturale, sia del-la tematica delle sinergie ecclesiali. L’idea che la parrocchia deb-ba superare il proprio particolarismo attraverso la costituzione di reti istituzionali (cfr n. 11) si colloca in un più ampio orizzonte dove la Chiesa stessa riscopre la propria struttura organica e la correlativa teologia paolina del Corpo Mistico.
Ecco allora che la presenza dei vertici dell’AC al meeting di Rimini di CL (novità assoluta del 2004), è salutata con lieta approvazione dal Segretario della CEI, proprio perché questa è la linea delle sinergie proposte dalla Nota episcopale. Meno eclatan-te sul piano mediatico — ma forse ecclesialmente anche più rile-vante — è poi che all’incontro di Loreto promosso dall’AC siano intervenuti i vertici (o delegazioni di alto profilo) di Agesci, Acli, Sant’Egidio, Focolari, CSI, CTG, oltre che di CL. Ciò che si fa a livello nazionale diviene allora esempio di ciò che è auspicabile anche a livello locale: e cioè che simili incontri si possano realiz-zare sul piano diocesano e, ove possibile, anche a livello parroc-chiale. L’idea è dunque quella del passaggio dalla sterile prospet-tiva individualista a una più feconda nello Spirito, viribus unitis.
Chiarissimo Salvatore Martinez — coordinatore nazionale del Rinnovamento e pure presente a Loreto —: «Non basta più essere presenti insieme, occorre diventare complementari». La Comunione bisogna cominciare a farla all’interno della Chiesa, perché solo una Chiesa unita può ribaltare l’immaginario sociale esistente e vincere l’irrilevanza culturale in cui è precipitata. Del resto — e per fortuna — occorre riconoscere che sinergie intraec-clesiali sono in atto già da tempo. Per es. i Francescani hanno da-to gratuitamente più di un convento a giovani comunità cristiane in espansione. Oppure Istituti Religiosi femminili in declino han-no dato a CL in gestione gratuita le loro scuole, con grande van-taggio delle scuole stesse, dove le iscrizioni in alcuni casi si sono perfino raddoppiate, ecc.
Se questo è vero — e dunque il cammino dell’integrazione è una via che la Chiesa (pur a piccoli passi) già da tempo ha in-trapreso —, in effetti il riavvicinamento tra AC e CL va ricono-sciuto come evento, e di gran lunga più significativo dei molti al-tri segni di integrazione ecclesiale che in tempi recenti si stanno moltiplicando . Il punto di fondo è che questo riavvicinamento corrisponde al riconoscimento se non di un errore, certo della chiusura di una fase storica. Quando infatti don Giussani e AC presero strade diverse, il motivo di fondo che muoveva i lazzatia-ni era l’idea di smarcarsi dalla DC, nella speranza che ciò consen-tisse una più efficace azione verso la galassia di sinistra. Ma l’esperienza ha dimostrato che l’esito di questa operazione è stato il travaso nel PCI di moltissimi cattolici, che in definitiva hanno allentato i propri rapporti con la Chiesa, quando non siano appro-dati a visioni morali relativiste e inaccettabili (sconfessione del valore civile della famiglia, della difesa della vita, ecc.); senza che ciò abbia avuto contropartite significative (salvo non le si voglia vedere nel disastro della DC, sempre più povera di quadri della tempra morale di La Pira, Dossetti, ecc.).
Loreto è dunque un evento perché, nell’adunata oceanica che si riallaccia idealmente a quelle degli anni ’50, definisce il ri-torno dell’AC al protagonismo politico-sociale. È inutile piangere che i media sono un disastro, che la scuola tracolla ecc., se poi non si opera positivamente per presidiare gli spazi necessari a diffondere la visione del mondo cristiana e le sue ragioni. E que-sto è fare politica . Il papa e la CEI hanno orientato con determi-nazione questa svolta; e in particolare Giovanni Paolo II all’angelus ha dato come consegna all’AC il trinomio contempla-zione, comunione e missione. Trinomio che va elevato a valore considerando le contestuali beatificazioni, tra le quali quelle del dirigente riminese di AC Alberto Martelli, ingegnere fortemente impegnato politicamente e socialmente nella ricostruzione della sua città, semidistrutta nel ’45. Fare comunione significa dunque per un verso ritirarsi in Dio, ma per un altro vivere lo spirito dell’A Diogneto, in servizio di impegno civile visibile.

Note a margine

L’orizzonte della transizione — Il documento della CEI va accolto con gratitudine, disponibilità e grande apertura mentale e di cuore, in uno spirito applicativo e sperimentativo, consci che migliorare non basta: oggi è necessario un miglioramento ade-guato, senza il quale il declino dell’istituzione parrocchiale sarà inevitabile e inarrestabile. Ma per raggiungere un tale obiettivo occorre un’intelligenza sapiente, capace di articolare il possibile locale con le strategie pastorali che si mostrano più attrezzate a contrastare la secolarizzazione. Scimmiottare neocatecumenali, focolarini o gruppi carismatici non risolverebbe. Invece ispirarsi con intelligenza alle pastorali migliori , considerando con spirito creativo cosa si possa fare e cominciare a fare nella propria par-rocchia, questo sarebbe saggio.
E tuttavia nemmeno è possibile nascondersi dietro un dito. Passare da una cultura particolaristica a una sistemica (cfr n. 11) — e reinterpretare la vita cristiana alla luce del cambiamento di paradigma — non è uno scherzo: anzi, richiede profonde tra-sformazioni nella formazione dei quadri ecclesiastici, nella cate-chesi, nell’omiletica, nella prassi organizzativa, nella formazione dei laici, che non per il fatto di essere immersi nel postmoderno sono anche per questo culturalmente passati dall’individualismo moderno al sistemismo culturale. La chiarezza dell’obiettivo è importante, ma a questo punto vanno considerati i mezzi in ordi-ne al fine: l’impegno è immane e l’esito non scontato.
I Vescovi sollecitano una transizione dalla situazione attua-le, caratterizzata da un forte gap — in termini di formazione, di maturità di fede e di potere — tra parroco e parrocchiani, a una in cui «il parroco sarà meno l’uomo del fare e dell’intervento diretto e più l’uomo della comunione […]. La sua passione sarà far pas-sare i carismi dalla collaborazione alla corresponsabilità, da figu-re che danno una mano a presenze che pensano insieme e cam-minano dentro un comune progetto pastorale» (n. 12). I Vescovi vogliono una vera rivoluzione, che comporterà il pagamento di prezzi assai onerosi non solo in termini di potere, ma anche in termini culturali e di visione religiosa. Infatti il «comune progetto pastorale» potrà ancora essere calato dall’alto, o non dovrà piut-tosto essere scavato insieme nel e dal freddo marmo come una «Pietà Rondanini»?
Cosa significa maturità di fede? Troppi cristiani oggi han-no una fede bambinesca, dove Dio è il superbabbo o la super-mamma cui si ricorre nei frangenti in cui si è disperati: dove il bimbo non arriva, può sempre arrivare il papà. Questo tipo di fe-de non è tutto da gettare, ma così Dio resta un semplice oggetto d’uso in funzione antropocentrica. Passare dall’infantilismo all’infanzia spirituale è integrare questo modello con quello di Dio-Sposo: e se Dio è Sposo, cambia la natura della mediazione sacerdotale, che deve piuttosto assimilarsi a quella del paraninfo. E cambia complessivamente l’idea di Chiesa e di liturgia, che non può più essere ridotta al prevalere della dimensione riconci-liativa (oblativa-espiativa, come se la religiosità si esaurisse in un rimettersi in pari con Dio). Anzi, è evidente la necessità del pas-saggio a un diverso modello di tipo nuziale-unitivo, dove preval-ga l’intimità soprannaturale. E questa è appunto la forma che va estratta dal marmo, sotto la guida dello Spirito.
Se poi la vita è guidata dai due grandi principi di anamor-fosi e di omeostasi (entrambi necessari !!), è indubbio che in ge-nerale le Istituzioni privilegino il secondo a scapito del primo. Ora il cattolicesimo, in particolare, ha da secoli fatto della Tradi-zione una bandiera solenne e decisiva. Generazioni e generazioni di preti e di religiosi sono stati educati a perpetuare quella tradi-zione giunta fino ad essi, premiando proprio coloro che mostras-sero maggior zelo e minor senso critico. Oggi i Vescovi italiani spingono l’acceleratore sull’anamorfosi: era ora. Non potevano fare di meglio. Ma la macchina clericale che guidano (strutture parrocchiali) va ancora a trazione posteriore. Nel suo complesso è ancora orientata dalla Tradizione: e meno male, perché non sono pochi i danni di quei preti che si tentano innovativi appoggiando-si a escatologie improbabili , invece che all’escatologia cristiana. Siamo dunque di fronte a un passaggio storico di una delicatezza enorme e occorre aiutare il clero in questo difficile traghetto.

Religiosi in campo — Possono giovare i religiosi? Forse proprio ad essi la Provvidenza potrebbe riservare un ruolo trai-nante, se sapranno inventarsi diaconie nuove. Ma a questo propo-sito può giovare una riflessione più articolata. Il documento epi-scopale accenna sporadicamente ai religiosi, chiaramente ai mar-gini del pensiero di chi scrive . Più che altro li si invita a colla-borare col parroco, ove presenti e/o chiamati a farlo. Ma l’idea della parrocchia e della sua pastorale non pagano debiti significa-tivi né all’idea della vita religiosa in generale, né a qualche cari-sma di vita consacrata in particolare . Il clima è dunque di e-mancipazione e autoreferenzialità: il messaggio di fondo che i vescovi lanciano alla galassia della vita consacrata è: la pastorale parrocchiale non deve venire a scuola da voi; eventualmente sarà il contrario, ove qualche parrocchia resti affidata alle cure di francescani, salesiani ecc. In un mondo che cambia, il faro che il-lumina il cammino ecclesiale non è più la vita monastica o con-sacrata , che anzi si invita a rifuggire «da autonomie e protago-nismi» (n. 3).
Certo la vita religiosa e consacrata mantiene un proprio senso a prescindere dal successo ecclesiale che essa riscuota. Ma… fino a che punto? Per le forme di vita religiosa caratterizza-te da un interesse esclusivo o assorbente per l’unione con Dio e la preghiera, l’apprezzamento ecclesiale decrescente sembra essere piuttosto un vantaggio che una sciagura o, più semplicemente, un motivo se non di crisi, di riflessione. Ma che sia così anche per le congregazioni con marcate finalità apostoliche (educative, assistenziali, spirituali) sembra assai discutibile: almeno se l’autocomprensione dei singoli Istituti di perfezione è quella di aver ricevuto una missione che, essendo escatologicamente radi-cata, non possa esaurirsi prima della fine del tempo intermedio, o comunque non debba considerarsi già esaurita .
In genere l’ascetica religiosa cattolica mantiene il suo valo-re in ordine all’unione con Dio dei consacrati; ma se si vuole che abbia anche efficacia apostolica occorre un suo ripensamento profondo, che riscopra l’antico in una luce nuova, comprensibile e affascinante per l’uomo d’oggi . Vi è dunque un problema dif-fuso, che interpella tanto di più ciascun religioso quanto mag-giormente il carisma del proprio fondatore includa qualche di-mensione apostolica di vario tipo. Se esso è anche per la Chiesa di oggi, che i Vescovi non ne sentano il fascino e la luce deve in-quietare : non indicherà un deficit nell’interpretazione del cari-sma storicamente data dall’ordine o dalla congregazione? Ecco allora il bivio: o si ripensa il carisma in chiave attuale; oppure si accetta in senso minimalista la funzione del proprio gruppo reli-gioso all’interno della Chiesa. Non è possibile non vedere che negli ordini e congregazioni colpiti da un forte decremento delle vocazioni questo segno è coerente alla questione posta implici-tamente dai Vescovi nella loro Nota .
Sentiamo già l’obiezione pungere: ma tale ripensamento non equivale a una rifondazione del proprio ordine / congrega-zione? Sì, in un certo senso sì. E tuttavia cosa succede se non ci si mette su tale via? Non è forse vero che per es. il carisma fran-cescano da secoli non ha mai avuto tante attualizzazioni maschili diverse, quante ne sono emerse dal Vaticano II in poi? Oppure pensiamo ai gesuiti, la cui crisi è troppo complessa e articolata per essere qui esaminata. Ma non è forse vero che i Legionari di Cristo — gruppo in fortissima espansione — ne rappresentano in certo modo una riedizione in chiave moderna? Insomma l’atteggiamento episcopale nei confronti dei religiosi potrà anche non piacere e potrà anche avere lati criticabili. Ma sarebbe miope non vedere la convergenza oggettiva dei segni dei tempi. Lo Spi-rito chiama e passa. Le ossa aride che lo ascoltano risorgono: la risurrezione è possibile, ma secondo la cifra del rinnovamento, e non dell’inerzia accidiosa dell’oggi uguale a ieri.
Si tratta dunque di capire in che direzione ci si possa / deb-ba muovere. Si è detto che la transizione esige alcuni snodi: una migliore formazione alla fede del laicato, il passaggio a una cul-tura sistemica, ecc. Se si prescinde da qualche caso particolare, è abbastanza evidente che l’area comune dove in genere i religiosi possono dare un contributo più cospicuo è proprio quella della formazione alla fede. E questo non solo a motivo degli studi teo-logici (oggi più diffusi di ieri anche tra i non sacerdoti); ma so-prattutto per la più intensa vita di preghiera e la correlativa espe-rienza di Dio che i consacrati fanno .
E allora, perché non progettare e realizzare per es. corsi di aggiornamento per operatori parrocchiali (anche sacerdoti) , utili alla bisogna? Gli esercizi spirituali non bastano più, anche se non vanno gettati: servono per es. anche strumenti culturali adeguati. Del resto, se in una tale impresa non si ingaggeranno i religiosi, chi potrà farlo ? Infatti vi è un punto non da poco da considera-re. Nel suo complesso la Storia della Chiesa evidenzia infatti che le spinte innovative sono sempre venute da religiosi o dalla vita consacrata. Certo, anche don Zeno è dalla parte dell’anamorfosi, e qualche altro prete si troverebbe pure, sia in tempi più recenti che meno. Ma don Milani fu marginalizzato dal suo vescovo, e don Zeno ha dovuto fondare un modo del tutto anomalo di vita parrocchiale, in cui il nerbo laicale è costituito di consacrati.
Se consideriamo il clero nel suo complesso, dal VI secolo al Vaticano II cosa è stato capace di innovare? Non è tanto facile andare oltre il sic et non di Abelardo che, per giunta, morì reli-gioso. La vita parrocchiale non si può dire che sia sostanzial-mente mutata dal Medioevo a oggi. In fin dei conti gli stessi mu-tamenti più importanti della vita associativa (confraternite, ecc.) nascono quasi sempre per spinte laicali o della vita consacrata (terziari, ecc.). I Vescovi chiedono innovazione: a noi essere ope-rativi. E allora potrebbe anche essere che nella tensione a questo urgente servizio alla Chiesa (formazione dei formatori, pastorale degli adulti, progetto culturale, formazione politica e sociale, ecc.) almeno qualche famiglia religiosa riscopra con profondità nuova il proprio carisma, e ritrovi quella vitalità ardente, che i tempi più recenti avevano appannato.
     
Roberto Bertacchini --- robertacchini@yahoo.it