Vanzan - Bertacchini
 
DALLA «BAGARRE» SUL CROCEFISSO
ALLA «MACROSFIDA» ETNICOCULTURALE DELLE IMMIGRAZIONI
P. Vanzan SJ e R. Bertacchini
Emblematica l’iscrizione nella Plaza de las Tres Culturas a Città del Messico: «Qui, il 13 agosto 1521, eroicamente difesa da Cuauhtémoc, Messico Thatelolco cadde sotto il potere di Hermán Cortés. Non fu né una vittoria né una sconfitta, ma il doloroso inizio del Messico meticcio di oggi». Vi è dunque un parto all’origine di una realtà nuova, che è integrazione di due culture: e gli studiosi notano che, tra i gruppi che formarono la popolazione della Nuova Spagna, solo i meticci incarnavano realmente quella società e ne furono la vera novità. Nella Storia situazioni analoghe ricorrono, pur con diversa velocità di integrazione. I Franchi erano una popolazione di lingua tedesca, inizialmente dominante, che nel volgere di pochi secoli si integrò a tal punto col vinto nemico da assumerne addirittura la lingua. Similmente Roma e la Grecia, dove con la conquista avvenne il raro fenomeno della colonizzazione culturale del vincitore. Nell’incontro dei popoli non è dunque ineluttabile battere la via della prevaricazione egemonica.
La situazione europea odierna evidenzia una fase di profonda transizione, di cui è segno emblematico la rilevanza quantitativa dei flussi migratori. Infatti, fino al crollo del muro (Berlino), non solo le percentuali di immigrati erano millesimali rispetto alla popolazione complessiva europea, ma anche si trattava di immigrazione endogena: europei in Europa! Oggi la tendenza è cambiata e, a breve, la presenza stabile di immigrati non sarà inferiore al 10% della popolazione e la maggioranza sarà extracomunitaria. Ciò si deve sia al flusso continuo dell’immigrazione extraeuropea (con alto tasso di prolificità), sia alla crescita zero della popolazione indigena. Lo scenario ipotizzabile tra 50 anni è di una composizione demografica profondamente mutata; e se nella compagine dell’Amministrazione Bush abbiamo Condoliza Rise e Powell, persone di colore in posti chiave delicatissimi (Segreteria di Stato ecc.), possiamo aspettarci che nel 2050, o forse prima, nel Parlamento e nel Governo italiano avremo persone di altra origine (magari extracomunitaria).
Questi scenari esigono di riflettere attentamente sul fenomeno, comprese le problematiche che suscita e il come ridurne gli inconvenienti. Quanto al fenomeno, occorre distinguere la valutazione del processo da quella sul suo modo storico e concreto di realizzarsi. Da un punto di vista teologico è ovvio che il traguardo escatologico - prefigurato nell’icona della Pentecoste: la convivialità tra diversi - sarà una società unificata, integrata e del tutto priva di quella struttura a scacchiera che, fino a pochi decenni or sono, vedeva - America, Australia e situazioni marginali a parte - i bianchi in Europa, i gialli in Asia e i neri in Africa. Se questo è il dato rivelato, per sé il mescolamento prodotto dalle migrazioni va nel senso del disegno della Provvidenza. Occorre però tener presente anche il fatto che, nel suo ubbidire, il demonio le tenta tutte per mandare all’aria i piani divini, e che la sua tecnica consolidata è quella di scambiare il prima e il dopo.
Ciò significa che dobbiamo analizzare i segni dei tempi. Se fino all’11 settembre 2001 le sirene xenofobe potevano facilmente essere derise, oggi sarebbe incauto non tentare un’analisi serena ma coraggiosa. Perciò, anche l’episodio del crocifisso di Ofena (AQ) merita attenzione perché rivela emblematicamente non solo una tendenza, ma anche gli scenari conflittuali che potrebbero aprirsi sul medio periodo. Senza fare collegamenti indebiti, non vanno sottovalutati vari fatti e segnali preoccupanti. Dopo i tragici fatti dell’11 settembre, le varie guerre che li hanno seguiti - e dilagano a preoccupante macchia d’olio (nonostante gli incessanti appelli del Papa) - e le varie forze oscure che, dietro le quinte, soffiano nel fuoco, quanto meno occorre più attenzione e cautela da parte di tutti.

Razzismo, xenofobia e maleducazione

Sul piano morale la condanna del razzismo non si discute, ma sul piano storico come dobbiamo leggere gli allarmi ricorrenti (antisemitismo, ecc.), spesso gonfiati dai media? Per rispondere, diciamo che si ha razzismo quando convergono due elementi: a) un senso di superiorità rispetto a una particolare etnia diversa dalla propria e una ideologia che la teorizzi; b) una prassi consolidata e significativa, che penalizza l’etnia ritenuta inferiore, sia isolandola socialmente, sia favorendo costumi o perfino leggi che diminuiscano oggettivamente le opportunità civili di tali etnie, o che addirittura ne minaccino gravemente la sopravvivenza. In questo senso il fascismo dell’ultimo periodo e il nazismo furono razzisti, come furono razzisti i bianchi del Sudafrica, della Rhodesia, o gli assassini di Luther King. E non fu razzismo solo quello antiebraico, ma anche quello antiarmeno e, probabilmente, non fu totalmente scevra di razzismo la politica americana verso i Pellerossa. Se accettiamo questa definizione, senza negare che oggi in Italia esista qualche razzista, bisogna ammettere che di questo aggettivo i media stanno abusando, e molto di quanto è spacciato come razzismo andrebbe derubricato.
Questione a volte grave, ma diversa dal razzismo, è la xenofobia. Il 2 novembre 2003 si è saputo di cinque ragazzi di Sezze (LT) finiti in carcere per aver organizzato pestaggi di extracomunitari locali. La motivazione fornita ai carabinieri è stata: qui da noi ormai gli «extra» sono troppi. Ciò significa che le vittime erano percepite da quei giovani come una minaccia. La coesistenza quotidiana non è scontata; le conversazioni fanno presto a schedare gli uni e gli altri; riaffiorano gli stereotipi - i negri sono pigri, gli albanesi ladri, ecc. - mentre i pregiudizi aggravano paure e conflittualità. E la situazione complessiva - dove gli allarmi si moltiplicano, sia a motivo della delinquenza comune, sia del terrorismo politico - favorisce l’opzione xenofoba. Essa può avere molte cause: dal timore che la figlia possa innamorarsi di un «extra», con tutti gli inconvenienti generalmente legati a simili matrimoni, ai pregiudizi grossolani o ai timori di natura economica, politica o sociale. In generale la paura è cattiva consigliera, perché le decisioni prese su base emotiva possono essere avventate, ma è pur vero che talvolta le paure sono motivate.
Consideriamo per es. l’immigrazione clandestina degli ultimi 15 anni, caratterizzata da costi esorbitanti. Se un albanese spende 3.000 dollari, l’ipotesi che quella cifra non sia del clandestino, bensì un prestito malavitoso a buon rendere, non è tanto fantasiosa. Se teniamo conto che nel 1992 il 50% del PIL albanese era dato dagli aiuti occidentali, come faceva un disoccupato a racimolare i 15.000 dollari necessari al traghetto suo e della famiglia? Con quella cifra avrebbe facilmente impiantato una piccola attività economica in loco, sufficiente per la famiglia. Perché allora una diversa scelta? Facciamo un po’ di conti. Supponiamo che il flusso annuo di clandestini sia di 100.000 unità, e che il costo sia di soli 1.000 dollari a testa. Ne deriva un flusso finanziario di 100 milioni di dollari annui, non correlabile al risparmio familiare, né ai normali flussi di credito. Da dove vengono dunque tutti questi soldi? Certo da qualcuno che ha interessi precisi, e allora è inevitabile che con questi interessi dovremo fare i conti nel medio periodo. Con questo non si vuole concludere troppo, ma certamente dietro non vi può essere un istituto di beneficenza. Perciò se la xenofobia è sempre segno di relazioni patologiche, occorre considerare che oggi i timori non sono assurdi. E solo una grande saggezza consentirà una transizione morbida verso nuovi equilibri. Saggezza che richiede di integrare le ragioni dei timori di chi si allarma con quelle di chi è aperto al futuro; perché se sono sterili le chiusure preconcette, la cecità imprudente potrebbe essere anche più disastrosa.

Società rispettosa dei vari colori o interculturalità a luce bianca?

Se il pluriculturalismo indica la presenza «accostata» delle varie culture in una società - evitando però la questione del se e come tali accostamenti favoriscano o meno il dialogo e la condivisione -, il multiculturalismo costringe a uscire dall’illusione che le persone/culture diverse siano naturalmente portate a fondersi, senza problemi, nel crogiolo di una cultura indifferenziata, o possano convivere distaccate, senza farsi male reciprocamente. In breve, quest’ultima teoria rifiuta sia la prevaricazione di un gruppo/popolo che, in una data zona/nazione, impone la sua cultura - lingua, usi e costumi -, ghettizzando le minoranze in un apartheid più o meno esplicito, sia la fuga in avanti nell’utopismo della grande fraternità indolore. Quindi, per superare tanto la violenza di una società/cultura dominante, che realizza un’integrazione fasulla, azzerando le differenze - o permettendo loro di sopravvivere nel ghetto/privato -, quanto il melting pot che, teoricamente, salva le identità ma senza fare vera comunione tra le diversità (non giungendo quindi alla sintesi della luce bianca, ossia alla convivialità di Pentecoste, come diremo più avanti), il multiculturalismo ricorre al riconoscimento. Questa parola/ categoria affronta le diversità etnicoculturali in chiave personalista, stabilendo una analogia tra la percezione che gli individui hanno di sé e degli altri - per cui il riconoscere questa percezione consente a ognuno di identificarsi e, nello stesso tempo, di identificare gli altri - e la percezione delle culture al loro interno e nel rapporto con le altre.
Questo modellare il dinamismo tra le culture sulle relazioni interpersonali consente il guadagno della concatenazione: diversità culturali, percezione delle differenze legate a questa diversità, identità delle rispettive culture in gioco. Il riconoscimento, quindi, non solo costituisce il perno di questa articolazione, ma insieme la fonda sulla diversità umana, qual è percepita dagli individui. Il problema allora sta nel fondare i diritti culturali (particolari e universali) su un’adeguata legittimazione politica. E la risposta multiculturale riconosce socioculturalmente l’uguale dignità e le differenze, anche con tutele politiche. La pari dignità esige reciprocità di diritti/doveri; le differenze postulano di riconoscere (e tutelare) l’identità unica di ciascun gruppo (e relativa cultura specifica). Sono le due facce vicendevoli, non sempre facilmente coniugabili, del riconoscimento. Ignorarle o confonderle porta a giustificare la dominazione e a tradire l’ideale di autenticità che è la base della modernità, a sua volta garantita con una democrazia matura. Il multiculturalismo ha tentato di articolare queste due facce - ogni cultura è particolare/diversa, ma nello stesso tempo dev’essere vista (dalle altre culture) e trattata (dalle istituzioni) alla pari - cercando la «via di mezzo» tra un riconoscimento omogeneizzante, che appiattisce tutti in un grigio uniforme, e un riconoscimento isolante, che semplicemente accetta e tutela i vari colori, ma tenendoli staccati (relegati all’interno di criteri etnocentrici). Un’operazione mirata a realizzare quella che Taylor definisce una «nuova mescolanza» tra le diverse culture presenti nel villaggio globale: non tanto per evitare conflitti, quanto per realizzare quell’inedita armonia che, mediante il «riconoscimento trasformante», sarà opera dell’interculturalità: via alla luce bianca della convivialità (Pentecoste).
Il multiculturalismo, di fatto, non va oltre queste due proposte: o realizzare una società che accolga le diversità culturali, attraverso gli individui diversi, con l’intenzione di fonderli un po’ alla volta in una nuova cultura trasversale o, al contrario, realizzare una società che si apra alla diversità dei gruppi, accettando i loro diversi progetti di vita e dando loro facoltà di modellarseli concretamente. Esempio del primo modello sarebbe quello francese, dove leggi e politiche repubblicane sono uguali per tutti e assicurano l’identità sociale comune - per cui ogni ineguaglianza è una grossolana discriminazione -, mentre le particolarità (usi e costumi) vengono rinviate alle scelte individuali e hanno diritto di cittadinanza nella misura in cui non si oppongono al comune quadro di riferimento o legislazione generale. L’altro modello è quello canadese, dove per legge è fissato un certo numero di esigenze collettive - l’uso della lingua francese e di altre peculiarità collettive nel Quebec -, in mancanza delle quali (non omologabili a quelle del Canada inglese) la sopravvivenza della collettività francese sarebbe in pericolo.
Insomma, al multiculturalismo - cui va il merito d’aver scoperto la categoria del riconoscimento (socioculturale e politico) - si rimprovera una prospettiva minimalista: quella del vivi e lascia vivere, che senza meno è preferibile alle lacerazioni esasperate, ma resta molto al di sotto delle esigenze di comunione profonda, inscritte nel nostro statuto antropologico. A queste esigenze tenta di rispondere l’interculturalità, sviluppando il dato acquisito che le differenze tra umani e le conseguenti dinamiche interpersonali si ritrovano poi sostanzialmente nelle diversità e relazioni interculturali (e sono l’oggetto stesso del riconoscimento). Quindi, si tratta d’individuare e gestire correttamente questi dinamismi profondi - cuore del riconoscimento - e favorire lo spazio nuovo che può (dovrebbe) schiudersi - come nelle relazioni interpersonali - tra le diverse culture. Le democrazie, poi, non dovrebbero ostacolare, ma favorire l’avvento di tali spazi e novità da cui c’è solo da guadagnare. Infatti riconoscere l’altro nella sua cultura vuol dire affermare insieme la propria, sicché per entrambi il riconoscimento comporta un processo di trasformazione che, idealmente, li porta a superarsi nel tertium et novum, altro da entrambi. Solo il «riconoscimento trasformante», infatti, è funzionale alla «luce bianca» da perseguire nell’incontro/scambio (ma vitale) tra gruppi/popoli diversi (come nell’icona di Pentecoste).

Verso un «meticciato etnicoculturale»: prospettive e difficoltà

Le famiglie di origine asiatica o magrebina i cui figli vanno a scuola e giocano nel cortile coi figli di italiani, si definiscono certamente in base alle loro origini e, se provocate, le rivendicano con orgoglio, ma sovente sono cambiate profondamente dal loro arrivo. Sono aumentati i contatti dei genitori - sul lavoro o nel tempo libero, al mercato o guardando la televisione - e le interferenze si avvertono; ma ancor più cambiano i loro figli andando a scuola. Basta osservare l’abbigliamento, i gesti e ascoltare le conversazioni: questi immigrati sono al contempo laggiù e qui: sono parte in causa di una situazione nuova, coinvolti in un processo che li trasforma. Ma pure noi siamo cambiati: non siamo più gli stessi che li accolsero al loro arrivo. Non avendo parole/categorie sufficienti per dire quanto avviene - multiculturale, infatti, è rivolto all’origine, mentre qui è in gioco l’avvenire -, usiamo la parola/categoria interculturale, mettendo nel prefisso inter l’andirivieni che modifica singoli, gruppi e culture in direzione postmoderna. Entriamo ora in un’analisi più raffinata. Se nostra figlia ha sposato un extracomunitario che si dimostra un bravo marito e un padre affettuoso, non può non crescere la nostra stima degli immigrati. Ma da qui a dire che la nostra cultura sta crescendo ce ne corre. Certo, l’accettazione del passaggio da una situazione a scacchiera - coi tedeschi in Germania, i polacchi in Polonia ecc. - a una di rimescolamento all’americana è effettivamente un mutamento culturale non da poco.
Ma esso è ben diverso dall’inteculturalità romana, che portò i patrizi a parlare e scrivere in greco. Manzoni scriveva correntemente in francese. Oggi il ceto dirigente manda i figli a studiare in Inghilterra o in Svizzera o in America, e cresce rampolli che parlano e leggono l’inglese fluently. E nel lessico corrente non troviamo certo alimbombò per dire buon giorno, ma parole inglesi, o espressioni francesi come tout court, indicanti che una precomprensione straniera è passata nella nostra lingua, dato che capiamo il senso del discorso. Dunque le tracce linguistiche dicono che qualcosa della cultura francese e in maggiore misura di quella angloamericana è entrato nella nostra. Ma non si può andare tanto più in là. I nostri giornali un tempo citavano la Pravda e le Izvestia; oggi al massimo si cita un quotidiano israeliano. Giornali argentini o boliviani non sono mai citati; figuriamoci quelli angolani. Invece in quei giornali si citano le fonti d’informazione occidentale: i flussi vanno da Nord a Sud e non hanno reciprocità Sud-Nord. In letteratura fra i Nobel - Tagore e un paio di cileni a parte - non è tanto facile trovare il premio assegnato a qualche esponente del Sud del mondo. L’elenco degli indicatori potrebbe continuare, ma il sugo è ristretto: il Nord importa dal Sud prodotti e braccia, ovvero lo usa per i propri viaggi di piacere (non escluso il turismo sessuale) mentre esporta sapere, mentalità, tecnologia, malattie, dollari e, ormai, anche euro.
L’unico fenomeno in controtendenza è quello delle conversioni religiose con abiura del cristianesimo: «nuovi buddisti», «nuovi musulmani», ecc. Ma anche in questo caso è discutibile che si tratti di interculturalità, perché non è la cultura occidentale che è maturata, assumendo valori forti dell’islamismo ecc., bensì singole persone che, per opportunità o altro, hanno deciso di aderire a una diversa fede. Certo, oggi può capitare che qualche volta ci prepariamo il cuscus o che proviamo un ristorante cinese: ma si tratta di estrosità o fruizione di beni, non certo di assumere una mentalità. L’ideale cui alludiamo deve andare ben oltre tali estrosità, né accontentarsi di più o meno curiose (e riuscite) mescolanze. Infatti, non si tratta di confondere o abolire le differenze, né di separarle (ghettizzando le varie identità), o di colonizzarle (trasferendo alla colonizzata i difetti di quella colonizzante, a scapito dei suoi antichi valori); bensì di far nascere il tertium quid: un «nuovo e altro» che, prendendo da entrambi, vada oltre: sul modello dell’uguaglianza differenziata che si à nell’incontro uomo-donna e nella conseguente relazione genitori-figlio.
Come nel bambino meticcio, nato da genitori etnicoculturalmente differenti - e che prende da entrambi, ma porta la novità imprevedibile nata dal loro incontro -, così avviene (dovrà avvenire) nel meticciato tipico del futuro «villaggio globale»: lungi dall’eliminare le culture di provenienza o quelle del Paese che ora si abita, l’identità nuova scaturisce da entrambe ma, insieme, schiude ciascuna alle possibilità dell’altra. Il meticciato etnicoculturale, quindi, prevede l’incontro tra gruppi e culture non «nonostante», bensì proprio «mediante» l’alterità: un rischio, ma anche una possibilità inedita di trasformare vitalmente, dall’interno (per reciproca fecondazione) le culture, fino a generarne una nuova. Questo processo richiede tempi lunghi, come vediamo nelle macrodifferenze esistenti tra la fase conclusa del meticciato «riuscito» in Messico e quella ancora in fieri delle infiltrazioni messicane (lingua spagnola e relativi costumi) in California. La riuscita postula che l’accennato «riconoscimento trasformante» vada nelle profondità non solo di ogni persona e cultura in sé, ma anche del loro relazionarsi verso ogni altra persona e cultura, sviluppando le positività viste nel multiculturalismo.
Si è detto «un rischio», e occorre spiegarci. Scrive A. Pacini, riferendosi agli immigrati non cristiani, «occorre curare che la loro percentuale non superi una certa soglia rispetto alla popolazione giovanile che frequenta il singolo oratorio, pena, altrimenti, lo snaturamento della stessa identità e finalità religiosa della struttura pastorale cattolica, e il probabile sviluppo di tensioni nel gruppo». Verrebbe da pensare che Pacini sia bossiano, e invece no: «È quanto si è sperimentato a Torino in qualche oratorio situato in quartieri ad alta concentrazione di immigrati, dove proprio l’alto numero di giovani magrebini ha finito per rendere ingestibile la struttura, annullandone la finalità e la portata pastorale, anche solo sul piano della promozione della maturità umana». Ciò ribadisce il sospetto che qualcuno intenda strumentalizzare l’ingenuità cattolica e il Piano escatologico del buon Dio per portare avanti l’opposto disegno di scristianizzazione.

Per una conclusione aperta e il ruolo della Chiesa

In breve, urge moltiplicare la prudenza. Se infatti Algeria, Libia, Maldive, Malaysia, Mauritania, Pakistan, Singapore, Turchia, Tunisia hanno sulla bandiera la mezzaluna, inequivocabile simbolo islamico, nel momento in cui Adel Smith chiede la rimozione del crocifisso scolastico potrebbe essere tragico mostrarsi ingenui. Pare ovvio infatti che un eventuale processo di islamizzazione dell’Occidente richieda una fase-1 di completamento della scristianizzazione in atto, e una fase-2 di egemonia islamica. Cedere sulla fase-1 è dunque un suicidio o, quanto meno, un incoraggiare quanti, avendo in mente la fase-2, pensano di aumentare l’impegno. Ancora Pacini, nel citato articolo, bolla come errore gravissimo un malinteso senso di carità che renda invisibile l’identità cristiana delle Istituzioni cattoliche, cedendo locali per culti non cristiani, o anche solo togliendo i crocifissi alle pareti se entra un musulmano.
Ne segue che la questione del crocifisso nelle aule scolastiche è molto delicata. Farne un dogma da difendere sarebbe un errore, ma non negoziarne con abilità l’eventuale rimozione - che anche gli ebrei desiderano, perché rimuove una memoria a loro fastidiosa - sarebbe deprecabile. Ecco perché è importante precisare i termini del negoziato, anche ricordando la vigente legge che prevede di mettere il crocifisso in ogni pubblico ufficio, e non solo alle elementari. Tre sono i punti a nostro avviso irrinunciabili: a) se un laico ha diritto che il proprio figlio non esca cristiano per effetto sociale (scuola, ecc.), si deve riconoscere un pari diritto ai genitori cristiani: non vedere i propri figli ateizzarsi per effetto sociale, come oggi avviene; b) è tassativo il riconoscimento del valore civile del cristianesimo, con una profonda inversione sia nelle tendenze culturali egemoni, sia nella formazione pubblica, dove spesso se non è già l’insegnante di religione che fa karakiri, e si dà il caso felice che l’insegnante di lettere non gli remi contro, ecco intervenire quello di matematica o di scienze a fare le bucce; c) non si può consentire che l’immigrazione musulmana avvenga senza paletti. Una eccessiva velocità dei flussi non solo decelera gli auspicati processi di loro inserimento/occidentalizzazione - nel senso di temperarne (pur rispettandole) le native identità socioculturali e religiose -, ma anche rafforza le spinte fondamentaliste che, non raramente, profittano degli alti numeri e correlativi disagi nella sistemazione.
I problemi sono dunque molti e le soluzioni non facili: contiamo riparlarne in un prossimo studio. Ma fin d’ora concludiamo ricordando almeno due vistose icone o notevoli laboratori di vita e prassi meticce, già in atto nella Chiesa. Anzitutto certi Istituti di vita religiosa, la cui mescolanza etnicoculturale non solo è fondazionale ad intra - in quanto, per costituzione, devono essere «testimoni dell’ottavo giorno», come avanguardia escatologica nel «frattempo della storia» -, ma anche sostengono efficaci percorsi di convivialità ad extra: pensiamo all’emblematico stile di accoglienza realizzato dalla beata Madre Teresa di Calcutta, e continuato dai suoi Istituti, nelle varie parti del mondo (e con l’ostello Dono di Maria, in Vaticano). L’alta icona, e relativo laboratorio d’incontro etnicoculturale, ci viene dalle Comunità di accoglienza, dove a volte non solo grande è la collaborazione ad intra (tra preti, laici e religiosi), ma anche notevoli sono le realizzazioni ad extra, proprio nell’orizzonte del suddetto meticciato etnicoculturale. Importanti sono anche i rapporti istituzionali tessuti tra Caritas, Fondazione Migrantes ecc. e le Istituzioni politiche e Amministrazioni pubbliche. È chiaro che l’illegalità è incompatibile con una ordinata vita civile, e che vanno perseguite le forme di criminalità organizzata; è altrettanto vero che la legislazione è sempre in fieri e perfezionabile, stante il continuo mutare del fenomeno qui a tema; e che, inoltre, nel caso particolare sarebbe di grande giovamento una più stretta collaborazione tra il Governo e le Istituzioni ecclesiali.
Merita infatti ricordare che le tante Comunità di accoglienza, i 3.000 centri di ascolto della Caritas e i mille altri punti d'incontro ecclesiali - specializzati nel dare informazioni circa la normativa italiana ai loro assistiti e nel cercare di far loro recepire le possibilità ivi contenute - disponendo di informazioni che sovente gli Enti pubblici non hanno, favoriscono sia maggiori sinergie tra pubblico e privato, sia un migliore aggiustamento della legislazione esistente. In breve, sono laboratori che tentano di preparare quella prospettiva di interculturalità di cui si è detto. Sul piano ideale si tratta del «già e non ancora» delle mirabilia Dei iniziate nel Gesù storico e da completare nel Cristo mistico: essere diversi, eppure uniti, ossia «i molti uno» (Gv 17, 21s). Senza questo apporto cristiano - realizzante l’unità nella diversità e l’uguaglianza soprannaturale (tutti filii in Filio), ossia differenziata, perché rispetta e valorizza ogni identità (come nella reciprocità asimmetrica delle membra nell’unico Corpo) -, tarderà l’avvento di una società multietnica e interculturale, tipica del futuro «villaggio globale», e l’alternativa sarà una «guerra delle culture» (e tra le religioni). Quanti non vogliono questo tragico esito devono impegnarsi - cristiani espliciti o anonimi che siano, ma tutti uomini di buona volontà - a riprendere l’utopia concretissima della Pentecoste (luce bianca del meticciato etnicoculturale), realizzando tutti insieme quell’avanguardia del veniente Regnum Dei che, sola, garantisce la pace nella giustizia.
     
Roberto Bertacchini --- robertacchini@yahoo.it